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Falcone e Borsellino 30 anni dopo. L’Italia ha ripreso la loro strada

Gian Carlo Caselli il . L'analisi, Mafie, Memoria, Politica, Società

Questo è l’anno del XXX Anniversario delle stragi di mafia del 1992. Capaci e via d’Amelio, sono state – per il nostro Paese – qualcosa come l’11 settembre per gli USA.

Questo accostamento di Falcone e Borsellino alle Torri Gemelle (un’idea di Andrea Camilleri) sprigiona dal fatto che in ambedue i casi siamo di fronte a simboli abbattuti da una violenza politico-stragista totalizzante, con obiettivi proiettati ben oltre le vittime immediatamente colpite.

C’era il rischio concreto – con le stragi – che l’Italia diventasse uno stato-mafia, un narco-stato di tipo colombiano. Vi è stata invece una forte reazione di contrasto: latitanti arrestati, per numero e “caratura” criminale come mai in precedenza; veri e propri arsenali di armi, anche da guerra, sottratti alla ferocia criminale dei mafiosi; Cosa nostra costretta a subire una pesante stagione di processi, che per i suoi affiliati si sono conclusi con giuste condanne; processi e condanne anche per complici “eccellenti”; beni mafiosi sequestrati in gran quantità (10.000 miliardi di vecchie lire il valore complessivo dei sequestri operati dalla Procura di Palermo dal 1993 al 1999) e – quando confiscati – destinati ad impieghi socialmente utili.

L’Italia ha ripreso così la strada tracciata da Falcone e Borsellino con il maxi processo. La strada giusta per contenere e alla fine sconfiggere Cosa nostra, che – per parte sua –  ha dapprima insistito nella rabbiosa strategia stragista con gli attentati del 1993 a Roma, Firenze e Milano, per poi inabissarsi in modo da uscire dai “riflettori”, rimarginare le ferite, ritessere la tela dei suoi rapporti, riprendere sotto traccia le imponenti attività di accumulazione di capitali.

L’eredità civile delle vittime di mafia

Dunque, dobbiamo purtroppo ancora dire che il nostro è sì un Paese con gravi problemi di mafia, ma possiamo anche orgogliosamente rivendicare di essere il Paese dell’antimafia.

In primo luogo per il prezzo altissimo che l’Italia ha pagato subendo un’infinità di vittime innocenti. Le vittime di mafia ci lasciano una “eredità” che lo storico Salvatore Lupo riconduce a questi concetti: dall’impegno di alcuni, e (purtroppo) dal martirio di altri, nasce la sorpresa che, in un’Italia senza senso della patria e dello Stato, ci siano persone disposte a morire per il loro dovere, per questa patria e per questo Stato.

Prende così forma l’idea (di per sé contraddittoria) delle persone vittime di mafia come “rivoluzionarie”, in quanto portatrici di legalità. Viviamo in un Paese nel quale agli occhi dei cittadini lo Stato si manifesta troppo spesso solo con i volti impresentabili di tanti personaggi eccellenti che con il malaffare hanno scelto di convivere, o peggio. Le vittime di violenza mafiosa sono state soprattutto straordinarie creatrici di credibilità e rispettabilità. Vale a dire che, operando come hanno operato in vita e sacrificandosi fino alla morte, hanno restituito lo Stato alle persone, che così riescono a dare un senso alle parole “lo Stato siamo noi”.

La giornata del 21 marzo

Poi siamo il paese dell’antimafia grazie anche ai familiari delle vittime di mafia. Essi vivono un continuo, immenso dolore che non lascia respiro. Lo sopportano con dignità e coraggio. Chiedono giustizia e non vendetta. Nei loro confronti abbiamo tutti un debito enorme: la loro fermezza è un richiamo a non dimenticare e un punto di riferimento morale.

È quindi assolutamente irrispettoso che qualcuno possa pensare (eppure è avvenuto) alla necessità di una “rieducazione delle vittime, da affidare alla competenza di esperti psicologi”; e ciò accampando l’ingiustificato timore che i familiari possano sbilanciare, accentrandola su di sé, la trattazione dei problemi di mafia.

Per contro, uniamoci ai familiari, in particolare quando, ogni 21 marzo, affollano la giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime di mafia organizzata da Libera (quest’anno a Napoli), rinnovando la lettura dell’interminabile elenco delle vittime innocenti di mafia, oltre 1100, nel silenzio assoluto delle decine di migliaia di persone presenti, soprattutto giovani.

E ancora: siamo il Paese dell’antimafia perché l’Italia è all’avanguardia sul piano della legislazione e dell’organizzazione del contrasto dei fenomeni mafiosi.

Non è un caso se Eurojust (Unità di cooperazione giudiziaria), embrione della  Procura europea (operativa dal 1° giugno 2021) è modellata sulla nostra Procura nazionale antimafia. E non è un caso che l’Onu abbia organizzato proprio a Palermo, nel dicembre 2000, la Conferenza contro la criminalità organizzata transnazionale. Soprattutto, non è un caso che, sottoscrivendo la Convenzione finale, circa due terzi degli Stati aderenti alle Nazioni Unite abbiano assunto l’impegno di inserire nel proprio ordinamento tutta una serie di misure, “pensate” con riferimento alla concreta realtà delle organizzazioni criminali, mutuate dall’esperienza investigativo-giudiziaria maturata in particolare nel nostro Paese.

L’elenco delle principali misure comprende infatti – fra l’altro – la previsione come reato della partecipazione a un gruppo criminale organizzato; la confisca dei beni dell’associazione; la protezione dei testimoni e l’assistenza delle vittime; l’incentivazione dei “pentimenti” mediante sconti di pena fino all’immunità; il ricorso nelle indagini a operazioni sotto copertura.  In sostanza, una specie di Little Italy antimafia…

La legalità come vantaggio

Ma il nostro fiore all’occhiello, ovunque studiato e imitato, è l’antimafia sociale o dei diritti. Carlo Alberto Dalla Chiesa, ucciso dalla mafia il 3 settembre del 1982, nell’intervista che Giorgio Bocca gli fece pochi giorni prima (“Come combatto contro la mafia”, in “la Repubblica”, 10 agosto 1982), prefigura l’antimafia sociale o dei diritti quando – lui, uomo “programmato” per la repressione nel rispetto delle regole – non dice che per sconfiggere la mafia ci vogliono manette e ancora manette, ma altro: “Ho capito una cosa molto semplice ma forse decisiva; gran parte delle protezioni mafiose, dei privilegi mafiosi caramente [nel senso di “a caro prezzo”: N.d.A.] pagati dai cittadini non sono altro che i loro elementari diritti. Assicuriamoglieli, togliamo questo potere alla mafia, facciamo dei suoi dipendenti i nostri alleati”. In altre parole, se i diritti fondamentali dei cittadini non sono soddisfatti, i mafiosi li intercettano e li trasformano in favori che elargiscono per rafforzare sempre più il loro potere.

La via che Dalla Chiesa indica per sconfiggere la mafia è l’antimafia che paga in termini di lavoro e recupero di dignità. Che concretizza la legalità come vantaggio. Che si affianca all’antimafia della repressione e della cultura, creando così un triplice fronte di contrasto, ben più efficace della semplice “delega” a forze dell’ordine e magistratura. E quel che Dalla Chiesa aveva prefigurato nel 1982 oggi è diventato realtà;  ripeto: un nostro fiore all’occhiello, studiato ovunque.

Il capolavoro di don Ciotti

Un passaggio fondamentale al riguardo è rappresentato dalla legge 7 marzo 1996 n. 109 su gestione e destinazioni dei beni confiscati ai mafiosi. Un “capolavoro” ideato da Luigi Ciotti mentre ragionava su una bestemmia (strano per un prete, ma vero), e cioè: la mafia dà lavoro.

Niente di più falso, eppure tanti erano portati a  crederci. Perché un tempo i beni e i terreni tolti ai mafiosi restavano inutilizzati a coprirsi di  ragnatele, per cui il mafioso espropriato aveva gioco facile a dire: “Ecco, quando padrone ero io, si produceva ricchezza soprattutto per me, è vero, ma c’era qualcosa anche per voi, che ora restate a secco; dunque fate i vostri conti: meglio prima o adesso?”. Il ragionamento aveva una certa presa. Ed era facile che la società civile si defilasse e i cittadini scegliessero di allearsi non con lo stato ma con la mafia, quanto meno attraverso un comportamento omertoso di accettazione rassegnata.

La situazione viene ribaltata con la legge 109/96. Essa sancisce che i beni confiscati ai mafiosi sono destinati ad attività socialmente utili, cioè restituiti alla collettività a cui la mafia li ha rapinati, così che la collettività possa trarne profitti sociali. Ed ecco che la villa di Salvatore Riina a Corleone diventa un istituto agrario e poi una caserma; ecco che i terreni agricoli dei mafiosi sono coltivati da cooperative di giovani che producono vino, olio, farina e pasta mediante iniziative economiche e lavoro liberi.

È questa libertà che fa dei soggetti coinvolti cittadini titolari di diritti e non più sudditi costretti a baciare le mani del mafioso di turno. Sta qui il significato profondo della legge: fare dell’antimafia una legalità che conviene, che restituisce quel che la mafia ha “mal-tolto”. Una legalità non più soltanto questione di guardie e ladri, ma in grado di coinvolgere la società civile, compresi quelli che prima restavano alla finestra a guardare, se non peggio.

Il capolavoro di don Ciotti non consiste soltanto nella formulazione di un progetto di legge di iniziativa popolare. A quell’idea Ciotti ha dato gambe su cui camminare, organizzando una raccolta di firme per sostenerla. Alla fine le firme sono state un milione. Una montagna!

A una tale “pressione” non si può certo resistere! E difatti la legge fu approvata all’unanimità (ma senza estenderla ai corrotti come stava scritto nel progetto originario), una unanimità che costituì una formidabile legittimazione dell’intera società civile italiana all’antimafia sociale e dei diritti.

* Fonte: Rocca n°07 – 1 aprile 2022

Rocca è la rivista della Pro Civitate Christiana di Assisi

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