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È la mancanza di welfare di Stato a rendere le condizioni in carcere disumane

Gian Carlo Caselli il . Criminalità, Diritti, Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

Le ricette che vengono presentate non sono né proponibili né sufficienti. Sono troppe le Istituzioni che non si assumono più le proprie responsabilità.

Siamo assillati dalla necessità di regolare il carcere, che appare un mondo a sé ma comunque ci riguarda, perché punisce troppo o troppo poco e incide sulla sicurezza sociale.

Poi succede che da quell’antro giungano notizie raccapriccianti: violenze di massa su detenuti, ripetute aggressioni al personale, morti d’inedia, suicidi, autolesionismo, proteste da una parte e dall’altra. E allora, se non tutti, ecco che molti offrono soluzioni.

Foucault diceva che la storia del carcere si sovrappone a quella della sua crisi e delle critiche che l’hanno accompagnata. Non possiamo allora stupirci e tirare fuori, lì per lì, qualche rimedio. Per poi scoprire che si tratta di soluzioni già proposte ma abbandonate in quanto impraticabili, oppure tali da agganciare solo in minima parte il problema.

Ricordiamo la Grande Pandemia? All’inizio, nel pieno dell’ecatombe, si pensava che saremmo diventati tutti più solidali e vicini. Non è successo. Anzi, già nel suo corso (e ancora oggi) il virus è diventato per molti la leva per affermare i propri interessi. Non esistono soluzioni elaborate presto e bene a tavolino o, peggio, in una conferenza stampa e nemmeno in un video messaggio a carceri unificate alla moda dell’ultimo Nordio-re.

Dovrebbero esistere l’ascolto, il confronto, l’elaborazione e la sperimentazione quotidiana di un programma, secondo una cultura del fare ma anche del pensare. E qui le cose si complicano, rischiando di buttare infruttuosamente la palla in tribuna. Perché se quell’antro vomita brutture non è per caso ma neanche per un motivo preciso, annullato il quale tutto si risolve.

In un epoca dove la semplificazione non riguarda il nostro agire né la relazione quotidiana con il prossimo, ma il c.d. pensiero dominante, sfugge la concatenazione, unica guida ai problemi da risolvere.

Di fronte alla morte d’inedia di una donna straniera, sia pure condannata per un grave delitto, qualcuno dice perché non poteva vedere i suoi figli, e di fronte al suicidio per solitudine di una giovane ragazza in carcere per la somma di piccole condanne, forse è il caso di esprimersi con la massima chiarezza. Difetti di comunicazione fra autorità diverse? Carenze organiche? Impossibilità di interventi coatti? Scarsità di medici e psicologi? Poche misure alternative concesse? Sovraffollamento cronico?

Tutto, o quasi, plausibile. Risponderà per quanto possibile l’inchiesta. Ma il nostro confuso sconcerto aumenta.

In alcuni può subentrare la tentazione del “basterebbe”. Basterebbe migliorare la comunicazione, aumentare gli organici, disporre coattivamente, aumentare la presenza delle professionalità sanitarie e la concessione di misure alternative, ridurre l’affollamento… Certo pare logico, ma cerchiamo di capire guardandoci a ritroso e parafrasando Branduardi, chiedendoci che c’entra il topolino con il macellaio, ovvero quali sono i motivi veri per cui quel “basterebbe” non è né proponibile né sufficiente.

Se il carcere continua ad essere sovraffollato e sempre più quello che molti descrivono come strumento di detenzione o discarica sociale è perché è quasi completamente saltato il welfare state, ma anche – prima di questo -buona parte della funzione scolastica e famigliare.

Ma sicuramente è anche scemato l’afflato, sia collettivo che individuale, sia pubblico che privato, quel misto di curiosità, solidarietà e responsabilità nei confronti degli altri, necessario per affrontare le nuove sfide che un mondo globalizzato e iniquo ci porta fino alle porte di casa.

Non siamo più in grado di gestire il flusso e la permanenza di migliaia di migranti costretti a una condizione di irregolarità prima e, per molti, di illegalità dopo. Sicuramente vi è stata una certa burocratizzazione dell’accoglienza e cura dei tossicodipendenti, ma anche delle persone disturbate, fragili dal punto di vista mentale e sociale.

Secondo una recente ricerca due terzi della popolazione detenuta non possono più aspirare ad una misura alternativa dal carcere (unico obiettivo costituzionale teso al reinserimento sociale nel corso e dopo una pena detentiva) perché le loro fragilità non collimano con i criteri di affidabilità che tutti i Servizi, da quelli della Giustizia a quelli Sanitari a quelli Sociali, si danno per operare.

In altre parole i limiti e le fragilità di questi stessi Servizi ad affrontare le fragilità della loro utenza riducono i due terzi della popolazione detenuta ad uno stato di mera neutralizzazione contraria allo stesso dettato costituzionale.

Se ci fermassimo qui la palla rimarrebbe in tribuna e allora non avremmo portato alcun contributo. Proviamola a riportarla in campo questa benedetta palla. Ponendo alcune ruvide domande che valgono per tutte le città con un carcere almeno medio-grande.

È disposto il Comune ad investire in operatori che si occupino di centri diurni all’interno dell’istituto per accogliere e accompagnare quotidianamente i più disordinati, fragili e fastidiosi, evitando che la convivenza interna assuma le forme di un conflitto quotidiano?

Sono disposti i Garanti Comunale e Regionale a pungolare i loro Enti elettivi al punto di trovare idee, fondi, volontà ed intelligenze?

È disposto il SerT ad integrarsi con le Comunità terapeutiche esterne e con i Servizi di psichiatria territoriale? Sono disposti Regione e Comune a finanziare questi presidi e queste sinergie?

È disposto l’Ufficio di Esecuzione Penale Esterna del Ministero della Giustizia ad essere meno espressione esecutiva di una sentenza e più Servizio Sociale, riprendendo a sé una serie di funzioni di ricerca e creazione di risorse e raccordo di queste con gli altri Enti del territorio?

Sono disposti Ministero della Giustizia e Amministrazione penitenziaria ad affiancare al mantra della sicurezza in sé, con pari dignità, quello del trattamento per la sicurezza, intendendo per pari dignità quella dei numeri degli operatori da destinarvi, dei loro stipendi e della loro progressione di carriera?

È disposto, sempre il Ministero, a stanziare quanto necessario per far fronte al degrado e alla scarsa igiene dei luoghi di detenzione? È in grado di liberalizzare davvero (non solo promettere) il regime delle telefonate, almeno per i detenuti comuni condannati, senza dover passare necessariamente dai centralini oberati degli istituti di pena?

È disposto il carcere a creare una rete con l’Avvocatura per creare sinergie utili a prevenire i suicidi ma, più in generale, per costruire percorsi praticabili di reinserimento?

È disposta la Questura a verificare la possibilità di regolarizzare gli stranieri detenuti aventi diritto prima della loro scarcerazione?

È disposta l’Imprenditoria a portare risorse, commesse e competenze per aumentare l’occupazione all’interno e ridurre la povertà di quelle persone? La stessa Imprenditoria è disposta ad accogliere una quota di queste persone una volta liberate?

È disposta l’Italia a far cambiare narrazione e legislatura in materia di penalità e sicurezza?

Siamo TUTTI disposti a fare questo e tante altre cose che migliorerebbero il nostro senso di comunità e di sicurezza?

Se la risposta positiva supera il mugugno o il dissenso allora, non da subito, potremo sperare che la gente non si lasci morire in carcere dalla disperazione e che, laddove si riuscisse a scongiurarlo, questo non dipenda dal caso o dalla buona volontà di qualcuno ma da Istituzioni attente e consapevoli.

In caso contrario…

Fonte: La Stampa

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