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Tassisti latinisti e studenti tangheri. Prima della politica arrivano sempre le persone

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Il 25 settembre? Il fatto vero è che siamo una società spaccata. Con gradazioni intermedie. Ma radicalmente, spaventosamente spaccata.

Non però per le opinioni politiche, che rispetto a certi fenomeni appaiono una questione minore. Ma per le condizioni di vita, che vanno letteralmente dalle stalle alle stelle. E per i modi di essere e di fare, che a loro volta non hanno molto a che fare né con le opinioni politiche né con le appartenenze di classe.

Dopo il voto me lo hanno fatto pensare due minuscole scene di vita. Una ascoltata, una vista in diretta.

La prima è da Oscar. Un taxi a Roma Termini.

Un tassista spiritoso che mi parla bene del suo lavoro, invece di maledirlo. Perché gli lascia, dice, una certa elasticità nell’uso del tempo, vietata agli impiegati che devono chiedere sempre il permesso. Lui può coltivarsi degli hobby a tutte le ore.

Per esempio, mi confida, un giorno gli è venuta voglia, a lui romano, di conoscere il latino. Ha fatto le scuole tecniche e non ha potuto studiarlo. E a un certo punto ne ha avuta l’occasione: grazie a una anziana professoressa di greco e di latino in pensione. “Sa, una di quelle signore eleganti con una grande collana, con la casa piena di libri”. Durante una corsa le ha detto di questo suo desiderio. Di diventare più colto, di mettersi in pari con chi il latino l’ha potuto studiare.

Lei allora si è offerta di fargli delle lezioni, i costi si potevano dividere tra più allievi. E ha messo a disposizione il proprio appartamento. Così ogni settimana tre tassisti (tre tassisti) andavano da lei a imparare le declinazioni. “Allora ho capito perché è difficile: a seconda dei casi le parole si pronunciano diversamente”. Però il nostro ha pure capito che le parole d’oggi vengono da quelle latine e si è innamorato dell’etimologia. E di certi modi di dire. Come “sine die”.

Purtroppo la professoressa non c’è più. Così è finito questo gioiellino di fiducia e di ospitalità, visto che in fondo la prof ha aperto, pur essendo sola, la casa a degli sconosciuti. E che questi le si sono affidati, per diritti di età e di cultura. Una storia da film, con splendide venature ironiche.

La seconda scena mi capita invece sotto gli occhi in autobus a Milano.

Seduto davanti a me c’è uno studente, con accanto coetanea su cui far colpo. Prende il telefonino e la prima parola che sento è “nonno”. Mi intenerisco. Penso che questi ragazzi apparentemente così rudi nei modi di fare cercano i loro nonni. Sono molti d’altronde che gli dedicano le tesi di laurea.

Ma il contatto con il nonno dura poco, lui non ci sente, forse è in un posto con poca rete. Il ragazzo allora chiude irritato il cellulare, poi tira una bestemmia, poi lo richiama. Il nonno indugia a rispondere, “e dai, muoviti”. Allora chiama la nonna e lì si manifesta la ragione della chiamata. “Glielo puoi dire al nonno di venirmi a prendere a casa? Sì lo so, ma ho lasciato delle cose a casa e devo passare a prenderle”.

Si capisce che la nonna ci proverà a dirlo al nonno di servire bene il signorino. La conclusione è che lo studente chiude di nuovo il telefonino e commenta “che coglioni”.

Dicesi uso strumentale di essere umano. Lo studente non è affetto da bipolarismo. È naturalmente così. Una scena tanghera.

Tra il tassista cinquantenne e questo diciottenne, che forse un giorno cambierà, c’è un abisso di umanità. Che troveremmo ovunque, anche a età rovesciate. Sono questi abissi che interrogano, e colpiscono più delle differenze politiche.

Al di là delle sigle di partito la polis passa da qua. Dai modi di fare, di cui una città, un intero paese, è la risultante. Meloni o non Meloni, Letta o non Letta. Perché non lo capiamo?

I vincitori politici e i leader cambiano come il vento perché la politica è una entità superficiale, leggera. La sostanza vera e resistente è l’antropologia che le sta sotto.

* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 03/10/2022

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