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La Libia non è un “Paese sicuro”

Pasquale Serrao d’Aquino * il . Diritti, Giustizia, Internazionale, Migranti, Politica, SIcurezza

La corte di Cassazione fa proprio il Principio di effettività nell’individuazione del “place of safety” e ribadisce il divieto di respingimento collettivo in mare anche da parte di navi private.

Il caso.

La Corte di Cassazione (Sez. V, Sentenza n. 4557 2024 ha confermato la condanna del comandante della imbarcazione Asso28 che, impegnata in acque internazionali come “supply vessel”,  quale nave di appoggio e supporto alla piattaforma petrolifera Sabratha, di proprietà di una società partecipata da Eni Nord Africa e dalla libica NOC, dopo aver proceduto  al salvataggio di n. 101 migranti – tra cui donne in stato di gravidanza e minori non accompagnati – sbarcandoli da un gommone nella zona SAR Libica [1], aveva successivamente provveduto a consegnarli alle autorità locali facendoli trasbordare su una motovedetta libica davanti al porto di Tripoli “in un porto non sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e attesa l’ineffettività del sistema di accoglienza libico e le condizioni inumane e degradanti presenti nei centri di detenzione per i migranti, trattandosi di luoghi ove non sono assicurati la protezione fisica e il rispetto dei diritti fondamentali, come sopra indicato.”

La sentenza è oggetto di forte attenzione da parte della stampa e della politica per aver ritenuto la Libia Paese “non sicuro”. I diversi accordi stipulati con tale Stato, definiti da molti quali accordi “fantasma”, volti alla stabilizzazione dei flussi migratori, quando non ad assecondare esigenze politiche interne di riduzione degli sbarchi, e la peculiare condizioni dello Stato libico, caratterizzato da regionalismi, localismi, tribalismi e di infiltrazioni jihadiste, non hanno contribuito a fare chiarezza sulle conseguenze materiali e giuridiche dei respingimenti dei migranti sulla rotta libica. [2]

Attualmente, con decreto del 17 marzo 2023, attuativo dell’art.  2-bis  del  d.lgs.  28  gennaio 2018, n. 25, sono  considerati  dall’Italia Paesi  di  origine  “sicuri”:  Albania, Algeria,  Bosnia-Erzegovina,  Capo  Verde,  Costa  d’Avorio,  Gambia, Georgia, Ghana, Kosovo,  Macedonia  del  Nord,  Marocco,  Montenegro, Nigeria, Senegal, Serbia e Tunisia. L’inserimento in tale lista, non esclude, tuttavia, la protezione internazionale del migrante. E’ principio acquisito, infatti, che “l’inserimento del paese di origine del richiedente nell’elenco dei “paesi sicuri” produce l’effetto di far gravare sul ricorrente l’onere di allegazione rinforzata in ordine alle ragioni soggettive o oggettive per le quali invece il paese non può considerarsi sicuro, soltanto per i ricorsi giurisdizionali presentati dopo l’entrata in vigore del d.m. 4 ottobre 2019, poiché i principi del giusto processo ostano al mutamento in corso di causa delle regole cui sono informati i detti oneri di allegazione, restando comunque intatto per il giudice, a fronte del corretto adempimento di siffatti oneri, il potere-dovere di acquisire con ogni mezzo tutti gli elementi utili ad indagare sulla sussistenza dei presupposti della protezione internazionale” (Cass. Sez. 1 – , Sentenza n. 25311 del 11/11/2020 (Rv. 659576 – 01). [3].

L’obbligo di salvataggio in mare e le norme sovranazionali

L’obbligo di diritto internazionale generale di soccorrere e salvare vite umane in mare, derivante dal diritto consuetudinario, e previsto dalla Convenzione sul diritto del mare, dalla Convenzione per la salvaguardia della vita in mare (Convenzione SOLAS) e dalla Convenzione sulla ricerca e soccorso in mare (Convenzione SAR), una volta che le persone interessate sono state soccorse e immediatamente assistite rispetto ai loro bisogni primari, si completa nel dovere  di condurle nel «place of safety».

Il comandante della nave Asso28, che aveva consegnato i migranti salvati in mare alla Libia, in quanto inadempiente a tale ultimo obbligo, è stato ritenuto con sentenza doppia conforme responsabile dei delitti di abbandono in stato di pericolo di persone minori e incapaci, previsto dall’art. 591 cod. pen. e di sbarco e abbandono arbitrario di persone, previsto dall’art. 1155 del Regio Decreto del 30 marzo 1942, n. 327 – Codice della navigazione, aggravato dalla assenza dei mezzi di sussistenza dei passeggeri.

Non deve trascurarsi che il 21 febbraio 2018 veniva pubblicato il Rapporto delle Nazioni unite, documentante le gravi violazioni dei diritti umani subite in Libia dai migranti (sia nei centri “informali” gestiti direttamente dalle milizie sia nei centri governativi) e anche da alcune popolazioni libiche, oltre che gli insuccessi nella riunificazione del Paese e l’assenza di un controllo effettivo delle numerose milizie armate che si contendevano il controllo del territorio.

 Accanto alla tematica dell’individuazione della Libia come “Paese non sicuro”, vi sono altri aspetti di interesse che riguardano, non solo il divieto di respingimento collettivo, ma anche specificamente il soccorso in mare, quali, ad esempio, le funzioni del comandante della nave che procede al salvataggio, le procedure attraverso le quali individuare il « place of safety» e l’esimente dell’ordine legittimo.

All’’imputato veniva contestato, infatti che, agendo in accordo con il personale della piattaforma, aveva consentito il trasbordo sulla nave battente bandiera italiana di un solo ipotetico “ufficiale di dogana libico”, presente sulla menzionata piattaforma, senza procedere alla sua compiuta identificazione, in violazione del Regolamento Tecnico, International Ship and Port Security Code (ISPS Code), introdotto dal Cap. XI della c.d. Convenzione Solas, che prevede standard di sicurezza delle strutture portuali e delle navi, prescrivendo il controllo e l’identificazione di tutte le persone che accedono alla nave (art. 7 parte A e art. 8 e 9 parte B).

Il comandante, nel soccorrere i migranti, inoltre, ometteva di comunicare nella immediatezza, prima di iniziare le attività di soccorso, e dopo avere effettuato le stesse, ai centri di coordinamento e soccorso competenti, l’avvistamento e l’avvenuta presa in carico dei migranti, agendo in violazione delle procedure previste per le operazioni di soccorso, così come disciplinate dalla convenzione ed. Solas e dalle direttive dell’IMO (Organizzazione Marittima Internazionale); inoltre, ometteva di attivare il coordinamento delle autorità SAR competenti e di dare corso agli obblighi informativi di cui all’art. 5 della risoluzione MSC. 167/168 (inerenti la nave che presta il soccorso, i sopravvissuti, le azioni intraprese e da intraprendere e le determinazioni in ordine ai richiedenti asilo);  ed ancora, ometteva  di identificare i migranti, di assumere informazioni sulla loro provenienza e nazionalità, sulle loro condizioni di salute, di sottoporli a visita medica, di accertare la loro volontà di chiedere asilo, nonché di accertare se i minori fossero soli o accompagnati, in violazione dei citati articoli del ISPS Code, in tema di sicurezza della navigazione.

L’individuazione del “Stato sicuro” secondo un criterio di effettività

La Corte di Cassazione, con una sentenza particolarmente approfondita sia quanto alla fattispecie giudicata, sia quanto al rapporto tra le norme penali e le Convenzioni internazionali di riferimento, ha esaminato quello che deve essere considerato un vero e proprio caso limite di condotta illegale nell’ipotesi di soccorso in mare di migranti. La Corte di appello, infatti, aveva constatato come il comandante non avesse contattato il Centro di coordinamento libico, che avrebbe dovuto coordinare il salvataggio e accogliere i 101 migranti in un porto sicuro, solo perché a bordo era salito un presunto ufficiale libico, mai identificato, che era presente sulla piattaforma petrolifera assistita dalla imbarcazione Asso28: “Il Centro di coordinamento di Roma e l’ambasciata italiana a Tripoli vennero avvisate solo “a cose fatte”, costituendo tale modalità di avviso a posteriori, rispetto all’avvenuto salvataggio e alla intrapresa direzione verso Tripoli, un caso unico nelle dinamiche dei salvataggi in mare da parte dei natanti battenti bandiera italiana in zona SAR libica.”

Le due sentenze di merito, analizzata la condotta dell’imputato,  avevano richiamato compiutamente le fonti normative in base alle quali si desumeva l’illiceità della condotta  del comandante: gli artt. 3 e 14 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell’Uomo e delle libertà fondamentali, relativamente  al divieto di respingimento degli stranieri verso Paesi in cui possano essere sottoposti a trattamento inumano o degradante o dove sia comunque impedito l’esercizio dei diritti fondamentali; l’art. 33 della Convenzione di Ginevra, che prevede il divieto di espellere o respingere, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche; l’art. 19 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che sancisce il divieto dei respingimenti collettivi di cittadini stranieri; la Convenzione internazionale per la salvaguardia della vita umana in mare; la Convenzione SOLAS, e la Convenzione sulla ricerca e il salvataggio marittimo (c.d. convenzione SAR) laddove, nella specificazione fornita dalle direttive dell’IMO (International Maritime Organization), impongono al comandante di una imbarcazione che soccorra dei naufraghi in mare di avvisare le autorità competenti per il coordinamento e soccorso nella zona SAR interessata e di attivare il predetto coordinamento; l’art. 19, commi 1, 1 -bis, 2 del D.lgs. n.  286/98 (Testo unico immigrazione), che vieta, in ogni caso, il respingimento e l’espulsione di minori degli anni diciotto e di donne in stato di gravidanza, nonché il respingimento di cittadini stranieri verso un Paese ove siano a rischio di subire torture o comunque trattamenti disumani e degradanti; la risoluzione del Comitato per la sicurezza marittima (articolazione dell’IMO) n. 167(78) del maggio 2004, Linee Guida sul trattamento delle persone soccorse in mare.

Sempre la sentenza di legittimità in questione si è soffermata su alcuni interventi operati dalle Corti sovranazionali che, seppure dettati con riguardo alle condotte degli Stati membri dell’Unione Europea o contraenti della Convenzione EDU, sono ritenuti dalla sentenza comunque indicatori rilevanti ai fini della nozione di pericolo relativamente ai reati contestati e, in particolare, quanto alla identificazione dello “Stato sicuro” che consente il respingimento. In particolare essa fa riferimento  alla sentenza della Gran Camera della CGUE fin dal 2011, la quale – prendendo in considerazione anche i rapporti regolari e concordanti di organizzazioni non governative internazionali – aveva ritenuto che l’enorme afflusso di migranti in Grecia, pari al 90% di quelli facenti ingresso in UE, avesse determinato un sovraffollamento tale da non garantire quanto prescritto dalla normativa unionale e aveva sancito il principio per il quale gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso lo “Stato membro competente” “quando non possono ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti” ai sensi di tale disposizione (Grande Sezione CGUE, 21 dicembre 2011, cause C 411/10 e C 493/10).

Il punto nodale della decisione della sentenza della CGUE, ripreso dalla Corte di Cassazione quanto alla definizione di “stato sicuro”, è che sono da ritenersi non ammissibili presunzioni assolute di garanzia quanto ai diritti umani anche nell’ambito UE: “102. Al riguardo si deve rilevare che l’art. 36 della direttiva 2005/85, relativo al concetto di paese terzo europeo sicuro, dispone, al n. 2, lett. a) e c), che un paese terzo può essere considerato “paese terzo sicuro” solo se, oltre ad aver ratificato la Convenzione di Ginevra e la CEDU, ne rispetta le disposizioni. 103. Una tale formulazione indica che la mera ratifica delle convenzioni da parte di uno Stato non può comportare l’applicazione di una presunzione assoluta che esso rispetti tali convenzioni. Il medesimo principio è applicabile tanto agli Stati membri quanto agli Stati terzi. 104. Pertanto, la presunzione, di cui al punto 80 della presente sentenza, sottesa alla normativa in materia, che i richiedenti asilo saranno trattati in maniera conforme ai diritti dell’uomo deve essere considerata relativa“. Del resto, L’Agenzia dell’Unione Europea per i diritti fondamentali ha affermato con decisione che, ai fini della designazione, « safety from persecution and other serious harm must exist not only in theory but also in practice » e che la valutazione di sicurezza « must be based on the human rights situation in the country of origin, as reflected in reliable, objective, impartial, precise and up-to-date information ».

In tale prospettiva si inseriscono le disposizioni, introdotte dall’art. 7-bis del c.d. « decreto sicurezza » (d.lgs.  28  gennaio 2018, n. 25),   con le quali il legislatore italiano, emendando il c.d. « decreto procedure » ha esercitato la facoltà prevista dal diritto dell’Unione Europea di ricorrere al concetto di « Paese di origine sicuro » nell’esame delle domande di protezione internazionale.

Si è osservato che la designazione di uno “Stato come « sicuro » — nelle sue diverse declinazioni di Stato di origine, di primo asilo o di transito del richiedente protezione — è stata integrata nel sistema europeo comune di asilo allo scopo di deflazionare l’esame delle domande considerate ex ante strumentali al presso di ridurre le garanzie individuali. [4]. Resta, tuttavia, l’aspetto decisivo per il quale, come osservato dalla giurisprudenza della Corte EDU, individuare da parte di uno Stato membro uno Stato come sicuro nella Lista « does not relieve the […] State from conducting an individual risk assessment ».

La valutazione del rischio ai fini dell’inclusione nell’elenco deve fondarsi anche sulle informazioni fornite dalla Commissione nazionale per il diritto di asilo, che si avvale delle notizie elaborate dalla c.d. « Unità COI Country of Origin Information », nonché di quelle fornite da fonti governative o intergovernative [5].

Nel caso Ilias e Ahmed c. Ungheria (sentenza Grande Camera del 21 novembre 2019), la violazione da parte delle autorità amministrative e giudiziarie ungheresi era consistita nel fatto che, anziché procedere alla dovuta valutazione individuale, si è basata su <<un riferimento schematico all’elenco governativo dei paesi terzi sicuri (…), ha ignorato le relazioni relative ai Paesi e le altre prove presentate dai ricorrenti e ha imposto loro un onere della prova ingiusto ed eccessivo>>.

Del tutto condivisibile, pertanto, la sentenza della Corte di Cassazione nella parte in cui ricorda  come la CGUE evidenzia  come sia precondizione della “sicurezza” dello Stato, in relazione ai diritti della persona rifugiata, la sottoscrizione della Convenzione di Ginevra e della Convenzione EDU, mentre la condizione di “sicurezza” è l’effettivo rispetto di tali normative, secondo divieto convenzionale di refoulement «practical and effective» stante la necessità che l’interpretazione del testo convenzionale guardi alle «present-day conditions», espressione sintetica dell’idea di interpretazione dinamica ed evolutiva della Convenzione [6].

Aggiuntivamente, richiamando la sentenza del 19 marzo 2019, Ibrahim e a., C-297/17, C-318/17, C-319/17 e C-438/17, EU:C:2019:219, punto 86 nonché giurisprudenza ivi citata) si è  ricordato che non è possibile “ignorare che le carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo in tale Stato membro costituiscono motivi seri e comprovati di credere che il richiedente corra un rischio reale di subire trattamenti inumani o degradanti ai sensi di tale disposizione (v., in tal senso, sentenza del 19 marzo 2019, Jawo, C-163/17, EU:C:2019:218, punto 85 e giurisprudenza ivi citata)” (parr. 139-140). Ancora, la sentenza della Corte di Cassazione richiamava, quanto al caso della Libia la pronuncia della Corte Edu (Grande Camera, causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia – 23 febbraio 2012) che riguardava l’intercettazione in mare di oltre duecento naufraghi in acque non italiane, avvenuta nel 2009, da parte di natanti militari italiani che, dopo averli salvati portandoli a bordo, li avevano riportati a Tripoli. Quest’ultima sentenza affermava che i ricorrenti erano sottoposti alla giurisdizione dell’Italia ai sensi dell’art. 1 CEDU e dichiarava che vi era stata violazione dell’art. 3 CEDU in quanto i ricorrenti erano stati esposti al rischio di subire maltrattamenti in Libia, dell’art. 4 del Protocollo n. 4, dell’art. 13 combinato con l’art. 3 CEDU e con l’art. 4 del Protocollo n.4, evidenziando gli ampi riferimento della Corte di Strasburgo a plurime fonti informative [7].

In parole povere, la giurisprudenza sovranazionale a cui rimanda la Corte di Cassazione esclude che lo Stato membro abbia il monopolio della nozione di “Paese sicuro” e impone, invece, non solo all’autorità giurisdizionale, ma alle stesse autorità nazionali, di verificare che le condizioni effettive siano tali da garantire la sicurezza per i migranti di non subire trattamenti inumani o degradanti.

La titolarità degli obblighi di individuazione del “place of safety” in capo al comandante

L’obbligo di verifica di tali condizioni, infatti, non grava solo sul giudice investito della domanda di protezione internazionale, ma su tutti gli agenti dello Stato membro “ operanti fuori del proprio territorio, controllo e autorità su un individuo, quindi giurisdizione” in quali sono tenuti,” a riconoscere a quell’individuo i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione pertinenti al caso di quell’individuo. La sentenza della S.C. n. 4557/2024 evidenzia che “la Corte dei diritti (par. 75) come si verta in tema di casi di esercizio extraterritoriale della competenza da parte di uno Stato nelle cause riguardanti “azioni compiute all’estero da agenti diplomatici o consolari, o a bordo di aeromobili immatricolati nello Stato in questione o di navi battenti la bandiera di detto Stato. In queste situazioni, basandosi sul diritto internazionale consuetudinario e su disposizioni convenzionali, la Corte ha riconosciuto l’esercizio extraterritoriale della giurisdizione da parte dello Stato interessato (Bankovic, sopra citata, par. 73, e Medvedyev ed altri, sopra citata, par. 65)”.  Secondo il CPT “l’Italia era vincolata dal principio di non respingimento indipendentemente dal luogo di esercizio della sua giurisdizione, incluso l’esercizio della giurisdizione tramite il suo personale e le sue navi impegnati nella protezione delle frontiere o nel salvataggio in mare, persino in operazioni fuori del suo territorio [8].

In breve, tanto tali violazioni sono state ritenute commesse nel caso dell’Asso28 in quanto il comandante, anche di una nave privata, è stato ritenuto dalla Corte di legittimità, conformemente alla sua costante giurisprudenza, incaricato di pubblico servizio e, pertanto, titolare degli obblighi che ricadono sullo Stato.

La consegna alla motovedetta libica dei migranti come respingimento collettivo vietato

Ulteriore aspetto cruciale – una volta individuata la giurisdizione extraterritoriale dello stato e la espulsione collettiva operata in tale quadro – è la qualificazione da parte della citata giurisprudenza CEDU della consegna alle autorità libiche dei migranti soccorsi in mare come respingimento collettivo: “177. La Corte ha già osservato che, secondo la giurisprudenza consolidata della Commissione e della Corte, lo scopo dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 è evitare che gli Stati possano allontanare un certo numero di stranieri senza esaminare la loro situazione personale e, di conseguenza, senza permettere loro di esporre le loro argomentazioni per contestare il provvedimento adottato dall’autorità competente. Se dunque l’articolo 4 del Protocollo n. 4 dovesse applicarsi soltanto alle espulsioni collettive eseguite a partire dal territorio nazionale degli Stati parte alla Convenzione, una parte importante dei fenomeni migratori contemporanei verrebbe sottratta a tale disposizione, sebbene le manovre che essa intende vietare possano avvenire fuori dal territorio nazionale e, in particolare, come nel caso di specie, in alto mare. L’articolo 4 verrebbe così privato di qualsiasi effetto utile rispetto a tali fenomeni, che tendono pertanto a moltiplicarsi. Da ciò deriverebbe che dei migranti che sono partiti via mare, spesso mettendo a rischio la loro vita, e che non sono riusciti a raggiungere le frontiere di uno Stato, non avrebbero diritto a un esame della loro situazione personale prima di essere espulsi, contrariamente a quelli che sono partiti via terra. (Medvedyev (ed altri c. Francia ((GC), n. 3394/03, 29 marzo 2010) par. 81)».

Sul piano del diritto interno deve richiamarsi, come correttamente fatto nella sentenza in commento, anche la sentenza della Corte di Cassazione Sez. 6, n. 15869 del 16/12/2021, dep. 2022, Ib.Ti., Rv. 283189 – 01 la quale aveva ritenuto sussistente lo stato di necessità di alcuni naufraghi che 22 giorni prima dei fatti dell’Asso28, con violenza e minaccia, si erano opposti all’ufficiale della nave privata Vos Thalassa che li aveva salvati, per evitare il ritorno, disposto dai centri di coordinamento, in Libia. Tale sentenza afferma il principio che il diritto al non-respingimento (“non refoulement“) in un “luogo non sicuro” – enunciato dall’art. 33 della Convenzione di Ginevra – costituisce principio internazionale consuetudinario di carattere assoluto, cui deve riconoscersi valenza di “ius cogens” in quanto proiezione del divieto di tortura, e come tale invocabile – secondo l’interpretazione data dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo all’art. 3 della Convenzione EDU – non dai soli “rifugiati”, ma da qualsiasi essere umano che possa essere respinto verso una nazione in cui sussista un ragionevole rischio di subire un pregiudizio alla propria vita, alla libertà, ovvero all’integrità psicofisica. La sentenza espressamente indicava che  la Libia nel luglio del 2018 non era un luogo sicuro e il respingimento, dunque, non poteva essere disposto ed eseguito. Esisteva una situazione di pericolo reale ed attuale di una offesa ingiusta: una situazione nota, documentata, accertata, fondata su dati – di fatto concreti”.

Acclarato, pertanto, (a)  che la Libia non poteva essere in alcun modo considerato uno Stato Sicuro e che, di conseguenza, i naufraghi non potevano essere riconsegnati alle autorità libiche, (b) che il comandante era tenuto agli obblighi gravanti sugli agenti degli stati membri in virtù anche della giurisdizione extraterritoriale, la sentenza si  sofferma analiticamente sugli elementi probatori a sostegno del dolo del comandante dell’Asso28, quali, principalmente: l’essersi affidato il comandante alle indicazioni provenienti dalla piattaforma petrolifera e al coordinamento del “custom officer”, con evidente violazione del procedimento da seguire, non essendo stati contattati i centri di coordinamento libico, competente, né quello italiano “di solito sempre contattato anche in caso di incompetenza per interventi in zona SAR libica”; “la significativa esperienza di navigazione con il ruolo di comandante, che risultava avere già operato altri soccorsi e, quindi, conosceva le modalità operative da seguire; la notorietà del caso Hirsi, che coinvolse il Governo Italiano con sentenza del 2012”; “la durata di più ore dall’avvistamento avrebbe consentito di contattare i centri di coordinamento non “a cose fatte“; il comportamento successivo al fatto “a tal riguardo le sentenze di merito evidenziano come il comandante, una volta avvenuto il trasbordo dei naufraghi dinanzi a Tripoli, non provvide a verificare ove gli stessi fossero stati condotti e a sincerarsi delle loro condizioni”.

La non configurabilità dell’ordine legittimo

Infine, deve escludersi la scriminante dell’ ordine legittimo in quanto l’identità del presunto ufficiale libico rimase ignota a bordo del natante, il Centro di coordinamento libico,  dopo ancora non era a conoscenza del salvataggio, del numero di migranti, della destinazione degli stessi, l’ordine tale poteva essere ritenuto “solo se proveniente da tale Centro di coordinamento, ovvero da quello di Roma in via sussidiaria, l’ordine poteva valutarsi legittimo e, quindi, con forza scriminante”.

In conclusione, la sentenza arricchisce il diritto vivente non tanto quanto alla concreta individuazione nel 2018 della Libia come Paese non sicuro, già oggetto di ricognizione anche da parte delle giurisdizioni sovranazionali, ma anche di alcuni aspetti delicati che riguardano il rapporto tra giurisdizione e discrezionalità politica, quali il carattere non vincolante della Lista dei Paesi sicuri, l’obbligo dello Stato e di tutti i suoi agenti – non solo i giudici – di verificare in concreto, sulla base di tutti i dati concretamente a disposizione, il rispetto effettivo dei diritti umani e l’assenza di condizioni di rischio dei migranti e di tutte le persone soccorse in mare, l’obbligo del rispetto delle procedure previste dalle Convenzioni internazionali per individuare il <<place of safety>>, senza alcuna scorciatoia o soluzione di comodo e, specificamente per il comandante di nave, indipendentemente da qualsiasi rapporto o indicazione dell’armatore, la necessità di verificare, ai fini dell’esclusione del dolo, non solo che vi sia un ordine dell’autorità,  ma che si tratti anche di un ordine  legittimo.

Proprio la plateale violazione commessa delle procedure relative alla consegna dei migranti e l’assenza di ordini di sbarco e consegna non ha dato occasione, invece, alla Corte di legittimità di apprezzare la sindacabilità dell’ordine illegittimo da parte delle autorità preposte alla consegna delle persone soccorse in mare ad uno Stato quando, secondo le concrete informazioni in possesso dell’agente, e quindi , secondo le «present-day conditions»,, esso è da considerarsi chiaramente come “non sicuro”.

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Note

[1] L’11 agosto 2017, le autorità libiche hanno dichiarato pubblicamente di aver comunicato all’Organizzazione marittima internazionale la volontà di istituire una zona di ricerca e soccorso (zona Sar) estesa a 70 miglia dalla costa, allo scopo di impedire l’accesso delle navi appartenenti a organizzazioni non governative nelle acque internazionali al largo delle proprie coste (F. Vassallo Paleologo, Gli obblighi di soccorso in mare nel diritto sovranazionale e nell’ordinamento interno, in www.questionegiustizia.it, 2018).

[2] F.  Vassallo Paleologo, op. cit.. L’Autore indica che in quel periodo la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc), in coordinamento con il Ministero dell’interno, “aveva ordinato alle navi delle Ong, non appena completate le prime attività di soccorso, anche con un numero esiguo di naufraghi a bordo, di fare rotta verso un porto italiano, senza restare in zona per altri salvataggi, ottenendo così il risultato di lasciare campo libero alle motovedette partite dalle coste libiche.” La domenica 13 maggio 2018 oltre 260 migranti ripresi dalle motovedette libiche in acque internazionali, venivano sbarcati nei porti della Tripolitania ed internati nei centri di detenzione. A prescindere da condotte censurabili delle motovedette libiche in acque internazionali, “anche le autorità italiane hanno più volte imposto alle Ong di allontanarsi dai gommoni in difficoltà e di non tenersi “a vista” delle imbarcazioni da soccorrere nelle more dell’arrivo delle motovedette libiche.” Aggiunge che il 7 maggio 2018 “la Centrale operativa della Guardia costiera italiana (Imrcc) ha emesso un comunicato rivolto apparentemente soltanto alle Ong, avvertendole di tenersi ad almeno 8 miglia di distanza dall’evento Sar in caso di intervento dei libici”. Si ipotizza in relazione a tali modalità operative che “lo stretto coordinamento che emerge tra la Guardia costiera italiana, nel suo Comando centrale (Imrcc), la Marina militare con una nave presente nel porto di Tripoli, e la cd. Guardia costiera “libica” potrebbe quindi configurare un vero e proprio respingimento collettivo, attuato anche direttamente dall’Italia posto che le persone a bordo di imbarcazioni coinvolte in attività Sar inizialmente coordinate da autorità italiane, le sottopone alla piena giurisdizione dell’Italia che, pertanto “in questa qualità deve anche garantire un luogo di sbarco nel place of safety più vicino, e non nel porto più vicino. “

[3] Per ciò che concerne specificamente le operazioni di salvataggio in mare il d.l. n. 1/2023, conv. con mod. dalla L. 24 febbraio 2023, n. 15, in parziale continuità con il decreto n. 130/2020, prevede che il Governo possa «limitare o vietare il transito e la sosta di navi nel mare territoriale» per motivi di ordine e sicurezza pubblica, facendo eccezione per «le operazioni di soccorso immediatamente comunicate al Centro di coordinamento per il soccorso marittimo dello Stato nella cui area SAR di competenza ha avuto luogo l’evento e allo Stato di bandiera della nave, e qualora ricorrano congiuntamente determinate condizioni, quali: a) la nave che effettua sistematicamente attività di ricerca e soccorso abbia le autorizzazioni rilasciate dalle autorità dello Stato di bandiera e possegga i requisiti di idoneità tecnico-nautica alla sicurezza della navigazione; b) siano avviate tempestivamente informative alle persone soccorse della possibilità di chiedere protezione internazionale; c) sia chiesta nell’immediatezza dell’evento l’assegnazione del porto di sbarco; d) il porto di sbarco sia raggiunto senza ritardo; e) siano fornite alle autorità marittime o di polizia le informazioni per ricostruire dettagliatamente l’operazione di soccorso; f) le modalità di ricerca e soccorso in mare non abbiano concorso a creare situazioni di pericolo a bordo né impedito di raggiungere tempestivamente il porto di sbarco».

Si sottolinea, tuttavia che una recente sentenza della Corte di giustizia (1 agosto 2022, cause riunite C-14/21 e C-15/21, proprio contro l’Italia) ha chiarito che lo Stato di approdo non può pretendere certificazioni diverse da quelle rilasciate dallo Stato di bandiera, né può esigere che le navi rispettino prescrizioni tecniche ulteriori e diverse da quelle previste dalle Convenzioni internazionali pertinenti. La decisione della Corte di giustizia esclude, quindi, la legittimità di un fermo amministrativo delle navi di soccorso per ritenuta violazione di detta condizione, come previsto dall’art. 2 quater e seguenti del decreto legge n. 130/2022, come modificato dal decreto n. 1/2023 (così ASGI, 5 gennaio 2023: https://www.asgi.it/primo-piano/contro-la-costituzione-le-ong-e-i-diritti-umani-linsostenibile-fragilita-del-decreto-legge-n-1-2023, riportata anche da G. Schiavone, Il decreto legge n. 1/2023: come ostacolare il soccorso in mare, Volerelaluna.it , 09-01-2023 ).

[4] C. Pitea, La nozione di « paese di origine sicuro» e il suo impatto sulle garanzie per i richiedenti protezione internazionale in italia, in Rivista di Diritto Internazionale, fasc.3, 1° settembre 2019, pag. 627; v. anche C. Danisi, La nozione di « place of safety» e l’applicazione di garanzie procedurali a tutela dell’individuo soccorso in mare, Rivista di Diritto Internazionale, fasc. 2, 1° giugno 2021, pag. 395

[5] C. Pitea, op. cit.

[6] C. Pitea, op. cit., v. anche S. Penasa, Le politiche migratorie “al confine”: la Corte EDU tra nozione di “paese terzo sicuro” e di restrizione della libertà delle persone richiedenti asilo. Il caso Ilias e Ahmed c. Ungheria, in Forum Quaderni costituzionali – Rassegna, 2020.

[7] Il rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa — relativamente alla visita svolta in Italia dal 27 al 31 luglio 2009 — reso pubblico il 28 aprile 2010, che evidenziava come la politica “consistente nell’intercettare i migranti in mare e nel costringerli a ritornare in Libia o in altri paesi non europei costituiva una violazione del principio di non respingimento; il rapporto di Human Rights Watch, pubblicato il 21 settembre 2009, che lamentava la medesima violazione dei diritti umani, fondandosi sulla situazione in Libia; la visita di Amnesty International in Libia dal 15 al 23 maggio 2009;  i numerosi “rapporti pubblicati da organizzazioni internazionali ed internazionali nonché da organizzazioni non governative che condannano le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia all’epoca dei fatti”: Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, Osservazioni finali Jamahiriya arabo-libica, 15 novembre 2007; Amnesty International, Libia -Rapporto 2008 di Amnesty International, 28 maggio 2008; Human Rights Watch, Libya Rights at Risk, 2 settembre 2008; Dipartimento di Stato americano, Rapporto relativo ai diritti dell’uomo in Libia, 4 aprile 2010.

[8] Al riguardo, a dire del CPT, i sopravvissuti ad un viaggio in mare sono particolarmente vulnerabili e spesso in uno stato tale da impedire loro di poter esprimere immediatamente il desiderio di chiedere asilo. Stando al rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio d’Europa del  28 aprile 2010, la Libia “non può essere considerata un paese sicuro in materia di diritti dell’uomo e di diritto dei rifugiati; la situazione delle persone arrestate e detenute in Libia, compresa quella dei migranti – che corrono anche il rischio di essere espulsi – starebbe a dimostrare che le persone rinviate in Libia rischiavano di essere vittime di maltrattamenti“.

Corte di Cassazione (Sez. V, Sentenza n. 4557 2024

* Magistrato

Fonte: Giustizia Insieme, 22/02/2024

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