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Il dossier del Ros su mafia e appalti. Quell’indagine non venne archiviata

Gian Carlo Caselli il . Forze dell'Ordine, Informazione, Istituzioni, Mafie, Memoria

In una lettera aperta al Corriere della Sera l’ex Procuratore della Repubblica di Palermo e di Torino replica alla recensione di Carlo Vulpio al libro “La verità sul dossier mafia-appalti” scritto dagli ex ufficiali dei carabinieri Mario Mori e Giuseppe De Donno. 


Caro direttore,

l’entusiastica “recensione” di Carlo Vulpio del libro degli Ufficiali del Ros Mori e De Donno sulla questione mafia-appalti comprende una distinzione fra “buoni” e “cattivi”. Fra i secondi, in una “gradazione di responsabilità” non meglio specificata, viene inserito anche il mio nome in modo apodittico e senza alcun contraddittorio. Ecco dunque una nuova “medaglia”, dopo quelle di fascista, comunista e mafioso, che mi sono guadagnato in cinquant’anni di impegno sul versante Br, Cosa nostra e violenze No-Tav.

Più in generale, scrive Vulpio che il dossier del Ros su mafia e appalti non ebbe mai vita facile. Nemmeno dopo l’assassinio di Falcone il 23 maggio 1992 e poi di Borsellino, avvenuto il successivo 19 luglio. E alla fine venne seppellito definitivamente insieme con i due magistrati.

Anche in questo caso si tratta di affermazioni recepite apoditticamente ancorché smentite dagli atti processuali citati analiticamente nella Relazione predisposta dalla Sezione grandi appalti (2 Aggiunti e 5 sostituti), che come Procuratore capo di Palermo avevo consegnato alla Commissione Antimafia mi pare nel 1999. Essa dimostra che l’indagine non fu mai archiviata e che a far data dal giugno 1992 vi fu una ininterrotta serie di arresti e/o rinvii a giudizio, oltre che per tutti i mafiosi che gestivano gli appalti (tra i quali Riina, Buscemi Antonino, Lipari ed altri) anche per più di 120 persone tra cui uomini politici, imprenditori di rilievo nazionale (come Lodigiani, Rizzani, De Eccher, Salomone), professionisti e dirigenti di enti regionali.

Vennero richieste autorizzazioni a procedere nei confronti di ministri e parlamentari. Sin dall’ottobre 1992 furono richieste misure di prevenzione patrimoniale (sequestro e confisca) per i beni di Buscemi Antonino, comprese le quote societarie facenti capo al gruppo Ferruzzi, del quale furono condannati tutti i dirigenti nazionali.

Ancora, non è esatto quel che scrive Vulpio del pm di Catania Felice Lima, cioè – in sostanza – che fu costretto a lasciare il suo ufficio perché insieme al Ros voleva scoperchiare il ruolo della mafia negli appalti a differenza dei pm di Palermo.

È infatti documentato che Lima voleva contestare solo il reato di 416 c.p. e di abuso di ufficio, escludendo il ruolo di regia della mafia nella manipolazione degli appalti, mentre la Procura di Palermo (territorialmente competente) contestava il reato di cui all’art. 416 bis c.p., assumendo che in Sicilia la mafia aveva un ruolo egemonico imponendo le sue regole a imprenditori e politici.

Infine, nessuno pretende che i pm di Palermo del dopo stragi (organizzati in una squadra compatta, senza di che sarebbe stato illusorio sperare di vincere le difficoltà che il grande Nino Caponnetto ha sintetizzato con le parole «è tutto finito, non c’è più niente da fare») siano perennemente ringraziati per il decisivo contributo dato alla salvezza della nostra democrazia dall’attacco criminale mafioso: ma neppure si vorrebbe che fossero coperti troppo disinvoltamente con schizzi di fango di dubbia natura.

Fonte: Corriere della Sera, 15/11/2023


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