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Condizioni intollerabili per gli stranieri in alcuni Cpr

Piero Innocenti il . Diritti, Istituzioni, Migranti, Politica, SIcurezza, Società

Le condizioni disumane di trattenimento dei migranti e le pessime gestioni rilevate negli ultimi mesi in alcuni Cpr, con una vergognosa carenza di controlli e di vigilanza, come emerso anche da recenti inchieste della magistratura, ripropongono il tema della accoglienza e  della tutela dei diritti umani in tali strutture dove pure ci sono stati casi di suicidi  (per ultimo, un guineano di 22 anni, nel Cpr di Milano commissariato dall’a.g. dal dicembre scorso).

Ricordiamo che è stata la legge Turco-Napolitano (L. 6 marzo 1998, n.40) a prevedere per la prima volta la possibilità di trattenere i destinatari di provvedimenti di espulsione in apposite strutture definite “centri di permanenza temporanea e assistenza” (Cpta), trasformati nel 2011 in “centri di identificazione ed espulsione” (Cie) per essere ancora modificati in “centri di permanenza per il rimpatrio” (Cpr) con il decreto legge 17 febbraio 2017, n.13 (convertito con modificazioni dalla L.13 aprile 2017, n. 46).

La durata del trattenimento era inizialmente di 30 giorni (legge Turco-Napolitano) passata a 60 giorni con la legge Bossi-Fini del 2002, ai 180 giorni con il “Pacchetto sicurezza”del 2008, per arrivare al limite massimo di 18 mesi (decreto legge 19 settembre 2023, n.124). Ignorato, ma non è una novità, quanto aveva deliberato il Parlamento nel 2017 in merito alla necessità di ridurre i tempi di trattenimento fino ad un massimo di tre mesi.

L’obiettivo del governo è quello di incrementare il tasso dei rimpatri – mediamente oscilla intorno al 50% di coloro che sono trattenuti nei Cpr – trattenimenti che dovrebbero rappresentare una extrema ratio (direttiva 2013/33/UE), se nei casi concreti non sia possibile applicare più efficacemente una delle misure meno coercitive indicate nell’art.14, coma 1-bis del testo unico sull’immigrazione.

Impossibile l’ampliamento dei Cpr previsto dalla legge 2017/46 per assicurare la distribuzione di tali strutture sull’intero territorio nazionale (insuperabili le forti opposizioni da parte di sindaci e cittadini alla costruzione di tali centri), con “strutture di capienza limitata idonee a garantire condizioni di trattenimento che assicurino l’assoluto rispetto della dignità della persona” (legge citata).

Peraltro, i trattamenti inumani e degradanti praticati in danno degli stranieri trattenuti  rilevati nel Cie di Bari nel 2017, portò alla sentenza di condanna di quel Tribunale nei confronti della Presidenza del Consiglio dei Ministri e del Ministero dell’Interno a versare un risarcimento agli enti locali, oltre al pagamento delle spese processuali, per i danni al prestigio e all’immagine della comunità territoriale tutta “da sempre storicamente dimostratasi aperta all’ospitalità, per via delle scelte gestionali dell’amministrazione statale” (che già nel 2014 aveva disatteso un precedente provvedimento giudiziario con cui si intimava all’amministrazione di effettuare opere di manutenzione dei servizi igienici e di ampliamento dei locali).

È nata, così, la strampalata idea di costruire un Cpr in Albania (il progetto prevede una capacità ricettiva di 3mila posti!) oltre ad un hotspot nelle vicinanze, gestito dalle nostre autorità (costo iniziale stimato di circa 700milioni di euro) dove concentrare i migranti soccorsi in mare, sotto la vigilanza interna di poliziotti italiani ed esterna affidata alle autorità albanesi.

Il progetto è ancora in itinere e sono molte e condivisili le obiezioni mosse sul piano politico e più in generale su quello giuridico, di rispetto delle norme di diritto interno, comunitario e internazionale.

Semplicemente ridicolo pensare così di aumentare il tasso dei rimpatri (nel 2023 sono stati 2.355 a fronte di quasi 20mila ordini di lasciare il Paese) che è sempre stato basso e non attribuibile al sovraffollamento delle strutture, bensì alle difficoltà legate all’accertamento della identità degli stranieri trattenuti in relazione all’intervento delle autorità consolari dei paesi di provenienza.

Per l’identificazione ai fini dell’espulsione è, infatti, necessario il riconoscimento dello straniero da parte del console e successivamente il rilascio del documento per effettuare il rimpatrio.

Tutte attività che saranno ancor di più problematiche se si dovesse realizzare il Cpr “monstre” in Albania (paese, oltretutto, come noto, non membro dell’UE).

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Morire di Cpr

La gestione vergognosa dei Cpr

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