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“Paolo Borsellino. 1992, la verità negata” dopo trent’anni

Umberto Lucentini il . Giovani, Giustizia, Mafie, Memoria, Politica

Per gentile concessione di Edizioni San Paolo, Libera Informazione pubblica un abstract dal nuovo libro di Umberto Lucentini intitolato “Paolo Borsellino. 1992, la verità negata”.

Il giudice ucciso in via D’Amelio e il collega del Giornale di Sicilia avevano in animo di  scrivere un libro insieme.

All’indomani della strage il progetto iniziale è stato ripreso con la fondamentale collaborazione della famiglia del magistrato e il libro fu pubblicato una prima volta nel 1994, poi aggiornato nel corso degli anni, fino a quest’ultima versione che contiene gli ultimi sviluppi processuali dell’inchiesta sull’omicidio di Paolo Borsellino. 


L’incontro con gli studenti di Bassano del Grappa

Il 26 gennaio del 1989 Borsellino è a Bassano del Grappa per un incontro con gli studenti dell’Istituto professionale “Remondini”. A loro racconta la sua esperienza di magistrato, la nascita del pool antimafia dell’ufficio istruzione di Palermo, un esperimento giudiziario “non previsto dalla legge e che comunque doveva essere messo in atto senza andare contro la legge”. Il filmato di quell’incontro, caricato su YouTube, mostra Borsellino che fuma, gesticola, tiene nella mano destra gli occhiali da presbite, spesso sorride guardando le ragazze e i ragazzi seduti di fronte a lui ai quali da sempre del “tu”.

Affronta tanti argomenti. Tutti incredibilmente ancora attuali. Avvisa del pericolo che la mafia, “dovendo gestire enormi capitali, va a cercare naturalmente i mercati più ricchi che sono Milano, Torino, le zone dove i capitali impiegati fruttano di più” e ricorda che Cosa nostra “nell’impiegare questi capitali si è portata appresso quella carica di violenza e di delinquenza attraverso i quali questi capitali sono stati accumulati”.

Lamenta la “delega inammissibile a magistrati e polizia di occuparsi della mafia” senza che “si sia inciso sulle cause di fondo che provocano il fenomeno”.

Ironizza sulle carenze della macchina organizzativa della giustizia che lo costringe a Marsala “a interrogare nel carcere i detenuti che devono portarsi dalla cella sottobraccio uno sgabello perché non ci sono sedie sufficienti”.

Evidenzia l’importanza del sequestro di beni “per indebolire le cosche” ma avverte che la “gestione dei patrimoni sequestrati si porta dietro il sequestro di un’azienda che comporta o potrebbe comportare la perdita di centinaia di posti di lavoro”.

Poi si dilunga sui rapporti tra mafia e politica. “Sono emerse dalle nostre indagini tutta una serie di rapporti tra esponenti politici e organizzazioni mafiose che nella requisitoria del Maxiprocesso vennero chiamati “contiguità”, cioè delle situazioni di vicinanza o di comunanza di interessi che però non rendevano automaticamente il politico responsabile del delitto di associazione mafiosa. Perché non basta fare la stessa strada per essere una staffetta, la stessa strada si può fare perché in quel momento si trova – almeno dal punto di vista strettamente giuridico – si trova conveniente fare convergere la propria attenzione sullo stesso interesse. Questo non ci ha consentito dal punto di vista giudiziario di formulare imputazioni sui politici, però stiamo attenti, vi è un accertamento rigoroso di carattere giudiziario che si esterna nella sentenza nel provvedimento del giudice e poi successivamente nella condanna, che non risolve tutta la realtà, la complessa realtà sociale. Vi sono oltre ai giudizi del giudice, esistono anche i giudizi politici, cioè le conseguenze che da certi fatti accertati, trae o dovrebbe trarre il mondo politico. Esistono anche i giudizi disciplinari…, un burocrate, un alto burocrate, che ad esempio, dell’amministrazione ha commesso dei favoritismi, potrebbe non aver commesso automaticamente, perché manca qualche elemento del reato, il reato di interesse privato in atto d’Ufficio, ma potrebbe essere sottoposto a procedimento disciplinare perché non ha agito nell’interesse della buona amministrazione.

Ora l’equivoco su cui spesso si gioca è questo, si dice: quel politico era vicino al mafioso, quel politico è stato accusato di avere interessi convergenti con l’organizzazione mafiosa, però la magistratura non lo ha condannato, quindi quel politico è un uomo onesto. E no! Questo discorso non va, perché la magistratura può fare soltanto un accertamento di carattere giudiziale. Può dire “be’, ci sono sospetti, ci sono sospetti anche gravi, ma io non ho la certezza giuridica, giudiziaria, che mi consente di dire quest’uomo è mafioso”. Però, siccome dall’indagine sono emersi tanti fatti del genere, altri organi, altri poteri, cioè i politici, cioè le organizzazioni disciplinari delle varie amministrazioni, cioè i consigli comunali o quello che sia, dovevano trarre le dovute conseguenze da certe vicinanze tra politici e mafiosi che non costituivano reato, ma erano o rendevano comunque il politico inaffidabile nella gestione della cosa pubblica. Questi giudizi non sono stati tratti perché ci si è nascosti dietro lo schermo della sentenza e detto: questo tizio non è mai stato condannato, quindi è un uomo onesto. Ma dimmi un poco, ma tu non ne conosci di gente che è disonesta, ma non è stata mai condannata perché non ci sono le prove per condannarla, però c’è il grosso sospetto che dovrebbe, quantomeno, indurre soprattutto i partiti politici a fare grossa pulizia, non soltanto essere onesti, ma apparire onesti, facendo pulizia al proprio interno di tutti coloro che sono raggiunti, comunque da episodi o da fatti inquietanti, anche se non costituenti reato?”.

Punta il dito contro «l’uso scriteriato dei pentiti che è stato fatto, e mi riferisco ad alcuni clamorosi processi avvenuti non in Sicilia (il processo al giornalista Enzo Tortora, assolto dopo un lungo periodo di carcerazione, nda): i pentiti sono stati considerati come la scorciatoia per l’acquisizione della prova “quando ad un certo punto” alcuni giudici e alcuni poliziotti hanno creduto che il loro compito era che bastasse registrare cosa aveva detto un pentito e la prova era stata raggiunta. Con scarsi accertamenti, con scarsi riscontri e talvolta senza neanche cercare riscontri. Tutto questo ha provocato una reazione di rigetto in buona parte dell’opinione pubblica e una forma di screditamento nei confronti dei pentiti, anche di quelli che in fallo non erano mai stati colti».

Ricorda i tanti colleghi e amici assassinati da Cosa nostra, ma guarda come sempre avanti: «Se noi proviamo a immaginarci che cosa sarebbero oggi, in termini di efficienza delle forze di polizia e della magistratura, se fossero ancora in vita il procuratore Gaetano Costa, se fosse ancora in vita Rocco Chinnici, se fosse ancora in vita nella polizia Ninni Cassarà, se fosse ancora in vita nei carabinieri il capitano Basile o il giudice Terranova, se noi proviamo a immaginare cosa ha significato azzerare questa massa enorme di esperienza e di capacità investigative, di volontà di lavoro e di incisione sul problema, se noi proviamo ad immaginare questo, dobbiamo trarre purtroppo la negativa conseguenza che la mafia in questi casi ha colto bene nel segno».

E un’ultima risposta su un tema ancora oggi da chiarire: «Compenetrazioni organiche tra mafia e terrorismo rosso non ne sono mai venute alla luce». Mentre c’è «qualcosa con riferimento al terrorismo nero, ma è ancora tutto da accertare e comunque solo sembra con riferimento ad un delitto che è un delitto mafioso, l’omicidio Mattarella (Piersanti, nda) ma che molti a buon ragione definiscono anche delitto politico».


Abstract: Umberto Lucentini, “PAOLO BORSELLINO. 1992, la verità negata”, Edizioni San Paolo, Cinisello Balsamo (MI) 2022



Paolo Borsellino. 1992…la verità negata

Palermo 18/7: “Paolo Borsellino. 1992…La verità negata”. Il depistaggio e i processi

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