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L’etica del Generale dalla Chiesa era fondata sulla responsabilità e non sul dovere

Umberto Ambrosoli * il . L'analisi, Lombardia, Mafie, Memoria, Politica, Società

L’Etica: è la riflessione sul comportamento pratico dell’uomo di fronte ai due concetti di bene e di male. Comportamento pratico: quindi declinato, vissuto.

Ricordiamo oggi Carlo Alberto dalla Chiesa nel giorno dell’anniversario della sua uccisione, per mano della mafia, e di quella di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’Agente Domenico Russo.

Si rinnova oggi il dolore, si ravviva senso di ingiustizia per quanto accaduto. Anniversari come questo comportano spesso, per molti, il rischio di una assorbente prospettiva non costruttiva; ed effettivamente si celebra, da un certo punto di vista, la più tragica delle sconfitte.

La prospettiva, però, è un’altra: nel giorno della morte, si ricorda la vita di Carlo Alberto dalla Chiesa, degna d’essere proprio celebrata nella sua esemplarità, cioè in ciò che può essere di esempio per indirizzare le nostre vite.

Le tantissime testimonianze che abbiamo di Carlo Alberto dalla Chiesa ci dicono con assoluta certezza che la condizione che oggi stiamo vivendo – cioè di celebrazione della vita nell’anniversario del suo assassinio – è stata, quale rappresentazione, chiara compagna per lui in tanti anni della sua vita: sapeva di essere nel mirino di assassini quando combatteva il terrorismo eversivo, sapeva di esserlo quando è divenuto Prefetto di Palermo.

Era conscio del fatto come la mafia, per lo più avvezza ad uccidere malavitosi, colpiva e sapeva annientare anche quegli uomini delle istituzioni che per i suoi traffici rappresentavano ostacolo. E sapeva meglio di chiunque altro come quegli omicidi potevano realizzarsi con maggiore facilità se il “bersaglio” era isolato. Nella celebre intervista a Giorgio Bocca del 10 agosto 1982 diceva: “Credo di aver capito la nuova regola del gioco: si uccide il potente quando avviene questa combinazione fatale, è diventato troppo pericoloso ma si può uccidere perché è isolato“.

E quei 100 giorni a Palermo sono il calendario di una consapevolezza crescente: del rappresentare egli lo Stato nella lotta alla mafia senza avere con sé la forza del sostegno pieno e determinato dello Stato nella lotta alla mafia. La consapevolezza, cioè e in una certa misura, di camminare sulla via dell’isolamento istituzionale. Di qui, forse, un pezzo del suo attivarsi innovativo nel sensibilizzare gli studenti dei licei e delle università, perché non ci sono solo le istituzioni, ma anche le persone, la società.

Quella di essere assassinato non è stata però solo una condizione prevista, è stata piuttosto un rischio assunto a fronte di un obiettivo al quale ha dato il valore della sua vita: degna di essere impiegata (o se vogliamo sacrificata: nel senso proprio di resa sacra, non di essere oggetto di rinuncia) per una esigenza altissima per il Paese: il contrasto efficace all’asfissia crescente, per la società e l’economia, della criminalità organizzata mafiosa.

Questo è il più importante comportamento pratico che la sua esistenza ci rappresenta con nitore. Per il bene, prima ancora che nella scelta tra bene e male, la vita può essere impiegata fino a renderla sacra.

Non è esistere il tema, ma vivere esercitando le proprie individualità al servizio di ciò che si reputa essere il bene.

In quei giorni, come già in passato, il fulcro del suo impegno era il contrasto ad un fenomeno complesso, ramificato, non pienamente conosciuto nelle sue articolazioni ed evoluzioni, violento, sanguinario e prevaricatore, che chiamiamo mafia. E tutto sé stesso era proiettato lì. Con ogni forza gli fosse possibile esercitare: a partire da quelle che gli derivavano dalle sue attitudini, competenze ed esperienze, dal suo carisma. Ma anche con la capacità di richiamare le istituzioni che lo avevano incaricato di condurre quella battaglia a dargli gli strumenti necessari per vincerla. Comportamento pratico, concreto: mi avete affidato questa responsabilità, la ho accettata, ci metto l’impegno per vincerla, non per far finta di combattere. E vi richiamo: voi tutti dovete fare altrettanto. Altrimenti è la sconfitta, percepita o meno dall’opinione pubblica. L’impegno a parole è sconfitta.

E proprio a proposito di sconfitta, ma direttamente anche del concetto appena espresso, so che molti ricordano un passaggio di un’intervista bellissima, come quelle che Enzo Biagi era solito fare.

1981, il Generale è ancora tale, con la sua divisa. E’ un’intervista ad ampio spettro, anche con domande e risposte di introspezione, Biagi domanda “Quante volte lei si è sentito sconfitto?

Sentite la risposta: “Quando avevo ragione e ho dovuto sacrificarla”.

Risposta che ci dice quanto l’etica di dalla Chiesa non sia definibile (come pure per un Carabiniere sarebbe naturale che fosse, votato com’è alla difesa dello Stato e dei cittadini) etica del dovere, quanto piuttosto etica della responsabilità.

Sentite queste altre parole. Siamo all’inizio dei cento giorni, è il primo maggio. Forse è la prima uscita pubblica in “doppiopetto prefettizio”, per dirla con Giorgio Bocca. Nel dramma: il giorno prima è stato assassinato Pio La Torre con Rosario Di Salvo. “Se esiste un potere, questo potere è solo quello dello Stato, delle sue istituzioni, delle leggi. Non possiamo oltre delegare questo potere né ai prevaricatori, né ai prepotenti, né ai disonesti. Potere può essere sostantivo nel nostro vocabolario, ma è anche un verbo. E’ un verbo poter convivere, poter essere sereni, poter guardare in faccia il proprio interlocutore senza abbassare gli occhi. Poter ridere, parlare, sentire. Poter guardare in viso i nostri figli e i figli dei nostri figli senza avere la sensazione di doverci rimproverare qualcosa. Poter guardare ai giovani per trasmettere loro una vita fatta di sacrifici e di rinunzie, ma di pulizia. Poter sentirci tutti uniti, in una convivenza e in una società che è fatta di tante belle cose, ma soprattutto del lavoro di tanti: operai, impiegati, dirigenti che rappresentano una comunità che non vuole essere vittima di chi prevarica, di chi con il potere lucra. Occorre che tutti, gomito a gomito, ci sentiamo uniti perché anche chi è animato da entusiasmo, anche chi crede ha bisogno di essere sostenuto, di essere aiutato, di sentire di vivere in mezzo a chi crede, perché tutti credendo si possa raggiungere la meta che auspichiamo.”

Tante le vittime di mafia, ma l’assassinio di dalla Chiesa e di Emanuela Setti Carraro e dell’Agente Domenico Russo è il primo che – anche lontano dalla terra di Sicilia – ha scosso in maniera massiccia le coscienze. Ma non per la sconfitta dello Stato, ma per la capacità di dalla Chiesa di far capire come esista una dimensione di responsabilità nel contrasto alla mafia e alla cultura mafiosa anche in chi si sente lontanissimo dai suoi traffici, dalle sue influenze e dai suoi interessi.

Responsabilità non intesa come onere, ma come possibilità di impegno: nel minore dei casi anche solo di sostegno “morale” da far sentire a chi è sul fronte a combattere in difesa di ciascuno di noi.

E quindi interessarci, informarci, essere attenti e partecipi. Non permettere, quali opinione pubblica, “isolamenti” di sorta. Credere in quella prospettiva virtuosa di “potere”, vivere il proprio segmento di responsabilità è il tributo che meglio possiamo offrire all’esempio etico di Carlo Alberto dalla Chiesa.

* Intervento pubblico nel corso della manifestazione “L’etica del Generale”, promossa da Libera Milano e dal Comune di Milano in Piazza Diaz venerdì 3/9 u.s. in occasione dell’anniversario della strage di via Isidoro Carini, avvenuta a Palermo il 3 settembre 1982, nel corso della quale persero la vita il Prefetto di Palermo Carlo Alberto dalla Chiesa, la moglie Emanuela Setti Carraro e l’agente di scorta Domenico Russo.

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