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20 dicembre 1992. Trent’anni fa la prima volta di Ilaria Alpi in Somalia

Mariangela Gritta Grainer il . Caso Alpi-Hrovatin, Diritti, Informazione, Internazionale, Memoria, Politica, SIcurezza

Questo mese la rubrica “Dalla parte di lei” ritorna sulla figura di Ilaria Alpi non tanto per tracciarne il profilo di giornalista tenace e appassionata del suo lavoro (che abbiamo già fatto alcuni mesi fa), bensì per ripercorrere con lei l’ultimo anno della sua vita, riandando sulle sue tracce, risalendo a ritroso i suoi spostamenti, in particolare i suoi viaggi in Somalia dal dicembre 1992 al marzo 1994.

Cercheremo di realizzare questo percorso muovendoci su un duplice binario: inseguendo la cronologia dei viaggi in terra africana ma soprattutto sforzandoci, nei limiti del possibile, di ricostruire le mappe mentali di Ilaria, la sua frenetica ricerca di indizi, di tracce, di connessioni tra gli eventi oscuri e inquietanti che accaddero in Italia in quegli anni, spesso riconducibili a traffici di armi e che gettarono un’ombra lunga sulla cooperazione internazionale.

È un modo per non dimenticare la figura di Ilaria Alpi e per rendere un omaggio riconoscente alla sua intelligente e infaticabile attività di reporter che non si ferma alla superficie delle cose, non si accontenta delle spiegazioni semplici e banali elargite dai mezzi di informazione, ma va a scavare oltre, va alla ricerca di altre fonti, vuole far luce sul sommerso, su ciò di cui si tace, sui documenti che spariscono. Ilaria nella sua attività investigativa era abituata a porsi tante domande destinate purtroppo a restare inevase, o a suscitarne altre addirittura inquietanti e pericolose per chi se le poneva.

Vogliamo insomma evidenziare al meglio la esemplarità del suo modo di lavorare, la cura scrupolosa che metteva nella documentazione, nella ricerca di connessioni e di interconnessioni tra gli eventi, perché solo in questo modo il suo sacrificio può continuare a parlare al presente e dare nuovi frutti.

Quando Ilaria Alpi effettua la sua prima missione in Somalia (20 dicembre 1992-10 gennaio 1993), trent’anni fa esatti, erano arrivati da pochi giorni in terra africana i primi elementi di ricognizione di un contingente militare, inviato a seguito di una decisione del Parlamento Italiano di partecipare alla missione internazionale di pace, “umanitaria” decisa dall’ONU (in data 3 dicembre 1992; la risoluzione 794) che prevedeva una coalizione sotto il comando USA.

Ripercorrere le sette missioni di Ilaria in poco più di un anno significa in primo luogo capire perché decise di andare in Somalia, sulla scorta di quali informazioni e perché partì in fretta da Pisa insieme al comandante di Italfor, il generale Giampiero Rossi.

La nostra rubrica intende partire proprio da questo primo viaggio, compiuto esattamente trenta anni fa. (Adriana Chemello)

***

Dai racconti di Luciana e Giorgio Alpi, genitori di Ilaria, dai ricordi dei suoi amici, dai suoi lavori scritti prima di entrare in Rai, dai reportage delle sue missioni fino a quella che le sarà fatale nella “sua Somalia”, emerge il profilo di una donna appassionata e di talento, il ritratto di una donna giornalista: difficile distinguere la donna dalla giornalista. Sarà inviata per l’Estero del TG3 a Parigi, Marocco, Algeria, Belgrado, Zagabria da dove era appena tornata prima della sua ultima missione in Somalia insieme a Miran Hrovatin.

Approfondiva, Ilaria, non si accontentava mai di una versione sola, andava a scavare per raggiungere la verità dei fatti, soprattutto se quei fatti riguardavano la violazione dei diritti umani, in particolare dei bambini e delle donne. La sua voce era diventata, nei primi anni ’90, la voce della Somalia dolente e violentata, che pagava ogni giorno tributi di sangue alla guerra fratricida e agli interessi internazionali che la flagellavano. Ilaria ha voluto approfondire, andare a fondo nella storia d’illegalità e traffico di armi e di rifiuti che la popolazione somala subiva. Ha voluto seguire “una pista” pericolosa, che ha segnato la sua morte. Una storia che non ha mai potuto raccontare.

Nel 1990 il gruppo della Sinistra Indipendente inizia la pubblicazione, in Parlamento, di vari dossier che svelano la “mala cooperazione” con i paesi in via di sviluppo, un’altra tangentopoli. Uno di questi dossier, curato da Ettore Masina, è dedicato interamente alla Somalia (pubblicato nel febbraio 1991): abbiamo potuto verificare che Ilaria lo aveva sulla sua scrivania, tra la copiosa documentazione che conservava in ufficio a Saxa Rubra.

In quel Dossier si legge nella premessa: “L’analisi degli interventi di Cooperazione Italiana in Somalia […] conduce ad alcuni drammatici “peccati capitali“. […] La Cooperazione ha subito pesantemente la logica di interessi particolari espressi in Italia da aziende, lobby e gruppi di pressione, che niente avevano a che fare con i bisogni reali della Somalia. Questa logica ha remunerato interessi illegittimi in Somalia e in Italia, ha contribuito gravemente ad accentuare la corruzione ed il distacco definitivo dell’Amministrazione Somala dai bisogni espressi dal paese […]  Dieci anni di cooperazione sbagliata hanno contribuito gravemente al processo di deterioramento del paese, sfociato negli ultimi drammatici eventi. Si è impedita qualsiasi forma di organizzazione della società, insomma si è costruito il disastro finale”.

I peccati capitali principali sono puntualmente descritti e ci sono anche quelli di cui Ilaria si occuperà nelle sue sette missioni in Somalia (scoprendo una contiguità di questi “peccati” con traffici illeciti e criminali di armi e di rifiuti tossici, tra cui anche quelli radioattivi).

Nel testo redatto dal curatore del Dossier, Ettore Masina, si legge ancora: “[…] la parte più cospicua [degli interventi della cooperazione] è costituita dalla strada Garoe Bosaso (260 miliardi). Questa strada attraversa per lo più le due regioni di Bari e Sanaag, abitata da 200.000-300.000 persone sparse su una superficie di 20.000 km2, quasi interamente pastori nomadi che vivono dell’economia del cammello. Sembra perfino comico chiedersi quale beneficio possano trovare questi da quel magnifico nastro d’asfalto. […] il porto di Bosaso, altro progetto concentrato e assolutamente sproporzionato rispetto ad ogni suo futuribile utilizzazione, [….] Progetto Pesca Oceanica (quello dei pescherecci della Shifco): costo totale di circa 100 miliardi”.

Nel 2012 Stefano Massini pubblica una pièce teatrale dal titolo molto eloquente: “Lo schifo – Omicidio non casuale di Ilaria Alpi nella nostra ventunesima regione”. Facciamo notare che Schifo è l’anagramma della società Shifco. Shifco e Mugne sono due nomi che troviamo scritti sul block-note di Ilaria, anch’esso custodito nel suo studio a Saxa Rubra insieme con la nota più conosciuta: 1.400 miliardi di lire: dove è finita questa impressionante mole di denaro?… (che viene ripresa da una pagina del Dossier del 1991).

In Italia la sera del 10 aprile 1991 a Livorno si consuma la tragedia del Moby Prince: 140 morti un solo superstite. Una tragedia ancora senza verità. In quei giorni, al porto di Livorno è presente la “21 Oktobar II”, nave madre dei sei pescherecci della Shifco, donati dalla cooperazione italiana alla Somalia con una storia piuttosto singolare ed allarmante che inizia nel 1979. All’epoca, solo “gli addetti ai lavori” conoscono la “21 Oktobar II”, la Shifco, Omar Mugne il suo capo, la storia della cooperazione italo-somala, della sua contiguità con traffici di armi e di rifiuti tossici.

La sera della tragedia del Moby Prince, la “21 Oktobar II” stazionava nelle acque del porto di Livorno. Siamo nel 1991, tre anni prima dell’esecuzione di Ilaria Alpi e di Miran Hrovatin. Tangentopoli scoppierà un anno dopo, con l’ordine di cattura per l’ingegner Mario Chiesa, presidente del Pio Albergo Trivulzio di Milano, cui seguiranno le stragi di mafia del 1992 (Giovanni Falcone e Paolo Borsellino), del 1993 con le bombe a Firenze, Roma, Milano, del 1994 con il fallito attentato allo stadio di Roma, di cui si sveleranno le connessioni con la P2 di Licio Gelli. Tutto ciò provocherà una crisi profonda della politica e la fine della prima Repubblica. Ma di tutto questo abbiamo oggi ampia documentazione che riguarda anche l’affare dei sei pescherecci sui quali Ilaria stava già indagando, e forse aveva intravisto connessioni con traffici oscuri.

Ufficialmente la “21 October II” si trovava lì per riparazioni (avrebbe quindi dovuto trovarsi in secca in officina) eppure, proprio la notte della strage, chiede di essere rifornita di carburante e si mette in navigazione. Tornerà al porto di Livorno il giorno dopo. C’è una testimonianza che certifica gli avvenuti spostamenti.

Il capo della Shifco, Omar Mugne (diventerà Presidente della Shifco-Malit qualche mese dopo la tragedia del Moby, il 6 settembre) lascia Livorno per recarsi a Reggio Emilia qualche giorno prima della tragedia del Moby, mentre il suo braccio destro Florindo Mancinelli rimane a Livorno insieme a Ennio Malavasi, imprenditore di Reggio Emilia in società con il Mugne, e forse incontrano Giorgio Giovannini, console onorario per la Jugoslavia, uomo di fiducia di Siad Barre nei “commerci” di armi. All’epoca del disastro del Moby Prince anche la Jugoslavia era travolta da una guerra come la Somalia. Il sospetto è che Mugne e gli altri siano impegnati proprio in quei giorni nell’organizzazione di un traffico d’armi.

La notte del rogo del Moby Prince è ormai certo che, nel porto di Livorno, è in corso una movimentazione di materiale bellico. Ne troviamo un riscontro nella relazione della commissione d’inchiesta (2017/2018). La vicinanza con la base USA di Camp Darby, in piena crisi del golfo, potrebbe essere la ragione “della presenza di almeno 5 navi militarizzate USA quella sera”. E ce ne sarebbero almeno altre due: la “21 October II”, e una nave “fantasma, Teresa” (come da messaggi intercettati e mai rintracciata; si è pure pensato che fosse “in codice” la 21 October!).

Se Ilaria era venuta a conoscenza, attraverso il Dossier parlamentare di questi traffici e aveva collegato tra loro i diversi eventi, si sarà posta sicuramente alcune domande. Possiamo supporre che sia andata a Livorno, in quei giorni, per porre domande scomode: dove venivano caricate queste armi, questo materiale bellico e di che tipo era? E soprattutto: potrebbe esserne stata coinvolta la “21 Oktobar II”?

Non abbiamo certezze ma il suo modo di lavorare ci induce a pensare che nella sua mappa mentale molti nessi le fossero apparsi subito evidenti. Noi oggi potremmo trovare altri pezzi del puzzle che forse lei stava per completare.

In Italia il Parlamento viene sciolto anticipatamente il 16 gennaio 1994; in extremis, sull’onda di tangentopoli, delibera, in data 13 gennaio 1994, l’istituzione di una commissione bicamerale d’inchiesta sulla cooperazione con i paesi in via di sviluppo.

In Somalia, dopo la fuga di Siad Barre del 26 gennaio 1991, ci vorrà più di un anno perché si organizzi una missione internazionale con lo scopo di disarmare i clan contrapposti (!) e di mettere fine alla guerra civile, ai massacri di donne e bambini a causa della guerra, della violenza, della fame, delle malattie.

Il 9 dicembre 1992 erano sbarcati in Somalia i primi marines americani, in modo spettacolare e con le Tv di tutto il mondo appostate sulle spiagge. Una risposta allo shock delle immagini della tragedia arrivate in tutte le case.

La partecipazione dell’Italia alla missione internazionale denominata “Restore Hope” non destò entusiasmi né da parte dell’ONU, né degli Stati Uniti che pensavano di concludere l’intervento in un mese! Per aggiungere un altro “successo” dopo la guerra del Golfo (16 gennaio/28 febbraio 1991) contro l‘Iraq di Saddam Hussein. Il contingente italiano invece operava secondo gli orientamenti dell’ONU e del governo italiano: “operazione umanitaria e di pacificazione anche procedendo al sequestro delle armi in circolazione, come confermato da Ilaria nel suo primo reportage commentando la visita dell’8 gennaio del ministro Salvo Andò che, sulla posizione degli americani commenterà “Questioni di strategia!”. La presenza italiana non fu molto gradita, all’inizio almeno, neanche dai signori della guerra somali.

Ali Mahdi Mohamed, autoproclamatosi presidente ad interim della Somalia, a Gibuti nel luglio 1991, sei mesi dopo la fuga di Barre, controllava la parte nord della città di Mogadiscio con il clan degli Abgal. Le sue testimonianze, compresa l’intervista che gli fece Ilaria luglio 1993, mai andata in onda (la racconteremo col quarto viaggio), sono costellate di “non so”, “non ricordo”. Non ha mai detto nulla sul duplice delitto di Mogadiscio avvenuto proprio nella sua area di influenza, a Nord.

Mohammed Farah Aidid che controllava la parte sud di Mogadiscio è stato ucciso il primo agosto del 1996. Aveva dichiarato il suo impegno per individuare gli assassini: non lo abbiamo potuto incontrare per motivi di sicurezza per lui e per noi (una piccola delegazione della commissione bicamerale d’inchiesta sulla cooperazione con i paesi in via di sviluppo) quando ci recammo a Mogadiscio e a Gibuti a fine gennaio/inizio febbraio 1996. Ce lo avevano riferito i suoi uomini.

L’Italia (seconda solo agli Stati Uniti come impegno militare) non fu investita di un ruolo di responsabilità nel comando generale della missione: fu considerata un intralcio. Comandante del contingente italiano fu nominato il generale Giampiero Rossi e l’operazione denominata convenzionalmente “Ibis” (Ibis è un uccello del Corno d’Africa, goffissimo a terra ma molto elegante in volo).

Nel suo primo viaggio in Somalia, Ilaria cerca di capire dove è capitata e come può iniziare un lavoro di approfondimento rispetto a quanto ha letto e appreso precedentemente. Annota nomi, numeri di telefono, parole in arabo. Ho trovato un solo reportage piuttosto lungo rispetto alle sue sintesi brevi. Segue e/o si fa accompagnare dall’esercito in questo primo approccio con Mogadiscio. La zona assegnata all’Italia era a Nord, un territorio, all’inizio, di poco più di 45.000 Km2, attraverso un’unica strada asfaltata, piena di buche per lunghi tratti ridotta a poco più di una pista: è la “Via Imperiale” che va da Mogadiscio a Addis Abeba. Scrive i nomi di alcune città come Balad, Johar, dove si vedono i resti di un grande zuccherificio, Jalalassi, un grosso centro con un piccolo ospedale, costruito dalla cooperazione italiana e saccheggiato di ogni arredo. E altro ancora. Sembra prudente non vuole svelare la mappa della sua ricerca. Ecco alcuni frammenti del suo scritto:

Strada per Jalalassi. La camionetta militare avanza rapidamente fra nuvole di polvere. Alla guida un sottoufficiale del Col Moschin, giovane. Passa di fronte a un cippo che risale al fascismo, un ricordo del passaggio dell’esercito italiano. Saluta con il braccio teso. Commenta: “Bisogna salutare i valorosi soldati italiani che qui in Somalia hanno combattuto. Non dovevamo andare via, guarda che situazione si è creata! Adesso ci tocca tornare per rimettere le cose a posto!…”

La strada continua, sempre uguale, fra rami di acacia, con le sue terribili spine, buche e polvere… Jalalassi è in vista con le sue povere casupole. L’accoglienza è calorosa. I vecchi si radunano per decidere come organizzare la distribuzione degli aiuti. Un ufficiale dell’esercito è qui da giorni, con i somali: “Dobbiamo aiutare questa gente senza intrometterci nei loro affari interni. È la democrazia che ci impone questa forma di rispetto. Il nostro compito si ferma all’aiuto umanitario per fare in modo che non cadono nelle mani di questo o quel capo locale. Le bande di predoni rendono la vita difficile a chi come noi in Somalia è venuto per aiutare e non per una nuova forma di colonialismo”.

Più in là una scena immortalata da tutti i fotografi, quasi un simbolo: un soldato si china su un bambino, lo prende in braccio e gli offre della cioccolata. Nessuno si lamenta dei soldati italiani, nessuno in Somalia sa che in alcuni campi si ascolta “Faccetta nera”. Gli italiani sono “umani”, buoni. Le polemiche però non sono poche. Perché questi soldati portano cibo di altri paesi? Sono gli stessi soldati a lamentarsene “Gli aiuti sono internazionali, è vero, ma se sui sacchi ci fosse la bandiera italiana sarebbe un biglietto da visita di estrema importanza”. E arrivano i primi colpi di fucile contro il contingente italiano. I giovani militari non rispondono al fuoco. “Il cecchino era in mezzo ai bambini”, dicono.

Ilaria si informa rispetto alla presenza delle Ong in Somalia.

Ci sono diverse decine di ong di tutto il mondo. Quasi tutte hanno obiettivi propri con progetti e modalità propri, a volte in concorrenza tra loro, non sono propense al coordinamento. Si servono di mezzi di trasporto e di autisti locali e di scorte armate tra le milizie delle diverse fazioni somale.

Sappiamo che nel suo ultimo viaggio Ilaria aveva portato con sé il libro di Pier Paolo Pasolini, Scritti corsari, che venne ritrovato nella sua stanza d’albergo il 20 marzo 1994 aperto alla pagina dove si legge:

“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi. Io so perché sono un intellettuale…”.

Probabilmente i giornalisti e i politici hanno anche delle prove o, almeno, degli indizi. Ora il problema è questo: i giornalisti e i politici, pur avendo forse delle prove e certamente degli indizi, non fanno i nomi.

A chi dunque compete fare questi nomi? Evidentemente a chi non solo ha il necessario coraggio, ma, insieme, non è compromesso nella pratica col potere, e, inoltre, non ha, per definizione, niente da perdere: cioè un intellettuale.

Così era Ilaria Alpi.

Fonte: Articolo 21

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