Andy Rocchelli, l’uccisione di mio figlio dimenticata
La Corte ritenne corretta la citazione in giudizio dello Stato ucraino. Chiedere conto di questo «crimine di guerra» a Kiev vuole dire per l’Italia praticare una vera politica estera.
Sono inoltre passati due anni e due mesi dalla fine del processo che ha definito la responsabilità delle forze armate ucraine nel duplice delitto di Sloviansk, rimasto impunito.
Cosa lega insieme queste scansioni temporali? Tutto e niente.
Tutto perché Andy, Andrei e il fotografo William Roguelon, sopravvissuto all’attacco, erano nel Donbass per capire, documentare e raccontare quel sisma geopolitico che, dopo Euromaidan, stava aprendo una guerra fratricida tra ucraini. Avevano capito che la popolazione locale soffriva in ostaggio dei due contendenti, governo ucraino e Russia, e che non si trattava di una crisi locale, ma che lì si giocava parte del futuro del continente. Era quello il preludio del calvario della popolazione civile che continua oggi.
Ma al contempo niente lega questi eventi, perché Andy e Andrei nulla hanno direttamente a che vedere con la catastrofe iniziata nel febbraio 2022 e soprattutto nulla hanno a che vedere con la polarizzazione estrema che nel dibattito pubblico da allora semplifica e banalizza una storia complicata e divide con l’accetta torti e ragioni, bene e male.
Andy e Andrei non erano schierati né coi filorussi, che nel maggio 2014 controllavano Sloviansk, né con le forze ucraine decise a riconquistarla. Andy e Andrei erano dalla parte dei civili che, sotto i bombardamenti, nascondevano i loro bambini nelle cantine, accoglievano gli orfani nelle loro case, vedevano figli e amici combattere su fronti opposti, vivevano una quotidianità stravolta.
Tutto però lega insieme l’attacco mirato scatenato dieci anni fa contro quei civili inermi, armati solo di macchine fotografiche, e la guerra in corso perché proprio dalla sciagurata invasione russa in poi il caso Rocchelli e le conclusioni della magistratura italiana sono entrate in un cono d’ombra: tranne rare, luminose eccezioni la vicenda è diventata tabù presso i media mentre le istituzioni italiane hanno eluso il problema come si trattasse di una questione sconveniente e politicamente inopportuna.
Eppure proprio perché l’Italia si è schierata senza riserve e concretamente con l’Ucraina, proprio in nome dello status attribuitole di candidato all’ingresso nella Ue, proprio nell’esercizio di una politica estera rispettosa dei diritti umani, le istituzioni italiane dovrebbero esigere verità e giustizia, non depistaggi e falsità, dalle autorità ucraine per questo «crimine di guerra».
Tale definizione si legge nelle motivazioni della sentenza di secondo grado che pochi conoscono e che è passata come la correzione di un errore giudiziario.
Conviene invece riprendere in mano quelle pagine confermate dalla Cassazione nel dicembre ‘21. Si scoprirà allora che, pur assolvendo per un difetto procedurale l’imputato italo-ucraino, condannato in primo grado a 24 anni per concorso in omicidio insieme al governo ucraino, le motivazioni puntualizzano: «La ricostruzione dei fatti porta questa Corte a concordare con le conclusioni della Corte di Assise di Pavia in merito alla provenienza dei colpi che hanno ucciso Rocchelli e ferito Roguelon: e, cioè, dei colpi di mortaio sparati dalla collina Karachun ad opera dei militari dell’Armata Ucraina».
Non solo. La Corte ritenne corretta la citazione dello Stato ucraino in giudizio quale responsabile civile perché l’immunità prevista per gli Stati non vale nel caso di violazione di diritti umani e crimini contro l’umanità e precisò: «L’attacco ha avuto luogo senza alcuna provocazione e offensiva», si trattò dunque di «un ordine illegittimamente dato dai comandanti, perché in violazione delle norme che mirano alla protezione dei civili».
Chiedere conto di tutto ciò al governo ucraino non significa porsi al seguito di Putin e glorificare l’attacco all’Ucraina, significa praticare una politica estera degna di questo nome.
Fonte: Il manifesto
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