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I giudici, l’imparzialità e la moglie di Cesare

Giulio Cataldi * il . Costituzione, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

In queste ore di scomposti attacchi contro giudici (e si tratta di giudici civili, un inedito per il nostro Paese), di sguaiate contestazioni delle loro idee (non dei loro provvedimenti) e di utilizzo di veri e propri dossier, pronti all’occorrenza, mi è capitato di sentir ripetere, adattata al mondo giudiziario, la storiella sulla moglie di Cesare, che non solo doveva essere, ma anche apparire onesta.

Per i giudici, si ripete, anche da tanti benpensanti, che non solo devono essere, ma anche apparire imparziali.

Mi sono soffermato a riflettere su quest’affermazione, che ai più può sembrare scontata, corretta, condivisibile. Ma che, a mio modo di vedere, può celare un profondo inganno.

Ed allora, analizziamola quest’affermazione, partendo dalla parte che, a prima vista, non dovrebbe creare alcun problema: i giudici devono essere imparziali.

Sembrerebbe che su questa frase non possano sorgere divergenze: ci mancherebbe altro che un giudice non fosse imparziale, che, dunque, nelle proprie decisioni “parteggiasse” per l’una o l’altra parte, o avesse di mira risultati diversi dalla mera applicazione del diritto al caso concreto.

Eppure, molto spesso, quasi sempre, i casi sottoposti all’esame dei giudici non sono aride carte, ma vicende umane più o meno complesse; e chi le giudica non è un robot, che meccanicamente “sforna” la decisione sulla base di un algoritmo, ma un essere umano che ha le proprie idee, avverte le proprie passioni, ed è portatore di sensibilità diverse.

Dunque, imparzialità non è, non può essere (e secondo me, non deve essere) “indifferenza”, quasi che decidere in un modo o in un altro possa lasciare impassibili con la consolazione di aver soltanto applicato la legge. Il giudice “sente” le vicende su cui è chiamato a giudicare, le “vive” in misura maggiore o minore a seconda dei casi e dei momenti; e la sua imparzialità si confronta continuamente con la sua partecipazione alla vicenda che esamina.

Più corretta, in definitiva, mi parrebbe la frase che stiamo analizzando se non affermasse in modo categorico che i giudici devono essere imparziali, ma che i giudici devono “sforzarsi” di essere imparziali: l’imparzialità, cioè, non è uno status raggiunto una volta e per sempre, una maschera da indossare insieme alla toga per (fingere di) non provare sentimenti ed emozioni, ma un continuo esercizio di raffronto tra quanto suggerito dal proprio foro interiore e quanto (a volte anche molto diverso) emerge dalla realtà processuale, per non lasciar prevalere il primo, ma senza con ciò ridursi a meri automi senza anima.

Ancor più opinabile, poi, mi pare l’altra parte della frase nel senso oggi diffuso dal senso comune imperante: i giudici devono anche apparire imparziali.

Centrale mi pare l’utilizzo del verbo, apparire, che, come insegnano i dizionari, seguito da un aggettivo significa “mostrarsi”, ma può significare anche “sembrare”, rimarcando una contrapposizione tra ciò che sembra e ciò che davvero è.

Che significa allora “apparire imparziali”? a seguire gli strepiti oggi assai diffusi, vorrebbe dire essere indifferenti («odio gli indifferenti»…), non mostrarsi e non mostrare il proprio modo di vedere il mondo. Ma questa “apparenza di imparzialità” sarebbe, allora, un camuffamento della “parzialità”: se per sembrare imparziali bastasse comportarsi da “sfinge”, dissimulare ogni emozione, ogni partecipazione, evitare ogni discussione o dibattito, non prendere mai posizione, il risultato, per quanti aspirano alla famosa “giustizia giusta”, sarebbe ben misero.

Il giudice potrebbe essere del tutto fazioso e partigiano, l’importante è che non si sappia, ed il gioco è fatto.

No, apparire imparziale non può significare questo.

Il giudice deve “apparire” imparziale nel processo, mostrarsi capace di imparzialità in ogni passaggio dei processi che è chiamato a gestire. Deve, cioè, essere in grado di infondere fiducia nelle parti che, quali che siano le sue convinzioni, le sue opinioni, il suo credo religioso, egli/ella sarà in grado di dominarli, apparendo dunque un buon arbitro della controversia che è chiamato a risolvere.

E tanto più apparirà imparziale in quanto siano palesi e conosciuti i suoi sentimenti, le sue passioni, le sue opinioni: la sua capacità di “apparire imparziale”, nel senso indicato, potrà, in tal caso misurarsi su dati palesi, pubblici, conosciuti e conoscibili senza bisogno di rimestare tra frammenti di video di anni precedenti o su, a volte inavvertiti o imprudenti, post pubblicati sui social.

La china che, invece, si sta imboccando maltrattando il significato di parole e concetti da maneggiare con cura, può portare, oltre che a palesi strumentalizzazioni quali quelle a cui assistiamo in questi giorni e in queste ore, ad una diffidenza ingiustificata e ad accuse di parzialità di giudici “a prescindere”: se ha cantato Bella Ciao, allora non mi può giudicare, perché non è imparziale; se va in Chiesa la domenica, allora non può esaminare la mia domanda di separazione, perché non è imparziale; se ha manifestato idee politiche a favore di una parte, allora non può giudicare quel politico che appartiene ad altra parte, perché non è imparziale; se è iscritto al WWF non può giudicare di reati ambientali, perché non è imparziale; e così via, alla ricerca di una finta imparzialità che, alla fine, cela solo il desiderio di liberarsi di giudici scomodi o scegliersi quelli a sé più vicini.

* Presidente di Sezione, Tribunale di Napoli

Fonte: Questione Giustizia

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