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Dalla lupara alla politica. L’assassinio del generale dalla Chiesa e il salto di qualità della mafia stragista

Rossella Guadagnini il . Interviste e persone, Istituzioni, Mafie, Memoria

Nel 1982 Cosa nostra diventa stragista: prima con l’omicidio di Pio La Torre, poi con quello di Carlo Alberto dalla Chiesa. Un cambio di strategia reso possibile dalla copertura proveniente da legami e interessi condivisi con ambienti dello Stato. Perché “la mafia e la lotta alla mafia – sottolinea Nando dalla Chiesa in questo lungo colloquio – sono, alla fine, storia di persone”

Il 3 settembre 1982 si compie il ‘salto di qualità’ della mafia, divenuta stragista. In via Carini, a Palermo, viene assassinato il generale dei Carabinieri Carlo Alberto dalla Chiesa – da 100 giorni prefetto di Palermo – insieme alla moglie Emanuela Setti Carraro e all’autista Domenico Russo. Uccisi da un commando mafioso.

L’eccidio fu una scossa per chi, in l’Italia, non credeva (o diceva di non credere) all’esistenza di Cosa nostra. Dopo di allora sarà introdotto nel codice penale italiano il 416 bis, reato di associazione mafiosa, con la conseguente confisca dei beni patrimoniali dei criminali per via della legge Rognoni-La Torre, voluta da Pio La Torre, segretario regionale del Pci eliminato dai killer mafiosi il 30 aprile di quello stesso anno.

Sono trascorsi quarant’anni da quelle morti. La storia d’Italia è andata avanti e altre barbare uccisioni si sono succedute, altre stragi, altri processi. E altri silenzi. Ne parliamo con Nando dalla Chiesa, sociologo, politico e accademico, nonché presidente onorario di Libera.

Quello di suo padre è un delitto risolto? Avete le idee chiare, lei, la sua famiglia e gli inquirenti sul perché sia stato assassinato e su chi furono i mandanti esterni? Oppure vi interrogate ancora su quegli eventi e sulle risultanze processuali?

Diciamo intanto che tutto è inscritto in una lunga storia nazionale in lotta permanente con la legalità, la giustizia e la trasparenza. La morte di mio padre ne ha costituito un punto “alto”. E in tal senso non ha fatto eccezione alla regola dominante: non rompere mai del tutto, neanche nei momenti più tragici, le relazioni con i poteri criminali, con la cultura del segreto e del silenzio. Io in verità ho le idee abbastanza chiare su quanto è accaduto. E le espressi già nel 1984, nel mio libro Delitto imperfetto.

Non che avessi doti di intuito particolari. Semplicemente si era trattato di una “morte annunciata”, come scrisse allora il manifesto. Che aveva radici nelle vicende politiche aperte, o che minacciavano di aprirsi, per effetto dell’arrivo di mio padre a Palermo e delle intenzioni, espresse personalmente anche a Giulio Andreotti, di non fare sconti politici alle correnti democristiane più intrise di presenza mafiosa, a partire, appunto, da quella andreottiana. Lì – dissi a Giorgio Bocca una settimana dopo il delitto – stava il grumo di interessi che si sentirono più a rischio, insieme a quelli direttamente mafiosi.

Una convergenza decisiva.

Sì, dalla quale nacque l’intreccio di autorizzazioni e promesse di impunità di cui Cosa nostra aveva bisogno per colpire. Ma le ragioni politiche non furono un semplice elemento di contorno o di contesto. I magistrati hanno da subito, ma inutilmente purtroppo, provato a identificare i mandanti esterni a Cosa nostra: non i complici, si noti, ma i mandanti esterni. Ecco, questi sono e resteranno da identificare penalmente, anche se la storia si è disegnata ai nostri occhi ormai pienamente.

L’elemento rivelatore è l’assassinio di Salvo Lima. L’uccisione del politico di collegamento tra Andreotti e Cosa nostra, dopo la condanna in Cassazione del Maxiprocesso, è la prova storica che il delitto dalla Chiesa era stato compiuto ricevendo garanzie politiche, che – per fortuna – la storia sociale, civile e giudiziaria del Paese ha poi fatto saltare.

Ci sono state numerose ombre sull’assassinio e sui 100 giorni che lo precedettero: sono rimaste o sono state fugate?

Molte cose sono ormai davvero chiare. Credo che allora chi progettò e/o autorizzò il delitto fosse convinto che nonostante la “morte annunciata”, nonostante il rischio evidente che si trattasse di un delitto firmato, nessuno si sarebbe azzardato a leggere la firma. In un certo senso chi lo pensò vide bene.

Il codice del potere su questo era d’acciaio. Intimava da sempre di voltarsi dall’altra parte, di distogliere lo sguardo dalla firma. Non aveva fatto i conti con la forza straordinaria che può venire dal dolore o dal senso del dovere, o da tutti e due. Mi faccia dire che sento l’orgoglio filiale di non essermi voltato dall’altra parte. Di avere visto la firma, di averla voluta vedere, insieme a poche altre persone. Quasi tutte decisive.

Molti elementi del delitto non tornano. Penso ai dubbi dei cronisti di allora e di ora, alla vicenda delle chiavi della cassaforte di Villa Pajno, alla scusa del lenzuolo per coprire il corpo ancora caldo di suo padre, ai dossier che teneva sotto il sedile anteriore della sua auto, al mafioso che diede in escandescenze durante il Maxiprocesso proprio nel momento più sbagliato, alla cartella di suo padre, scomparsa come l’agenda rossa di Paolo Borsellino dieci anni dopo.

Ha detto una cosa importante: le carte e i faldoni d’indagini che mio padre teneva sotto il sedile vicino al posto di guida. Si è favoleggiato in continuazione, imbeccati dal sottobosco politico-informativo, delle “carte di Moro” custodite nella cassaforte. Inutilmente ho continuato a dire che questa era una falsa ipotesi. L’hanno trasformata nella verità storica. Perfino in una università tedesca mi hanno presentato spiegando che mio padre era stato ucciso perché conservava le carte segrete di Moro.

Finché, decenni dopo, la Procura di Palermo, anche su nostra pressione (dov’è finita la borsa di nostro padre?) è tornata ai documenti originari di quella sera. Ed è venuto fuori che erano state repertate carte di lavoro e di indagine di quelle settimane. Altro che le carte di Moro… E come mai mio padre le teneva sotto il sedile, se non per renderle invisibili a chiunque, magari anche al momento dell’uscita dalla Prefettura? E perché se le portava a casa? Segno che erano riservatissime.

Per questo credo, ho sempre creduto, che nella cassaforte fosse custodito materiale del suo lavoro palermitano. Il fatto è che spiegare un grande delitto politico, ricostruendo quello che è accaduto davanti a tutti richiede coraggio. Meglio abdicare e rinviare a fantomatici cassetti segreti. Si rischia di meno e magari si fa pure la figura del detective di razza.

Quanto al lenzuolo, bastava il primo ospedale. Ma quando mai si va in casa del morto per prendere il lenzuolo con cui coprirne il cadavere? Di notte, poi? L’episodio dell’improvviso “impazzimento” di un imputato in gabbia, in Tribunale, quando un agente inizia a testimoniare in aula sull’arrivo notturno a villa Pajno di un discusso funzionario di polizia, dice tutto. Per me, naturalmente.

Cosa ricorda di quel tragico periodo che la colpì maggiormente?

Ricordo la paura di tutti, la paura che si toccava anche in Prefettura. C’era una fretta incredibile di liberarsi del prefetto anche da morto. Come se il suo nome scottasse, suonasse minaccia per un sistema intero. Via, via, questo prefetto venuto dal Nord. Furono i funerali più veloci della storia.

Pensi, mio padre fu ucciso alle 21.10 del 3 settembre; alle 20 del 4 settembre era già nella chiesa di Santa Maria delle Grazie a Milano. Neanche i tempi dell’omaggio cittadino.

Fu però in quell’atmosfera di paura che ci fu possibile pretendere per noi il diario di nostro padre. In realtà ciò che si trovava dentro l’ufficio avrebbe dovuto essere sigillato. Ma mio zio Romeo volle per sé l’agenda e nessuno osò opporre i diritti della legge. Anche perché di legge non ce n’era proprio traccia.

Per fortuna, dico. Perché fu quel diario che, tra le tantissime pagine di colloquio intimo e immaginario di mio padre con mia madre morta nel 1978, conteneva gli appunti sull’incontro con Giulio Andreotti e altre annotazioni fondamentali sui rapporti con la politica e con i vertici dell’Arma di quell’epoca.

Anche suo padre era un “uomo solo”, un servitore dello Stato che venne ucciso dopo essere stato lasciato solo, come accadde a diversi altri.

Sì, era un uomo solo, come mai lo era stato ai tempi del terrorismo. Allora, certo, era stato mandato in prima fila per tutti, ma avvertiva comunque il sostegno della politica e della classe dirigente del Paese. Ora non più. Era solo anche fisicamente, i telefoni di partito che non rispondevano, mentre prima si affannavano a cercarlo. E tuttavia io credo che sia stato ucciso per una speciale combinazione: era solo ma stava per non esserlo più. Non si rassegnò infatti al vuoto che si trovò intorno. Non gettò la spugna, che gli avrebbe salvato la vita. Non si arrese.

Quando gli chiesi con che coraggio, mi rispose: “Certe cose non si fanno per coraggio, si fanno per continuare a guardare serenamente negli occhi i propri figli e i figli dei propri figli”. Fatto sta che, dimostrando un intuito politico che non gli conoscevo, andò costituendo una rete di alleanze alternativa, imprevedibile per il Palazzo.

Anzitutto gli studenti e le scuole: fu il primo prefetto ad andare nelle aule a parlare di mafia. Poi gli operai dei Cantieri Navali. Poi i genitori dei tossicodipendenti (“vorrei che foste voi le mie forze dell’ordine”). Poi i primi preti di quartiere, ricordo padre Mariano Stabile. E i sindaci di molti piccoli comuni della provincia palermitana. Cresceva questa rete, in barba alle strategie di isolamento. Che cosa poteva venire fuori da quell’incontro tra lo Stato credibile (era comunque colui che aveva guidato e vinto la lotta al terrorismo) e una società civile finalmente con diritto alla parola?

Se dovesse fare un paragone tra come si conduceva la lotta alla mafia allora e come la si conduce oggi cosa direbbe?

Allora con pochissime eccezioni c’era un forte ‘dilettantismo allo sbaraglio’. Non per nulla Falcone continuò per dieci anni a predicare la professionalità del magistrato e dei servitori dello Stato. La riservatezza, poi, era una parola vuota. Non era solo questione di “talpe”. Era una questione di incoscienza, di beata superficialità. Non c’era nemmeno la percezione della gravità di quello che accadeva.

Ricordo mio zio e le mie sorelle scandalizzate perché, durante un incontro per le prime indagini, un alto magistrato aveva detto loro che non intendeva giocarsi le ferie per quel delitto (“vorrà dire la coscienza!”, tuonò mio zio, alzandosi in piedi davanti a lui, in tutta la sua possanza).

La stessa parola era quasi impronunciabile: la delinquenza, la vile mano assassina… criminalità organizzata era la formula più audace. “Mafia” si diceva il giorno del delitto o i due-tre giorni successivi.

E c’era una certa propensione a cercare minuziosamente, quasi con sadismo, le colpe della vittima. A non schierarsi apertamente con il diritto alla vita. Nemmeno nei luoghi delle Istituzioni.

Sotto questo profilo è cambiato molto. Non siamo certo ai livelli desiderabili, ma se si pensa che gli italiani ci hanno messo quasi mezzo secolo solo per imparare a fare la coda, che è una pratica neutra slegata dagli interessi materiali…

Alla recente commemorazione di Paolo Borsellino, il 19 luglio scorso, lei lo ha ricordato come un magistrato “che non faceva mai soltanto il suo lavoro”. Cosa intendeva dire? Anche Carlo Alberto dalla Chiesa era quel genere di persona?

Volevo andare contro questa retorica montante, secondo cui chi è caduto contro la mafia non è un eroe, ma soltanto qualcuno che stava facendo onestamente il proprio lavoro. Francamente non ne posso più.

Si parte per combattere una retorica e se ne costruisce un’altra. È un modo di far intendere che queste persone (appunto, Borsellino, mio padre…) erano normali, e che dunque tutte le persone possono impegnarsi seriamente contro la mafia. Non c’è dunque bisogno di essere eroi. Ma il risultato è un’indecente impostura.

Se davvero tali persone fossero tanto normali, se davvero rappresentassero la media della società, questa nostra società sarebbe ben diversa.

Il fatto è che la mafia può uccidere, ha ucciso, molte persone normali. Ma quelle di cui noi parliamo come di eroi hanno fatto molto, molto di più del loro dovere. Sapevano di rischiare la vita e invece di chiedere incarichi più tranquilli (e sempre onesti, e sempre espressione possibile di un dovere istituzionale) sono rimaste al loro posto. Non solo hanno fatto bene il loro compito, hanno fatto di più. Spesso hanno fatto – perché non ricordarlo? – anche il compito di tanti altri che abdicavano. E si sono creati doveri nuovi.

Nessuno chiese a Falcone di far nascere la Procura nazionale antimafia, anzi gliela contestavano quasi tutti furiosamente, tanto era normale. La fece nascere perché capiva che quell’istituto avrebbe potuto fare la differenza. A mio padre fecero intravedere, al termine di una gloriosa carriera nell’Arma, il Consiglio di Stato, promisero un seggio in Senato e, le assicuro, che si fecero avanti più partiti. Non era certo il suo dovere quello di andare a fare il prefetto di Palermo il giorno dell’assassinio di Pio La Torre.

Il suo, insomma, era un invito alla memoria, alla riconoscenza.

Soprattutto a smetterla con il ‘dilettantismo del pensiero’. Un invito a capire una buona volta che le parole pesano. E che se è vero che “beato il paese che non ha bisogno di eroi”, come spesso sento sentenziare polemicamente, be’, disgraziato però il paese che, quando ha bisogno di eroi, non ne trova. E questo Paese non è stato disgraziato.

Che ricordo ne ha come figlio? Eravate una famiglia felice, ha sempre detto.

Sì, una famiglia felice. E così la rivivo nonostante tutto. Di mio padre ho il ricordo di una persona capace di essere insieme affettuosa e severa, rigorosa e tollerante. I miei compagni di scuola di Palermo, dopo la terza liceo, non credevano che mi avrebbe permesso di tornare a vivere a Milano, da solo, al pensionato Bocconi. Tu, solo all’università a 18 anni, a Milano? Ma a chi lo racconti che ti lascerà libero di volare via dalla caserma?

E invece fu davvero così. Partii il giorno dopo avere compiuto i 18 anni, lui e mia madre davanti al finestrino del treno, i miei compagni ancora increduli, che mi salutavano dal marciapiede.

Fu comprensivo anche di fronte al Sessantotto. Non condivideva ma guardava con attenzione; e anche se voleva per me i capelli corti, spiegava in pubblico che in fondo anche Garibaldi aveva portato i capelli lunghi. Mi mise in guardia una sera d’estate sui comportamenti dei manifestanti che costituivano reato. Mi fece prendere il codice penale e me lo fece leggere.

Rammento che insisté sul blocco stradale. Solo dopo la sua morte ho saputo da suoi collaboratori più giovani che, in quegli anni, era stato vittima di molte lettere anonime volte a colpirne la credibilità e la carriera, informando i destinatari delle propensioni “anarco-maoiste” (così era scritto in una lettera) del figlio. Be’, lui non me ne parlò mai, evidentemente per non comprimere la mia libertà, per non far pesare su di me possibili ricatti morali, del tipo “le tue idee mi danneggiano”.

Che eredità le ha lasciato?

Un grande senso delle Istituzioni e un amore per la Costituzione che non sono venuti da lezioni e spiegazioni, ma dalla forza straordinaria dell’esempio.

Quando vedi tuo padre che accetta o si propone tutta la vita per gli incarichi più rischiosi, quando vieni a sapere in aggiunta che, prima ancora che tu sia nato, si è schierato con la Resistenza salvandosi dalla taglia dei nazisti o è andato volontario in Sicilia contro il bandito Giuliano e la nuova mafia, per vederti (in foto) quattro mesi dopo la tua nascita, capisci tutto dello spirito della Costituzione e dei doveri che si hanno verso le Istituzioni, ancor prima di leggere un solo articolo della Carta.

Ha fiducia nella capacità dello Stato di affrontare la lotta alla mafia oggi?

Ho fiducia, sì. Ma tengo separato lo Stato dalla politica. La politica non capisce molto della sfida mafiosa. Né so quanto interesse abbia a capirla: ha dedicato qualcosa, o anche molto di sé, a contrastarla nei momenti più drammatici della storia d’Italia. Finite quelle parentesi sanguinose, tende a ripetere stanche giaculatorie, a fare retorica, anche a chiudere gli occhi. E in qualche sua corrente minoritaria a disegnare surreali dietrologie.

Ci sarebbe bisogno di concretezza, competenza, conoscenza acquisita sul campo, continuità 24 ore su 24, coraggio di fronte alle proprie ambizioni di carriera. Tanto, troppo probabilmente, per la politica di oggi, dove i rappresentanti del popolo non vengono scelti dagli elettori, ma dai partiti. Meno difficile trovare queste risorse tra chi non deve essere messo in lista con un simbolo di partito accanto: magistrati, prefetti, forze dell’ordine.

 Quale significato hanno queste parole?

Che è soprattutto in questo bacino cruciale che la forza dello Stato è cresciuta molto. Una forza che tende a saldarsi con quella di numerose (anche se non maggioritarie) amministrazioni comunali, con quella dei mondi della scuola e dell’università. Perciò spero – e mi creda, non ingenuamente – nella capacità di risposta delle nostre istituzioni, specie se debitamente sollecitate del mondo associativo.

Lei insegna all’Università Statale di Milano: cosa le chiedono più insistentemente gli studenti?

Mi chiedono di sapere, di essere messi in grado di capire. E vogliono capire tutto: la storia della mafia dall’Ottocento a oggi e la conquista odierna da parte della ‘ndrangheta di aree così ampie delle regioni settentrionali. Aggiungerò anche una cosa curiosa e rivelatrice. Mi chiedono di usare sempre di più la formula che inventai nel mio corso di Sociologia della criminalità, organizzato quattro-cinque anni fa: “c’era una volta”.

“C’era una volta” per raccontare storie belle e brutte. Non per scrivere pezzi di trattato a ogni lezione, ma per entrare nella storia viva ed esplorarne, a quel punto, i quadri concettuali, i meccanismi sociali. Per mostrare come la mafia e la lotta alla mafia siano, alla fine, storia di persone. E quando per una qualsiasi ragione me ne dimentico me lo fanno notare: “prof, non ha fatto il c’era una volta”. Mi chiedono, in fondo, di essere messi nella condizione di partecipare a questa storia.

In un’intervista di diversi anni fa, raccontò che sognava spesso suo padre: lo sogna ancora?

Lo sogno di meno. Anche perché – nel frattempo – altre persone per me carissime, e carissime anche a lui, se ne sono andate. Ma lo sogno. Mi è capitato ancora il mese scorso.

E soprattutto sogno, a occhi aperti, che davvero le nostre strade, che si erano separate ai tempi della mia gioventù – da una parte l’Arma dall’altra la sociologia – si riuniscano. Che l’una e l’altra contribuiscano a dare al Paese la forza necessaria per sconfiggere l’amico della corruzione e dell’arretratezza civile, il nemico mortale della nostra democrazia: il potere mafioso e la sua cultura.

Fonte: MicroMega+, 02/09/2022

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