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Giangiacomo Ciaccio Montalto e quelle ombre su Trapani ancora oggi attuali

Fabrizio Feo il . Diritti, Droga, Economia, Giustizia, Istituzioni, Mafie, Memoria, Politica

Quella di Giangiacomo Ciaccio Montalto, magistrato ucciso dalla mafia è una storia di 43 anni fa, ma parla di fatti incredibilmente attuali.

È la sera del 25 gennaio dell’83. Il sostituto procuratore della repubblica di Trapani Ciaccio Montalto parcheggia la sua Golf davanti al cancello della villetta di Valderice, dove abita. Porta con sé un thermos pieno di caffè. È già passata l’una ma vuole continuare a lavorare. E conta di restare sveglio, forse, fino all’alba.

Non sa che ad attenderlo ci sono i killer di Cosa Nostra. Gli assassini cominciano a sparare mentre il magistrato sta per scendere dall’auto. Lo raggiungono 14 proiettili, di diverso calibro, dice l’autopsia, ma sul luogo del delitto vengono trovati ben 23 bossoli. Un proiettile colpisce anche l’orologio dell’auto che si ferma alle 1.12 a.m. Il delitto viene compiuto in un’area densamente popolata, villette vicine l’una all’altra. Eppure, nessuno dirà di aver sentito anche uno solo di quei 23 spari. Nessuno, fino alle 6.30 vedrà il corpo del sostituto procuratore, riverso tra posto di guida e sedile del passeggero. La mattina dopo il Presidente della Repubblica Sandro Pertini convoca un plenum straordinario del Consiglio Superiore della Magistratura, nell’aula magna del palazzo di giustizia di Palermo.

Ancora pochi giorni e Giangiacomo Ciaccio Montalto avrebbe lasciato Trapani per andare ad occupare una stanza alla Procura di Firenze, dove voleva continuare il proprio lavoro. L’intuito e soprattutto molti indizi dicono al magistrato che le tracce di Cosa nostra trapanese, legatissima ai corleonesi e perfino ai napoletani – fra grandi traffici e riciclaggio di denaro in imprese, società e banche -, portano anche in Toscana. E, probabilmente, si è ormai convinto che a Firenze sarà meno solo.

E comunque – come emerge dagli atti dell’inchiesta sull’omicidio e dai documenti del Consiglio Superiore della Magistratura – Ciaccio Montalto in quel momento stava ancora lavorando su vicende trapanesi, all’emissione di un buon numero di  ordini di arresto nei confronti di insospettabili e figure di spicco dell’imprenditoria. E stava indagando anche su alcune persone sospettate di legami o di essere inserite in Cosa Nostra, attive in Toscana. Personaggi i cui nomi erano comparsi in occasione di alcuni delitti accaduti nei pressi di Firenze. Erano molte tracce che portavano lì e indicavano che nel fiorentino la mafia aveva messo radici, tessuto rapporti con personaggi di spicco del mondo industriale ed istituzionale.

A Trapani dal ’71, in 12 anni Ciaccio Montalto diventa il database vivente di fatti che negli anni successivi mostrano tutta la loro gravità. È la provincia in cui il sistema bancario è rigonfio di soldi fino all’inverosimile, a dispetto del basso reddito medio pro capite. Il magistrato vede giusto su molte cose, va dritto per la sua strada e colpisce famiglie e beni mafiosi, organizzazioni dedite al traffico di eroina e a quello di armi, alla sofisticazione alimentare, alle truffe ai danni della Comunità europea, ai lavori per la ricostruzione del Belice, si occupa di indagini su vicende di corruzione che coinvolgevano cosche del trapanese e figure  delle istituzioni, anche magistrati, delle ricerche su una grande raffineria di droga nel territorio trapanese.

Ciaccio Montalto è il primo ad indagare sulle cosche trapanesi. E si convince che non ci si può occupare della mafia solo quando ci si imbatte in fatti e dunque in procedimenti che conducono ad essa. Il magistrato ritiene che sia necessario analizzare costantemente ogni elemento che ha a che fare con la criminalità organizzata, i suoi interessi, la sua attività e che si debba creare un insieme di strumenti investigativi che consentano di avere costantemente la percezione e una  visione complessiva degli affari delle cosche.

Il magistrato colpisce i mafiosi – e tanto – anche nelle tasche. Minaccia i loro affari. E loro si scocciano. Dovunque vada deve essere fermato. Ciaccio Montalto sa che rischia grosso. “Rimpiango di non avere disubbidito al suo volere e di non avere scritto subito quell’intervista»: racconterà lo scrittore e giornalista Vincenzo Consolo dopo l’omicidio del magistrato. Consolo si trova a Trapani e segue per il quotidiano palermitano «L’Ora» il processo a Michele Vinci, sequestratore di tre bambine poi uccise, ribattezzato dalla stampa “il mostro di Marsala”.

Proprio durante il processo il magistrato chiama Consolo e gli chiede di incontrarlo. Lo invita a cena a casa sua a Valderice. Con loro quella sera c’è solo la moglie di Giangiacomo.

Il sostituto procuratore parla delle minacce subite, del suo senso di isolamento, dei suoi timori, ma gli fa giurare di pubblicare il racconto solo se gli “succederà qualcosa”. “Scusi, – gli chiede Consolo – ma queste cose non deve dirle ai suoi superiori?”. Ciaccio Montalto lo fissa e risponde: “Di loro non mi fido”. E quel qualcosa succede davvero.

Alla morte del magistrato Consolo pubblica il racconto del suo incontro con il magistrato e le cose che questi gli aveva raccontato. Immediatamente Leonardo Sciascia – allora deputato – presenta un’interrogazione sul delitto e su Trapani.

«Ciaccinu arrivau a’ stazione», cioè alla fermata, alla fine dei suoi giorni, pare sia il commento del capomafia Mariano Agate, considerato ispiratore e tra gli esecutori del delitto, condannato insieme Totò Riina il 12 giugno 1998 dalla Corte d’assise di Caltanissetta, confermata dalla Corte di cassazione nel dicembre 2001.

Mentre oggi qualcuno si chiede se su quella scena del crimine sia comparso anche Matteo Messina Denaro vale la pena di  ricordare che una delle armi che uccidono Ciaccio Montalto proviene da un’armeria delle famiglie mafiose catanesi. Strano. Catanesi proprio come le tracce trovate nell’omicidio del sindaco di Castelvetrano Vito Lipari, delitto legato agli affari per la ricostruzione del Belice devastato dal terremoto, affari su cui Giacomo Ciaccio Montalto aveva indagato.

Dopo l’omicidio di Lipari due uomini vengono fermati a un posto di blocco, con la macchina piena di armi e munizioni. Uno si chiama Benedetto, Nitto, Santapaola, che qualche tempo dopo verrà indicato come il boss dei boss della mafia catanese. L’altro il boss di Mazara Mariano Agate. Santapaola e Agate dicono che le hanno usate per una battuta di caccia: vengono rilasciati.

Agate, i catanesi, due delitti e le stesse ombre. Ombre trapanesi, un gioco infinito.

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