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Nel campo di San Ferdinando

Pina Porchi * il . Calabria, Criminalità, Diritti, Giustizia, Mafie, Migranti, Politica, Società

Il 18 dicembre 2021 un gruppo di magistrati calabresi si è recato a visitare il campo di San Ferdinando dove vivono, in precarietà, i migranti che lavorano come braccianti agricoli nella piana di Gioia Tauro, incontrandoli insieme ad alcune delle persone che si occupano di tutela dei diritti in quel contesto.

Dai materiali iconografici realizzati dai partecipanti è stato ricavato un documentario. Una delle partecipanti all’incontro ha affidato le sue riflessioni a un testo che è stato utilizzato come commento alle immagini.

La mia prima convalida dell’arresto: un ragazzo che aveva rubato lamiera nel capannone abbandonato della ferrovia, a San Ferdinando. Mi disse che ne aveva bisogno per la sua casa nel campo – e ripeteva: «è bruciato tutto, io devo rifare casa».

Qualche tempo dopo furono arrestati in tre. In ciascuno dei loro zainetti navigavano: tessera di Emergency e psicofarmaci. Uno di loro mi disse: «io lavoro tutto il giorno, ma la mia testa non sta bene». Gli chiesi cosa avesse la sua testa, rispose: «pensa troppo al passato, poi non riesce a dormire».

La vita del giudice è fatta di montagne di carta, ma l’umanità tende a squarciare le pagine con pugni ben assestati. Pugni che a volte si aprono e mostrano frammenti di linee.

Nei giorni che precedono la visita al campo si cerca di immaginare ogni possibile intoppo, si consultano i volontari per chiedere come comportarsi, come parlare, come non sbagliare. La quotidiana fermezza della penna nel firmare irretrattabili PQM si discioglie in una trepidazione da primo appuntamento.

Loro ci preparano al peggio: descrivono la rabbia, la frustrazione, l’isolamento, la stanchezza, la tensione, il rifiuto di ogni rigurgito di carità da parte di un mondo colpevole di abbandono. Noi comprendiamo, riflettiamo, ci guardiamo e sospirando ripetiamo: «proviamoci».

In quei giorni ho momenti di forte amarezza: è triste scoprirsi così poco allenati a immaginare un aiuto che non sia elemosina.

Nel pomeriggio del 18 dicembre raggiungiamo l’area del campo in macchina, guidati dai nostri mediatori, allontanandoci progressivamente dal centro abitato; ci dirigiamo fisicamente e idealmente fuori dalla Polis (dove non ci può essere Oikos).

Le Nazioni Unite hanno già posizionato, ben visibile al mondo, una lunga fila di parole come pietre lucide: «informal settlements that are geographically isolated», «located close to the fields» – le più pesanti aprono e chiudono la riga e sono: «contemporary form of slavery».

Nell’andare viaggiamo affiancati da ragazzi in bicicletta che rientrano dal lavoro.

Così la storia ha potuto creare questa nuova categoria di uomini, al crocevia tra la realtà bracciantile e la condizione di migranti: l’incrocio tra due voragini senza fondo.

Giuseppe Lavorato, scrivendo di Rosarno, ha cercato di spiegare la peculiarità terribile della condizione di braccianti: la difficoltà degli scioperi, la riduzione al grado minimale delle garanzie, la precarietà ineluttabile dettata dalle stagioni.

Un piano inclinato verso l’intollerabilità, Steinbeck direbbe verso il Furore – «nell’anima degli affamati i semi del furore sono diventati acini e gli acini grappoli ormai pronti per la vendemmia».

Ritrovarsi asserviti alla terra determina una frattura nell’intimo, perché le braccia raccolgono cibo ma l’uomo resta affamato. Orrore sul volto di Adamo: il giardino trasformato in prigione.

Nel campo di San Ferdinando, al tempo della nostra visita, manca l’elettricità e manca l’acqua calda. Il vento impazza nella campagna e scuote le tende azzurre.

Facciamo un timido cerchio intorno ai nostri accompagnatori e, memori degli ammonimenti dei giorni passati, con cautela chiediamo di poter sapere un pensiero, un bisogno. Ci poniamo all’ascolto.

Ma gli abitanti del campo non esitano, hanno la pazienza di ripetere a nostro beneficio cose che certamente avranno già detto, e chissà quante volte, e da chissà quanto tempo.

Prende la parola un ragazzo che con vivida intelligenza e con logica ferrea ci spiega come si svolge la vita nel margine nascosto del mondo. Ci illustra, con voce ferma ma gentile, quel limbo dello Stato di diritto, in cui tendono a incistarsi tutti i paradossi più insostenibili. Ci vive da dieci anni.

Per avere un lavoro, vero e non nero, occorre il permesso di soggiorno. Ma i tempi della burocrazia sono immensi e non calibrati sul ciclo delle stagioni: il permesso arriva dopo la scadenza del contratto. Il permesso, sostiene il ragazzo, arriva spesso già scaduto.

Le forze di polizia controllano il campo, dice, e vedono ciascuno uscire in bicicletta ogni giorno e fare rientro la sera. Perché allora i datori possono ancora registrare meno giornate di quelle effettive? Ci sta dicendo: state guardando dal lato sbagliato. Ci sta dicendo: dovreste ricalibrare la posizione delle vostre telecamere di sorveglianza – quanto vicino al dito, quanto distante dalla luna? Ordine pubblico o diritti fondamentali?

Esistono alloggi costruiti per i migranti, ma mai utilizzati perché non agibili. L’agibilità sarebbe invece quella delle tende infiammabili, senza l’elettricità, mentre altri uomini in bici escono e ritornano muniti di legni per accendersi un fuoco per la notte, mentre in un calderone col fuoco viene riscaldata l’acqua per le docce.

Questo ragazzo ci confessa di non sapere come si vive in Italia, vorrebbe essere istruito su come si comporta un cittadino ben educato, vorrebbe parlare meglio italiano, ma le uniche parole che apprende sono gli ordini secchi dei datori di lavoro.

Capiamo, nell’ascoltare, che troppi circoli viziosi si sono ormai stabilizzati in spirali senza fine. Non contano più i motivi, le volontà, i singoli moventi, anche i più validi, sono ora puntini sfocati nell’insopportabile visione d’insieme. Qui la storia si ripete da troppo tempo, il serpente si è morso la coda e non vuole mollare la presa.

Nel 1943 Hannah Arendt, da due anni negli USA, scriveva il breve saggio We Refugees e in apertura dichiarava, con un grido forse liberatorio: «we don’t like to be called refugees». Vi prego, smettete di chiamarci rifugiati, noi vogliamo essere solo i nuovi arrivati: vogliamo fingere di essere volontariamente in cerca di un nuovo inizio.

Non vogliamo essere aiutati, non vogliamo dover ricordare in eterno che siamo stati salvati.

È la condizione dello straniero, del displaced, di chi percepisce con disagio che i diritti gli saranno riconosciuti se la sua stessa esistenza risulterà in qualche modo legittimata. Legittimata solo in virtù del passato, non in quanto rivolta verso un futuro.

Nel campo di San Ferdinando ho visto uomini la cui esistenza non è ancora ritenuta pienamente legittimata e meritevole perciò di cittadinanza. Dibattiamo ancora sul fondamento di tale legittimazione. Richiamiamo l’opinione pubblica alla memoria delle sofferenze patite prima di arrivare, e inchiodiamo per sempre l’individuo alla sua sventura personale.

C’è chi suggerisce che i migranti sono colti, che sono medici e filosofi e poeti, subordinando ancora una volta l’accettazione ad una qualche grandiosità del prima.

Nell’attesa della miglior definizione, un purgatorio senza termine di durata.

Dimentichiamo che il nucleo essenziale dei diritti è rivolto al futuro. L’uomo è un fatto compiuto, non richiede giustificazioni. Non le richiedeva prima, le ripudia soprattutto adesso, dopo anni di segregazione, dopo anni di silenziosa fatica nel trascinare ogni anno, attraverso le stagioni, la nostra catena alimentare, Sisifo dall’albero alla cassetta e indietro e ancora.

La Arendt conclude che «la discriminazione è la grande arma sociale con cui uccidere gli uomini senza spargere sangue».

Ma questi uomini sono ancora vivi, esistono, sono vicini e, anche se non potranno sopportare in eterno, comunque oggi ci sorridono e scherzano con noi, si scusano se parlano troppo animosamente, quando il sole è ormai tramontato ci accompagnano a fare il giro del campo.

E siamo noi i morti viventi mentre andiamo, mentre diciamo buonasera a destra e a sinistra passando attraverso le tende, tra i fuochi accesi, nell’odore di spezie, noi intirizziti e turbati, cercando le parole per congedarci.

Loro sono qui dietro l’angolo, siamo noi che non sappiamo, davvero, non sappiamo come scusarci per questo mostruoso ritardo.

* Giudice del Tribunale di Palmi

Fonte: Questione Giustizia

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