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Il cortocircuito tra famiglie e scuole, ma i ragazzi vanno ascoltati e non giudicati

Donatella D'Acapito il . Cultura, Diritti, Giovani, Società

Ci sono cose che un genitore non vuol sentire sul proprio figlio. Cose che a volte non appartengono a quella che è l’educazione che gli ha impartito, o che teme di aver involontariamente passato “in momenti strani”, come diceva Umberto Eco, in quegli atteggiamenti che segnano più delle parole.

Come corpo docenti abbiamo incontrato una mamma per condividere le nostre preoccupazioni sul figlio, un ragazzo sedicenne che da qualche mese è sempre troppo arrabbiato, sempre troppo oppositivo, troppo solo e troppo altrove.

Ha smesso di parlare con gli amici di una vita, quelli con cui è cresciuto e che per lui sono più famiglia della famiglia. E sono stati proprio loro a raccontarci – fra il dispiacere e la rabbia – che T. ha cominciato a frequentare il giro dei più grandi (che vanno dai 19 ai 30), perché lì trova soldi facili in cambio di favori. Soldi che gli servono per vestirsi firmato, per uscire e comprare tutto quello che vuole “senza sembrare un morto di fame”, come ha ammesso lui stesso.

Ecco: come un genitore non vuol sentire e immaginare certe cose, così nemmeno una prof. Perché sapere sposta inevitabilmente l’asse del tuo stare in aula.

La fiducia che i ragazzi ripongono in te deve essere rispettata, pena interrompere il canale comunicativo che hai stabilito. Ma questo non vuol dire assecondarli o far finta di niente: significa trovare la giusta misura per intervenire e giocare a carte scoperte, con chi ti ha confidato la cosa e con chi è in difficoltà.

Abbiamo anticipato a T. che avremmo chiamato la mamma per capire cosa stesse accadendo; lui laconico ha risposto che ci avrebbe spiegato tutto lei.

Ma lei non è riuscita a spiegare un mondo che non vuole vedere. Ci ha raccontato delle difficoltà familiari, del lavoro che la porta via più del previsto e delle chiamate per controllare dove si trovi il figlio durante la giornata. Ma basta tutto questo? Forse da madre anche io avrei cercato di motivare in maniera plausibile gli atteggiamenti anomali di mio figlio – e sicuramente l’ho fatto più di quanto non creda. Ma chi ci guadagna a non guardare in faccia la realtà? Come si aiuta un ragazzo se non si ha il coraggio di fermarlo e di dire no?

Chiunque può rispondere a un cellulare dicendo d’essere in altro luogo o può tranquillizzare l’interlocutore con scuse credibili. Ma qui si tratta di arrivare alla verità e non è facile. I ragazzi non sono sempre disposti a farsi conoscere e, soprattutto, non sempre vogliono essere salvati. Hanno i loro tempi e, ad aspettarli senza intervenire, si rischia di arrivare troppo tardi.

Non c’è una formula per risolvere la situazione, ma mi chiedo perché ci ostiniamo a cercare responsabili esterni per giustificare le deviazioni di vita inaspettate di chi amiamo. In questo, una scuola che non è più autoritaria come un tempo e a volte – per accadimenti socio-politici – non riesce nemmeno a essere più autorevole, si presta a diventare il colpevole perfetto su cui scaricare le responsabilità. Non si dovrebbe però ingaggiare una battaglia per scaricarci la coscienza: dovremmo avere chiaro l’obiettivo e lavorare per perseguirlo.

È plausibile che in ciò il mio punto di vista sia condizionato dall’esperienza di una scuola di periferia, un istituto professionale che accoglie gli ultimi, quelli scartati dagli altri indirizzi o quelli arrivati da poco in Italia e non parlano la nostra lingua e hanno fisicamente nelle mani (almeno a detta degli adulti che li circondano) gli unici strumenti per crearsi un futuro. Quelli per cui spesso la zavorra è rappresentata dalla famiglia.

Vedo colleghi incapaci di stare con i ragazzi perché totalmente disinteressati a loro. Ma ne vedo altri che scelgono di fare questo mestiere perché animati dalla speranza di poter incidere sulle nuove generazioni e per farlo si preparano sia dal punto didattico che pedagogico, più di quanto tendenzialmente si faceva prima. Sono interpreti di quella scuola cara a don Milani in cui la persona viene prima dello studente, dove il tempo prezioso e ben speso è quello per parlare con loro per ascoltarli, non per giudicarli.

Allora l’invito è agli adulti, senza esclusione di categoria. Noi siamo quelli caduti nella trappola del “Certo che i ragazzi d’oggi…” e quelli che hanno paura d’essere adulti perché rischiamo di non essere più giovani. Siamo quelli che demonizzano i social ma abbiamo l’ansia da condivisione accattivante.

Siamo tutti coinvolti, diceva Faber, e siamo corresponsabili della generazione del futuro. Non è una condanna e non è un peso: è la possibilità di segnare la via senza imporla. Siamo il limite con cui gli adolescenti si devono scontrare e se ci sottraiamo a questo compito toglieremo loro l’opportunità di regalarci gli adulti del domani.

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