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In Palestina un Natale dove sta vincendo Erode

Pierluigi Ermini il . Diritti, Giustizia, Guerre, Istituzioni, Memoria, Politica

La grotta di Betlemme quest’anno avrà il volto dei tanti bambini palestinesi ed ebrei che dal 7 ottobre scorso sono stati uccisi dagli Erode di questo nostro tempo, i responsabili di Hamas e il governo Israeliano.

Loro per primi si sono presi la responsabilità di uccidere generazioni inerti di persone, lasciando spazio all’odio che sarà alimentato da questa guerra nei bambini e nei giovani che riusciranno ad avere salva la vita alla fine di questa nuova tragica pagina della storia della Palestina.

La Terra Santa continua così a restare ancora oggi la Terra che Dio ha scelto per manifestare al mondo il suo amore in tanti e diversi modi, e al tempo stesso la terra dove l’uomo sparge fiumi di sangue in una contesa infinita che nessuno ha la forza e la voglia di fermare.

Eppure dobbiamo cercare di capire da dove tutto ciò ha inizio, e i tanti eventi storici che ci hanno portato a questo punto, perché questo pezzetto di terra del mondo, poco più grande di una regione italiana, è parte della nostra storia personale e della nostra identità e al tempo stesso importante per la storia del mondo.

Un piccolo libro di Marco Travaglio uscito in queste settimane dal titolo “Israele e i palestinesi in poche parole” ripercorre la storia degli ultimi 120 anni del popolo palestinese e di Israele, dalla nascita nel 1897 del movimento sionista, fino allo scorso 7 ottobre con l’operazione Alluvione Al-Aqsa da parte di Hamas e la risposta di Netanyahu su Gaza denominata Spade di ferro.

La sua lettura ci offre un quadro generale dove appare chiaro che un popolo, quello palestinese, non è mai stato nelle condizioni di diventare uno stato.

E non tanto e solo per colpa degli israeliani, ma anche per volontà dei paesi arabi che a parole hanno sempre dichiarato di difenderlo, ma di fatto lo hanno abbandonato a se stesso, per seguire il loro scopo principale di eliminare Israele da quella terra.

Basta ricordare le innumerevoli guerre compiute da Egitto, Giordania, Siria, Libano, e altri paesi arabi, contro Israele, tutte perse, evitando invece di concentrarsi sulla nascita di uno stato palestinese e sulla formazione di una classe dirigente che avesse la forza di farlo crescere e stabilizzarsi.

Eppure è dal 1947, dalla risoluzione n.181 dell’ONU, che si è stabilito la nascita di due stati, uno palestinese e l’altro di Israele.

Una risoluzione mai accettata dai paesi arabi, che anzi rinunciarono da subito a costituire lo stato palestinese con l’intento di cacciare gli ebrei.

Ancora oggi, la stessa Hamas persegue questo fine, accettando che, dopo la sanguinosa e imperdonabile uccisione di 1.400 israeliani, il governo Netanyahu da oltre 70 giorni uccida migliaia di persone innocenti nella striscia di Gaza.

Tutto ciò nell’incapacità, ormai diventata strutturale, di un sistema di relazioni internazionali che non è in grado di fermare in alcun modo non solo questa ma qualsiasi forma di guerra e di  spargimento di sangue che avviene nel mondo.

Il fallimento della diplomazia e della politica quale strada per la risoluzione dei conflitti tra popoli e stati è il più grande limite alla risoluzione dei problemi geopolitici che affliggono il nostro tempo.

Israele, da parte sua, dal momento in cui nel 1977 ha promosso gli insediamenti di coloni ebrei nei territori occupati di Gaza e della Cisgiordania, ha ridotto in modo così forte il territorio su cui dovrebbe costituirsi lo stato palestinese, da essere passato sempre più dalla parte del torto.

Israele si è trasformato ogni giorno di più, da Davide, come era all’inizio della nascita del suo stato (14 maggio 1948), a Golia soprattutto con l’avvento al potere per la prima volta nel 1996 di un personaggio come l’attuale Primo Ministro Netanyahu (oggi al governo per la sesta volta con un governo di estrema destra) che non ha mai voluto perseguire l’accordo di pace siglato a Oslo nel 1993 tra Arafat e Rabin.

In mezzo stanno i palestinesi, un popolo abbandonato a se stesso da tutti, anche dell’Occidente, che vede circa il 50% della sua popolazione vivere ormai in altri stati, con una classe dirigente in carica da decenni, corrotta e divisa e che a livello internazionale è ormai screditata.

Da un lato Hamas che ha guidato fino ad oggi Gaza, tenendo in pugno 2 milioni di persone, dall’altra l’Olp e l’Anp che guidano la Cisgiordania dove ormai sono presenti oltre 460.000 coloni ebrei che in questi decenni hanno portato via buona parte del territorio riconosciuto ai palestinesi dalla risoluzione dell’ONU del 1947.

Un popolo, quello palestinese che sia a Gaza che in Cisgiordania vive in condizioni inaccettabili dove i più essenziali diritti sono calpestati sotto il rigido e disumano controllo israeliano.

Chi ha avuto modo di visitare la Cisgiordania in questi anni si è potuto rendere conto con i propri occhi il grado di quasi schiavitù in cui sono costretti a vivere i palestinesi.

Più volte la storia ha offerto momenti di svolta che non sono stati colti, proposti da persone illuminate dell’una e dell’altra parte, ma che sono sfumati nel niente per un gioco perverso della politica che non sa andare oltre i giochi di potere.

L’ultima in ordine di tempo nel 2005 quando l’allora Primo Ministro Sharon, falco della destra, l’uomo della passeggiata lungo la spianata delle moschee a Gerusalemme da cui ebbe inizio la seconda Intifada (settembre del 2000), capì che era il tempo di dare una svolta .

Nel 2005 Sharon ritira da Gaza l’esercito e libera i territori dagli insediamenti dei coloni, lasciando la Striscia all’Anp di Abu Mazen. Lascia il partito di destra del Likud per fondare un suo partito di centro (Kadima) sposando la tesi dei due popoli e due stati.

A lui si affianca un altro uomo illuminato, Shimon Peres, che lasciato il partito dei laburisti, entra in Kadima, condividendo le tesi di Sharon.

Quella di Sharon non è stata una conversione sulla via di Damasco, ma una chiara visione politica, dovuta all’incremento demografico dei palestinesi lungo la striscia, che sarebbero diventati incontrollabili, e alle loro sempre peggiori condizioni di vita che avrebbero portato a rivolte e a nuovi spargimenti di sangue.

Purtroppo questo falco diventato statista si ammala e sulla scena palestinese Hamas (nato nel 1987 come fronte armato durante le prima Intifada) dà vita anche  a un partito con un’anima più moderata e vince le elezioni contro Al-Fatah.

Hamas viene subito inviso da Stati Uniti e Europa, che bloccano i finanziamenti all’Anp e creano gravi danni all’economia palestinese.

In poco tempo nel 2007 scoppia una guerra civile tra i palestinesi e alla fine Hamas sconfiggerà Al Fatah a Gaza prendendo il controllo della striscia, mentre Al Fatah riprenderà il controllo della Cisgiordania con l’aiuto degli Usa e dell’UE.

In Israele sulla scena politica dal 2009 in poi torna al potere Netanyahu e tutte le speranze di possibili accordi tra palestinesi e israeliani muoiono.

La visione politica di Sharon, così attuale anche oggi, alla luce dell’aumento demografico dei palestinesi e delle loro sempre più degradanti condizioni di vita, non trova nessun riscontro politico che sia in grado di darne attuazione.

Non potranno certo essere gli attuali protagonisti politici presenti in questo frangente storico a portare avanti un percorso di pace e di riconciliazione.

I tempi saranno dunque lunghi e complicati.

Quello che si può costruire oggi è un cessate il fuoco e una successiva fine delle ostilità, con un lento percorso di ricostruzione di Gaza che richiederà anni sotto l’egida di paesi terzi che possano impedire lo spargimento di altro sangue.

Insieme a un cambio di rotta nella politica fino ad oggi perseguita dai paesi arabi, che faccia proprio il desiderio di costruire lo stato palestinese, rifuggendo dall’idea di combattere lo stato di Israele.

La comunità internazionale dovrà operare per aiutare i bambini e i giovani sopravvissuti a non coltivare l’odio e il senso di rivalsa, dando loro una speranza e contribuendo a ricostruire condizioni di vita accettabili, oltre che una nuova classe dirigente palestinese.

Ma anche Israele dovrà far emergere una classe politica diversa da personaggi come Netanyahu che sono stati una tragedia prima di tutto per il suo popolo.

Israele deve fare propria la lezione che il suo grande scrittore Amos Oz nel suo ultimo libro “Resta ancora tanto da dire” lascia come eredità ai suoi concittadini.

In quelle pagine Oz parla di una malattia che affligge Israele, quella del “ritornismo”, ovvero quella di “cercare nello spazio, qualcosa che s’è perduto nel tempo”.

Lo fa prendendo come esempio proprio il desiderio di invadere ogni angolo dei territori occupati, che è diventato il tema dominante di Israele.

Se anche si arrivasse alla riconquista di tutta la terra, ciò non porterebbe alla ricostruzione di “quel paesaggio biblico di cui si ha tanta nostalgia”.

Ed è lo stesso Amos Oz nel suo libro a ricordarci che “una ferita non si cura con il bastone” e anche per Israele c’è una sola speranza da inseguire: “se non ci saranno qui e piuttosto presto, due stati, allora ce ne sarà uno solo. Sarebbe prima o poi uno Stato arabo dal Mediterraneo al Giordano, dove gli ebrei sarebbero una minoranza”.

Ma per fare questi passaggi occorrono persone illuminate che sappiano dire al proprio popolo la verità più scomoda.  Persone che all’orizzonte ancora non si vedono.

Persone che, come dice proprio Oz nel suo libro, sapranno dire alla propria gente: “…quei territori lo sapete che non fanno parte della patria; lo sapete che si può vivere benissimo senza. Su dai facciamolo. Sarà difficile, doloroso, complicato, ma facciamolo e chiudiamo la faccenda una volta per tutte”.

Ecco se un senso questo triste Natale può averlo è il senso di questa speranza, che possano presto apparire uomini che non hanno più voglia di essere Erode, ma una luce che guida come fece la stella cometa quella notte illuminando la strada verso quel bambino in una mangiatoia, facendo sognare a tutti quelli che la videro, la pace…

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Israele e i palestinesi in poche parole

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