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Gli ultimi cinquantasette giorni di vita di Paolo Borsellino

Eleonora D'Amico il . Giovani, Giustizia, Mafie, Memoria, Politica, Sicilia, Società

Intervista a Salvatore Borsellino, fratello del magistrato ucciso dalla mafia a Palermo il 19 luglio del 1992 con un’autobomba.

Nel 1985, qual è stata la motivazione che ha spinto il dottor Paolo Borsellino a chiedere il trasferimento presso la Procura di Marsala di cui poi è diventato Procuratore capo?

Le motivazioni di tale scelta riguardavano, principalmente, ragioni puramente formali in ragione del fatto che questo è il normale iter che seguono i magistrati una volta prestato giuramento. A seguito degli esiti del Maxi processo, infatti, mio fratello aveva chiesto tale trasferimento per avanzare nella propria carriera e non dover più ricoprire il ruolo di sostituto Procuratore presso gli uffici istruttori del Tribunale di Palermo; la sua presenza in quella sede ormai era divenuta non necessaria.

Inoltre, Antonino Caponnetto era ancora presente nella direzione del Pool Antimafia insieme al suo amico e collega Giovanni Falcone.

Sono fermamente convinto che venne tacitamente sottoscritto un accordo tra i tre, attraverso il quale la presenza di mio fratello sul territorio marsalese avrebbe favorito un controllo più serrato nei confronti della famiglia mafiosa di Matteo Messina Denaro, la quale portava avanti da tempo numerose trattative con la Massoneria e con alcuni volti dei Servizi Segreti.

Quale fu la scelta che lo spinse, successivamente, a rientrare a Palermo?

Tale scelta è sicuramente riconducibile al trasferimento forzato di Giovanni Falcone presso gli Uffici Penali a Roma, causa di ciò lo smantellamento del Pool Antimafia da parte del consigliere Antonino Meli. Paolo, infatti, chiese di ritornare presso l’ufficio Istruzione a Palermo per le medesime ragioni che lo avevano spinto tempo prima ad andarsene: sapeva che la sua presenza era indispensabile una volta lasciato scoperto il posto di Falcone, altrimenti l’azione comune di lotta alla criminalità organizzata e tutti i tentativi fino ad allora messi a segno sarebbero rimasti vani.

Il suo rientro venne comunque ostacolato dalla figura controversa di Pietro Giammanco, divenuto Procuratore capo a Palermo durante quel periodo. Costui cercò in tutti i modi di impedirgli di occuparsi dei delitti di Mafia che avvenivano in quel momento storico ed estromise mio fratello dagli interrogatori di Gaspare Mutolo e Leonardo Messina, affidandoli a diversi Procuratori come Vittorio Aliquò, Gioacchino Natoli e Guido Loforte. Paolo cercò in ogni modo di sentire Mutolo e Messina che si fidavano solo di lui a seguito della morte di Giovanni ed approfittava anche delle pause pranzo in cui si incontrava solo con loro per ottenere tutte le informazioni necessarie, altrimenti mai pervenutegli. Gaspare Mutolo e Leonardo Messina svolsero un ruolo chiave nella svolta delle indagini sulla strage di Capaci perché, per la prima volta, menzionarono lo stretto e perverso rapporto che intercorreva tra Cosa Nostra e autorità colluse dello Stato.

Pietro Giammanco continuò ad ostacolare Paolo fino al giorno della sua morte in cui sembrò apparentemente deciso a concedergli la direzione investigativa circa i delitti di Mafia, scelta purtroppo rimasta vana per quello che successe poche ore dopo la telefonata, in cui la stessa moglie Agnese testimonia la riluttanza di Paolo nell’apprendere simile notizia.

Lo stesso Procuratore Capo alcuni giorni prima della Strage di via d’Amelio omise di informare Paolo del carico di tritolo sopraggiunto a Palermo e certamente destinato a lui. Paolo, appresa la notizia, si scagliò prepotentemente contro il suo capo Giammanco per non averglielo comunicato preventivamente ma tutto rimase vano e il resto, sfortunatamente, è divenuto Storia.

Secondo Lei, c’è stato un momento nel quale ha realizzato che da lì a breve sarebbe potuto accadere anche a lui? Inoltre, ha mai notato se ci fossero stati momenti di esitazione o tentennamento avendo una famiglia a carico? Le ha mai comunicato paura o sconforto in tal senso?

L’ultima volta che ho visto mio fratello Paolo in vita risale al Capodanno del 1992. Era insolito che passassimo le vacanze insieme poiché mi ero trasferito da Palermo  già molti anni prima. Notai che il suo sguardo era più cupo e la sua espressione più severa, rimase qualche giorno in montagna con noi e poi, di fretta e furia, ripartì per occuparsi della strage di Palma di Montechiaro avvenuta in quei giorni.

I racconti successivi a quell’incontro mi sono pervenuti da chiacchierate telefoniche intercorse tra noi o dalle fotografie che mi vennero mostrate ed era palese che fosse distante dalla sua realtà quotidiana, sembrava guardarsi continuamente le spalle come se da un momento all’altro la morte sopraggiungesse imminente per lui. Mia madre mi ha raccontato che in quei cinquantasette giorni le ripeteva spesso una frase come “Mi devo muovere, devo fare in fretta perché non ho più tempo” e questo atteggiamento scostante ed insolito per lui lo metteva in atto anche nel rapporto con i figli, dai quali si stava distaccando per permettere loro di metabolizzare meglio ciò che sarebbe accaduto di lì a poco. Fiammetta stessa racconta che all’epoca dei fatti era più che ragazza e il padre non la voleva più tenere sulle ginocchia come era solito fare fino a poco tempo prima.

Anche con la scorta aveva ormai un atteggiamento differente e quando poteva cercava di dimenarsi dagli stessi con l’obiettivo di morire da solo e senza coinvolgere altre persone che sapeva sarebbero morte invano.

Era pienamente cosciente di ciò che stava succedendo e non ha avuto alcun momento di esitazione o tentennamento, ricordo l’ultima chiacchierata intercorsa tra di noi, risalente al venerdì antecedente alla strage. Lo invitai più volte ad andarsene da lì e a raggiungermi a Milano ma lui non esitò per un’istante dal venire meno a quel giuramento che aveva fatto nei confronti dello Stato, lo stesso che da lì a poche ore lo avrebbe tradito e ucciso.

Da qualunque parte venga quella morte che so che sta per arrivare…” questa frase risuona ancora oggi nella mia mente come una velata consapevolezza che quel suo sacrificio era purtroppo necessario e non più voluto soltanto da uomini di Cosa Nostra ma anche da altri poteri più grandi come quello politico. La stessa moglie Agnese ha più volte raccontato che negli ultimi giorni di vita le ripeteva spesso che la sua morte non sarebbe dipesa soltanto dalla Mafia ma anche da uomini collusi dello Stato medesimo.

In quel periodo il dott. Paolo Borsellino rilasciò un’intervista alla TV francese e fece anche la sua ultima apparizione pubblica in quel celebre discorso tenuto alla Biblioteca Comunale di Palermo dopo la strage di Capaci. Secondo la sua percezione, suo fratello stava cercando indirettamente di puntare il dito contro alcune cariche dello Stato che avevano lasciato Falcone da solo nell’ultimo periodo della sua vita?

Quel discorso tenutosi alla Biblioteca Comunale di Palermo un mese dopo la strage di via Capaci, può sicuramente essere letto come un testamento spirituale di mio fratello Paolo, con il quale aveva firmato la sua condanna a morte.

Paolo non ha voluto formalmente denunciare all’opinione pubblica quelli che erano i mandanti di quella tremenda strage ma sicuramente ha voluto far presente ai cittadini palermitani che c’era qualcosa di molto più grande che tesseva le fila dell’operato di Cosa Nostra; non menzionò direttamente la trattativa Stato-Mafia divenuta celebre negli anni successivi, ma di cui sicuramente era a conoscenza mentre lentamente si preparava a morire.

Lui si definisce un “testimone” in quel discorso relativamente a Capaci ed era pronto a denunciare tutto davanti alla Procura di Caltanisetta che però non ha mai voluto ascoltarlo.

Il procuratore Tinebra lo aveva, infatti, convocato per la settimana successiva a quel fatidico 19 luglio, testimonianza del fatto che in realtà nessuno avrebbe voluto ascoltarlo perché ormai era divenuto un ostacolo insormontabile per quella Trattativa di cui, se avesse potuto, avrebbe sicuramente denunciato e affrontato nelle opportune sedi come solo un uomo di giustizia fortemente fedele al proprio codice deontologico avrebbe fatto.

Aveva la necessità di parlare e lo avrebbe fatto se non lo avessero messo a tacere prima.

Con l’intervista all’emittente francese Canal Plus l’intento che lo smosse era il medesimo: cercare velatamente di far comprendere al popolo, siciliano e italiano in generale, che vi erano interessi più forti dietro la morte di Falcone.

Come hanno reagito i cittadini palermitani a seguito delle due stragi del 1992?

L’opinione pubblica di quel periodo ha avuto reazioni eterogenee rispetto a quegli accadimenti. Vi era una parte “sana” di popolazione che espose le lenzuola bianche fuori dai balconi con scritte contro la Mafia, indice che vi era da quel momento in poi una vera e propria ribellione dei cittadini a quei trattamenti passivamente subiti e mai contestati fino a quel momento. Mi riferisco, ad esempio, alla tanto discussa questione del pagamento del cosiddetto “pizzo” e fu veramente emozionante vedere tante persone scendere nelle piazze e ribellarsi a tutto quello che avevano tollerato in quegli anni.

Iniziò una vera e propria Dichiarazione di Guerra contro la Mafia, mai vista prima.

I giovani, soprattutto, sono stati il motore portante degli insegnamenti di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e hanno cercato nel corso degli anni di contrastare, attraverso innumerevoli forme di associazionismo, il fenomeno mafioso. Una vera e propria ribellione a quella abitualità che ormai non aveva più fondamento in una società che stava cambiando. Paolo ne sarebbe stato molto fiero poiché ha sempre rivolto tutta la propria vita all’insegnamento dei valori fondamentali della giustizia ai giovani; ci è rinvenuta una lettera che il suo ultimo giorno di vita trasmise ad un Liceo di Padova in cui si dichiarava “ottimista” verso quelle nuove generazioni che avrebbero potuto donare una reale speranza di cambiamento nei confronti di questa tematica ancora tanto attuale.

Da molti anni, anche io svolgo molte lezioni nelle scuole per cercare di educare e coinvolgere i giovani nella conoscenza di questa realtà che non è del tutto scardinata nel territorio italiano ma che ha radici molto forti: basti pensare all’indifferenza che ormai da trent’anni lo Stato continua a nutrire nei confronti di questi temi, cercando quotidianamente di affievolire l’importanza del regime del 41bis e volendo l’abolizione dell’ergastolo ostativo; si cerca ancora come una volta di ostacolare l’operato di Paolo Borsellino e Giovanni Falcone, trascurando l’importanza della loro lotta e del sangue che hanno versato.

Il contributo donato loro al diritto penitenziario attraverso l’introduzione dell’art 41 bis ha cambiato il mondo di intendere oggi l’associazione a delinquere mafiosa. Quali sono state le ripercussioni nella sensibilità dell’opinione pubblica e nell’evolversi del fenomeno mafioso? Cosa pensa oggi della diffusione della Mafia, è rimasto un problema locale, nazionale o internazionale?

Questo è il rovesciamento della medaglia di cui parlavamo prima: c’era gente che mentre due uomini dello Stato e le rispettive scorte saltavano in aria, brindava dalle carceri dell’Ucciardone con aragosta e casse di champagne per essere riuscita a porre fine all’operato di quel grande e temuto ostacolo che erano divenuti per loro, mio fratello e Giovanni. Il paradosso e lo sdegno più grande che nutro ancora oggi, però, è da ricercarsi in quei personaggi collusi che festeggiavano quando in realtà avrebbero dovuto proteggerli.

Giovanni Falcone, soprattutto, è stato un vero e proprio stratega della lotta alla mafia e ha studiato pedissequamente, tutte quelle leggi utili a contrastarne il fenomeno nel periodo in cui era a Roma. Il suo desiderio più grande era quello di poter fornire allo Stato strumenti efficaci e proficui per aiutare il popolo siciliano e italiano a non vivere più nel terrore soffuso e dominante condotto da Cosa Nostra per decenni. L’introduzione del regime carcerario del 41bis e dell’istituto dell’ergastolo ostativo o anche la legge sui collaboratori di giustizia sono stati strumenti rivoluzionari per il sistema penitenziario e la lotta alla criminalità organizzata ma, come spesso accade in Italia, è necessario sporcarsi del sangue di alcuni per cominciare a capire l’importanza di certe cose. Non è un caso, infatti, che il decreto-legge per introdurre tali istituti sia stato approvato solo il 7 agosto del 1992, dopo che le due stragi erano state compiute.

Ad oggi la situazione non appare essere molto diversa e vi è un forte disinteresse di buona parte della popolazione e del Governo stesso ad affrontare e ricordare la rilevanza di certe tematiche.

In Europa la situazione non è nettamente diversa poiché la stessa Corte Europea si disinteressa dell’associazione a stampo a delinquere mafioso e non prende spunto dalla legge antimafia italiana che è avanguardistica in tal senso, per porla a modello di riferimento per introdurre una legge europea che consenta di tracciarne un controllo serrato di quel movimento mafioso, ormai senza confini delimitati.

A distanza di 30 anni, cosa direbbe ai giovani nati successivamente a quegli accadimenti, per convincerli che nonostante tutte le contraddizioni, è meglio scegliere di stare dalla parte dello Stato rispetto a quella della Mafia?

L’indifferenza popolare ci lascia scettici e impotenti di fronte a tutto ciò e vi è anche un’insana colpevolezza degli organismi di informazione che non pilotano utilmente le notizie per far luce e chiarezza su determinati fenomeni. L’unico strumento utile per far conoscere ai giovani tali dinamiche è sicuramente lo strumento dell’informazione educativa che va fatta nelle scuole che dovrebbero dare più risalto alla Storia delle Stragi del Secondo Dopoguerra e non limitare i loro programmi scolastici facendoli giungere solo alle vicende della Seconda Guerra Mondiale.

Ci deve essere una memoria collettiva tenuta accesa e portata avanti da tutte quelle figure che come me svolgono il proprio lavoro di educatori e hanno la responsabilità della creazione della conoscenza nelle menti giovanili. Questo è l’unico modo che conosco e che ormai perseguo da anni, mi sembra il metodo più efficace per attivare nei giovani determinate consapevolezze e renderli in grado di affrontare con occhio critico, il loro futuro.

Bisogna investire su di loro perché gli adulti hanno fatto molti più danni che altro ed è oggi più che mai necessario portare avanti le parole di uomini che hanno sacrificato la propria vita al servizio di un bene più grande: l’amore per la giustizia.

Lei è stato un forte sostenitore dell’operato di suo fratello; infatti, si sa che nel tempo ha contribuito alla creazione e gestione del “Movimento Agende Rosse” con la quale numerosi cittadini si mobilitano quotidianamente affinché venga definitivamente fatta luce e chiarezza circa quei famosi e contradditori accadimenti che si sono susseguiti nel pomeriggio di quel 19 luglio in via D’Amelio. Come sta procedendo il vostro lavoro?

Il “Movimento Agende Rosse” si propone come movimento apartitico che vuole portare avanti l’idea di una politica vera e sana grazie alle nostre azioni quotidiane, il cui scopo principale è quello di ricercare la verità circa le stragi del 1992. È principalmente costituito dai giovani che vogliono portare avanti gli insegnamenti di Paolo e commemorare la sua Memoria attraverso la ricerca di quella verità ancora poco chiara al giorno d’oggi. La rabbia è la linfa vitale che ci spinge a non mollare e a lottare perché venga fatta chiarezza sugli accadimenti di quel fatidico 19 luglio 1992.

Un membro dell’associazione Angelo Garavaglia si è personalmente occupato, nei suoi ultimi anni, di rimettere insieme e recuperare tutti gli spezzoni dei vari video raccolti in quelle torride ore del 19 luglio. Abbiamo insieme analizzato anche le ombre del sole sui palazzi per riuscire a stabilire il vero percorso che quell’agenda ha effettuato dalle ore 17 in poi.

La scomparsa dell’Agenda Rossa, secondo noi, custodisce i segreti dei reali mandati del delitto di via d’Amelio in cui hanno perso la vita mio fratello e le persone della scorta; può considerarsi la vera e propria scatola nera di quella strage. Un depistaggio continuo ed inesorabile che si prolifera fino ad oggi, attraverso le innumerevoli contraddizioni verificatesi sia in sede giudiziale sia in altre sedi. Ormai, è dato per certo che quell’agenda non sia stata distrutta durante l’esplosione poiché è apparso più volte paradossale che venisse restituito il contenuto integro della borsa di Paolo senza quello che era l’elemento più importante e più criptico di tutto il delitto.

Credo che questa agenda adesso si trovi nelle mani di specifiche persone che hanno ancora l’esigenza di tenere in vita quei patti consolidati con le cariche colluse dello Stato e che possano addirittura usarla come strumento di ricatto in futuro. Le mie sono solo idee, ma l’unica convinzione che mantengo imperturbabile dentro di me è che non è stata distrutta e prima o poi, mi auguro venga alla luce con tutte le sue verità.

Falcone e Borsellino sono stati considerati nel corso del tempo come “eroi della patria”. Alcuni ritengono che fossero persone che hanno svolto solo il loro dovere fino in fondo non facendosi intimorire dalle continue e perduranti minacce ricevute. Cosa ne pensa?

Ritengo che questo termine coniato nei loro confronti sia altamente fuorviante in quanto in Italia bisogna quasi sempre morire per diventare degli eroi. Proclamare eroi quegli stessi servitori dello Stato che hanno visto distrutto, in epoche più recenti, il patrimonio giuridico che hanno fornito a questo Paese… tutto ciò mi sembra paradossale.

L’educazione a certe tematiche e una coscienza cittadina attiva possono essere le uniche armi utili per fronteggiare tale lotta. Ricordarci sempre che gente comune svolgeva con passione e forte senso del dovere il proprio lavoro nel nome di uno Stato che li ha abbandonati, negli ultimi giorni della loro vita. Non bisogna necessariamente essere figure emblematiche come Giovanni e Paolo ma bisogna limitarsi a denunciare tutte le irregolarità che avvengono quotidianamente nel nostro piccolo e che aiuteranno, sicuramente, a fare la differenza nel grande.

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