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Vivere con lentezza. La cooperazione che viene da lontano e va più lontano

Nando dalla Chiesa il . Associazioni, Cultura, Diritti, Politica, Società

Non chiedetegli con chi ce l’ha di più, se con gli eroi del Qatargate o con Aboubakar Soumahoro. “Ci hanno sputtanato gli uni e l’altro. Gliela do io la Onlus o la Ong”.

E ne ha ben ragione Bruno Contigiani, che dal Sessantotto a oggi ha avuto una traiettoria di vita movimentata, ma mai sgarrando di un’unghia dai principi dell’etica solidale. Insegnante di economia, appassionato di informatica, giornalista, nell’ufficio stampa di una delle più prestigiose multinazionali italiane. Poi volontario nelle carceri, per promuovervi la lettura. E fondatore di una singolare associazione, “Vivere con lentezza”, alfiere di uno stile di vita di cui si è fatto testimone in tutto il mondo, da New York a Tokio.

Ma nessuno confonda l’elogio della lentezza con quello della pigrizia. Perché questo atletico ultrasettantenne è andato a far cose buone da Vicobarone (nel piacentino) anche in India. Progetti che, con quel che accade, sono oro vero. “Ci siamo andati per la prima volta nell’autunno del 2005”, racconta. “Iniziò per caso. Un nostro socio si recò in un villaggio nei pressi di Faridabad, vicino Delhi, assieme a Muna, la figlia di Ella, la mia compagna (attuale presidente di Vivere con lentezza), che aveva vinto una borsa di studio a Pavia per formare le insegnanti della scuola primaria.

Un giorno Ella e io siamo andati a trovarli e a Jaipur abbiamo conosciuto un’altra ONG, I-India, sostenuta da finanziamenti governativi e che lavorava con bambini/e e ragazzi/e orfani/e. Abbiamo collaborato acquistando e vendendo prodotti fatti dai ragazzi, ma alcune cose non ci sono piaciute molto. Così dopo 3-4 anni abbiamo avviato un nostro progetto di sostegno allo studio. Con amici italiani abbiamo aiutato a costruire una scuoletta nella bidonville di Vidya Dar Nagar a Jaipur, per una settantina di studenti (maschi e femmine) senza orientamento religioso. Dalla prima alla dodicesima classe. Comprese cure mediche, visite oculistiche, tamponi igienici, e trovando lavoro presso amici gioiellieri per alcune ragazze che studiavano online all’università.

Col tempo abbiamo però capito che l’insegnamento era insufficiente, che occorreva mandare gli studenti in scuole vicine, dar loro orizzonti più ampi. A noi si è unito Shekar Sharma, un giovane di casta braminica. Insieme abbiamo fatto crescere due ingegneri provenienti dallo slum, una laureata in fashion design che ora è manager in un’azienda di abbigliamento e una ragazza che è diventata prima hostess di terra poi cuoca. Stiamo cercando di dare un futuro a quanti più possiamo, una cinquantina di bambini e soprattutto bambine a cui paghiamo la retta della Sarasvati School e anche figlie di madri abbandonate. Ma pensiamo anche a progetti di lavoro: dalle macchine per cucire per le donne povere alle biciclette per i lavoratori che si devono spostare da vari posti di lavoro in modo che possano risparmiare tempo e denaro nei movimenti (ne aiutiamo una trentina), fino agli anticipi per comprarsi e-rikschaw, una specie di Ape, le ricordi? Sogniamo di dar vita a un nuovo microcredito”.

“Come facciamo? Siamo una Onlus regolarmente registrata alla Regione Emilia e Romagna, vendiamo prodotti, raccogliamo tappi; poco redditizio, ma di grande soddisfazione perché coinvolge i bambini e le famiglie. Inoltre una ex giornalista sportiva Rai, che abbiamo conosciuto a Jaipur, ci versa una parte dei suoi introiti professionali. Possiamo contare su una piccola squadra di volontari. Acquistiamo i libri scolastici anche per qualche famiglia in difficoltà di questa zona del piacentino. Quanto a noi, viviamo in 7 in una sorta di cohousing fra amici e parenti: età che vanno dai 7 ai 91 della bisnonna, la più in forma di tutti. Insomma, viviamo di fiducia, e tranne un paio di casi non abbiamo subito raggiri”.

E uno così non dovrebbe essere furente con il volontariato-truffa?

* Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 09/01/2023

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