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Se la “verità” è affidata alla sorella del boss

Marilù Mastrogiovanni * il . Diritti, Giustizia, Istituzioni, Mafie, Politica, Puglia

Quel pasticciaccio brutto tra Emiliano e Decaro. La sorella del boss Tonino Capriati è pregiudicata per furto ed è la mamma di uno dei condannati per l’assassinio di Michele Fazio, il sedicenne vittima innocente di mafia, simbolo della rinascita della città vecchia.

Da dove iniziare a raccontare questa storiaccia?

Iniziamo dalla fine: dalla sorella del boss di Bari vecchia Antonio Capriati detto Tonino a cui il microfono del Tg1 consegna l’onore dell’ultima parola. ”Mai, mai è successo. Mai visto Decaro con Emiliano! Quando mai Decaro è venuto qui”.

Ora, tralasciamo il fatto che il servizio pubblico, rete ammiraglia della Rai, che va a intervistare la sorella di un boss per avere conferma della parola di un sindaco solleva interrogativi grandi quanto un grattacielo sulla opportunità di avere un servizio di tal fatta pagato con soldi pubblici; tralasciamo il fatto che la scelta editoriale di dare l’ultima parola ad una persona vicina ad ambienti mafiosi dai quali non risulta abbia mai preso le distanze pubblicamente sia quanto meno discutibile dal punto di vista deontologico; tralasciamo il fatto che la stessa scelta editoriale sia stata fatta, con lo stesso giornalista, dal servizio pubblico, quando l’inviata del Tg1 Maria Grazia Mazzola fu presa a cazzotti da una boss del quartiere Libertà. In quell’occasione, il servizio pubblico intervistò la boss, pregiudicata e socialmente pericolosa, che diede la sua versione dei fatti, in contrasto con quella della giornalista, che ha poi vinto il processo.

Tralasciamo dunque il fatto che, quando si solleva un baillamme tale per cui l’unico concetto che passa è “così fan tutti”, e “destra e sinistra per me pari sono”, l’unica a guadagnarci è proprio la mafia. Tralasciamo e rimaniamo sul punto.

Il punto è che il servizio pubblico ha dato alla sorella del boss la voce per mettere “il” punto. Lei, pregiudicata per diversi furti e mamma di uno dei condannati per l’assassinio di Michele Fazio, il sedicenne vittima innocente di mafia simbolo della rinascita di Bari vecchia.

Lei, è l’ago della bilancia tra Emiliano e De Caro: l’uno Michele Emiliano, presidente della Regione Puglia, in un eccesso di vanagloria si è presentato come colui che disceso dal cielo e camminando sulle acque ha scoperto il talento di Decaro, sconosciuto neoingegnere dall’ottimo curriculum, prima “affidandolo” da assessore al traffico alla sorella del boss poi consegnandogli le chiavi della città; l’altro Antonio Decaro, sindaco di Bari, che ad un paventato rischio di commissariamento per mafia del Comune reagisce in maniera scomposta, convoca una conferenza stampa, piange, titilla il cuore e la pancia de “la Bari”, che risponde alla chiamata inondando il centro cittadino con il calore della tifoseria perché “Bari non è mafiosa”.

Il fatto è che nessuno l’ha mai detto. Nessuno l’ha mai pensato.

Quando un’Amministrazione comunale viene sciolta per mafia non si imprime lo stigma di mafiosità all’intera cittadinanza. Questo passaggio logico e questo scivolamento del significato dal particolare (il Comune) al generale (l’intera città) è strumentale solo per aizzare le tifoserie.

Antonio Decaro ha operato sul piano del simbolico e ha traslato (che manco san Nicola) il potenziale stigma di mafiosità dagli Amministratori agli Amministrati, soffiando furbescamente sul fuoco dello spirito identitario e facendo scendere in piazza gli Amministrati che, indossando la fascia tricolore e al grido di “IO sono Decaro”, “IO sto con Decaro”, hanno ratificato l’avvenuta operazione di identificazione tra il sindaco e la città che amministra. È un’operazione di personalizzazione della politica a cui assistiamo dalla seconda Repubblica in poi. Il risultato di questa operazione di identificazione dell’azione del sindaco con l’azione di ogni singolo cittadino è l’alleggerimento delle responsabilità del primo cittadino e la condivisione delle sue responsabilità con tutti.

Operazione pessima e scorretta che l’adesione massiccia delle tifoserie alla manifestazione di sabato scorso non rende certo corretta e giusta. Pessima e scorretta rimane.

Il sindaco non coincide con la città che amministra; la città rimane quando il sindaco se ne va, sia che finisca bene il suo mandato sia che la sua Amministrazione venga sciolta per mafia. La città rimane e nella città, come corpus sociale, rimangono le ferite oppure le cure oppure le rinascite con cui quel sindaco è riuscito o meno a segnare il corpus sociale. Se malauguratamente il consiglio comunale di Bari dovesse essere sciolto per mafia (anche se i tempi tecnici lo rendono difficile, da qui l’accusa di strumentalizzazione politica), Antonio Decaro lascerà una città dilaniata che lui stesso, per il suo puro calcolo politico, ha reso tale, spaccandola in due. Cadendo peraltro nel trappolone del centro destra, che nel merito ha fatto la cosa giusta (chiedere una verifica su eventuale infiltrazioni mafiose) ma cannando il metodo (l’effetto annuncio con la foto del tavolo dei parlamentari richiedenti la verifica). Un metodo recuperato oggi in conferenza stampa dal viceministro Francesco Paolo Sisto, che ha affermato: “Cari Emiliano e Decaro, che considero parimenti responsabili di quello che sta succedendo: Bari non è vostra, non è mafiosa. Giù le mani da Bari e dai baresi ve lo diciamo noi”.

Insomma, quella manifestazione è stata una pessima trovata populista e ha meritato un epilogo così infausto: un presidente di Regione, ex magistrato, che dichiara con orgoglio dal palco che quando era sindaco di Bari, quando era ancora magistrato specializzato nel perseguire le mafie, ha ingaggiato una trattativa con i clan baresi per trasformare la città. Per trasformarla in meglio, ovviamente. Diciamo per trasformarla in meglio, per tutti. Tutti ne hanno beneficiato, in un modo o nell’altro. Tutti, hanno tratto vantaggio.

Quel sindaco, da sindaco e da magistrato, dice di aver presentato Decaro alla sorella del boss Capriati per avere garanzia di protezione.

Antonio Decaro, sul palco, dinanzi ad una folla acclamante, che ha fatto suo quello scivolamento di significato (“Siamo tutti Decaro”), sta zitto, abbozza, poi dopo due giorni dà quella che chiama “la mia Verità”, scritto così, con la “V” maiuscola. “La mia Verità” è ancora una volta un tentativo di fare dei distinguo, di polarizzare media e masse. E tira dentro di tutto di più, a garanzia della “sua” “Verità”: il parroco della basilica di San Nicola, il comandante dei Carabinieri della stazione di Bari vecchia, alcune non meglio identificate persone attive nell’antimafia sociale. Me li immagino tutti insieme a guardare la foto pubblicata dal giornale “la Verità” che ha fatto un colpo giornalistico di tutto rispetto: ha preso dai social la foto di Decaro abbracciato alla sorella del boss Capriati, quella che non è vero che ha mai incontrato e men che meno a casa sua.

La sua “Verità” è che lui incontra tante persone che chiedono i selfie e nel mucchio ha incontrato anche lei, la sorella del boss. Lei, peraltro, dice Decaro, è una persona lontana dagli ambienti mafiosi. Lascia intendere che lo confermano il comandante dei Carabinieri, il parroco della basilica di san Nicola, altre persone non meglio identificate come attive nell’antimafia sociale. Dice pure che la signora frequenta la chiesa, dimenticando che questo purtroppo non è una garanzia di specchiata condotta. Se fosse così, non ci sarebbero gli “inchini” delle statue della madonne davanti ai balconi dei boss, per dirne una.

Ecco, se fossi il parroco o il comandante dei Carabinieri, non vorrei mai essere usato a garanzia dell’anima più o meno intonsa di una sorella di un boss. Penso che nessun sindaco dovrebbe mai mettersi nelle condizioni di dover giustificare una foto in cui è ritratto con la sorella di un boss davanti al di lei negozio di abbigliamento, dunque “a casa sua”, proprio come ha detto Emiliano.

In tutto questo baillamme penso che se la mafia è una montagna di merda, quella montagna non vada mai avvicinata se non per prenderla a picconate. Penso che bisogna essere sempre dalla parte dello Stato e non a fasi alterne e penso che se gli uomini e le donne che rappresentano lo Stato mettono in atto azioni che ci paiono ingiuste o strumentali, come dice Decaro, ad un attacco politico sferrato sotto elezioni, penso che, da uomo delle Istituzioni, come dichiara essere Decaro, è necessario rispondere nel solco del garbo istituzionale, oltre che in quello delle leggi. Se il ministro dell’Interno invia i commissari per valutare l’eventuale scioglimento per mafia del Comune, il primo cittadino non può far leva su quello scivolamento di significato di cui ho detto prima, affermando che è “un atto di guerra verso la città di Bari”. Usando peraltro un’espressione doppiamente fuori luogo, sia per i tempi che stiamo vivendo (l’Italia è veramente in guerra e non c’è da fare battute né metafore), sia perché ci aspettano due tornate elettorali (le amministrative e le europee) e sarebbe bello che le elezioni fossero un momento di confronto politico costruttivo non uno schieramento di eserciti.

Se il Comune di Bari dovesse essere sciolto per mafia non sarà “sciolta” la città ma il consiglio comunale; i suoi cittadini non saranno certo tutti mafiosi ma per alcuni dei suoi amministratori o dei dirigenti comunali dovranno essere attivate delle misure di prevenzione.

Speriamo solo che ora non serva un altro servizio del Tg1 per chiedere nuovamente ad una parente del boss di confermare la “Verità” del sindaco.

* Direttrice responsabile “Il Tacco d’Italia”

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