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Firenze 1993: Georgofili, una strage di mafia per la trattativa con lo Stato

Luca Tescaroli * il . Corruzione, Giustizia, Mafie, Memoria, Politica, Toscana

Di anniversario in anniversario. La bomba nel continente. L’eccidio di via dei Georgofili si colloca nel progetto terroristico ideato nel 1991 e sintetizzato così da Totò Riina: “Fare la guerra prima di fare la pace”. Il ruolo dei Graviano 

L’input investigativo che ha consentito di ricostruire la fase preparatoria ed esecutiva degli attentati del biennio 93-94 è stato fornito dall’analisi dei tabulati delle utenze telefoniche.

La verifica dei contatti intercorsi nella fascia oraria caratterizzata dall’attentato di via dei Georgofili faceva emergere, infatti, che un cellulare – dopo un lungo periodo di inattività dello stesso (dal 30 marzo 1993 al 25 maggio 1993) – si era acceso ventiquattro ore prima dell’esplosione, alle ore 1,04 del 26 maggio 1993, effettuando una chiamata in uscita. Era quello in uso a Gaspare Spatuzza. Il suo cellulare risultava costantemente presente sotto determinati ponti radio in coincidenza del periodo interessato dalle stragi di Firenze, di Roma e di Milano. Il monitoraggio del traffico telefonico consentiva, altresì, di individuare la persona che aveva trasportato l’esplosivo servito per le stragi nelle tre città: Pietro Carra, nonché di ipotizzare il coinvolgimento nell’esecuzione delle stesse di Luigi Giacalone e di Cosimo Lo Nigro.

Le indagini condotte dalla Procura di Roma consentivano di identificare Antonio Scarano quale custode dell’esplosivo utilizzato per gli attentati nella capitale.

Fin dall’inizio emergeva un collegamento fra gli attentati di Roma, Firenze e Milano, successivamente ricondotti a una matrice unitaria e, nell’autunno del 1994, le indagini venivano riunite presso la Procura Distrettuale di Firenze, essendo la strage di via dei Georgofili il reato più grave, commesso per primo in ordine di tempo.

La svolta nelle investigazioni arrivava, nell’agosto 1995, con la decisione di collaborare con la giustizia dell’autotrasportatore Pietro Carra e, nel gennaio 1996, del basista romano Antonio Scarano, il quale forniva indicazioni utili sulla scelta degli obiettivi da colpire nelle tre città, riferendo di aver effettuato vari sopralluoghi insieme a Spatuzza e di essersi recato con lui nei luoghi delle città di Firenze e Roma dove le stragi si sono verificate.

Nei confronti dei responsabili condannati in via definitiva per gli episodi stragisti del biennio 1993-1994 sono state acquisite prove pesanti come macigni – in parte significativa costituite dalle confessioni e dalle accuse severamente verificate di undici esecutori dei delitti e, comunque, di partecipi agli stessi: Pietro Carra, Antonio Scarano, Vincenzo e Giuseppe Ferro, Salvatore Grigoli, Pietro Romeo, Emanuele Di Natale, Umberto Maniscalco, Giuseppe Monticciolo, Giovanni Brusca e, da ultimo, Gaspare Spatuzza. Quando, nel 2008, quest’ultimo iniziava a collaborare, il primo processo nei confronti di Leoluca Bagarella e di altri 22 imputati era già stato definito e il suo contributo consentiva di riaprire le indagini su Francesco Tagliavia, capo della famiglia mafiosa di Corso dei Mille, e nei confronti dei fratelli Formoso.

Inoltre, va annoverato l’apporto di Vincenzo Sinacori, che fu coinvolto nella prima fase della strategia stragista, agli inizi del 1992, allorché, unitamente a un commando operativo, si era trasferito a Roma con l’obiettivo di individuare e colpire Giovanni Falcone e Maurizio Costanzo.

Le loro dichiarazioni, unitamente all’apporto di altri collaboratori di giustizia, e i significativi riscontri acquisiti hanno consentito di ricostruire, sia pur con un grado diverso di completezza, la fase preparatoria ed esecutiva, nonché di individuare alcuni mandanti intranei a cosa nostra [1] e di giungere alla condanna con sentenza definitiva – a seguito di un triplice verdetto della Corte di Cassazione del 6 maggio 2002 [2], del 18 gennaio 2016 [3] e del 20 febbraio 2017 [4]) – di trentaquattro imputati, fra i quali, mafiosi di rango, per aver ideato, deliberato e partecipato alle stragi – e di due imputati per favoreggiamento [5], una verità che ha resistito ai tentativi di depistaggio.

La fase esecutiva dei sette episodi stragisti ha visto il ruolo centrale dei fratelli Giuseppe e Filippo Graviano e, in particolare, di Giuseppe Graviano. Questi, infatti, oltre ad aver contribuito a ideare e a deliberare la strategia stragista è stato il più determinato, dopo l’arresto di Salvatore Riina del 15 gennaio 1993, nel voler proseguire la campagna stragista, insieme a Matteo Messina Denaro, con il quale ha vissuto in clandestinità durante il 1993, e a Leoluca Bagarella. Da latitante, ha diretto e organizzato le fasi preparatorie ed esecutive degli episodi stragisti, con l’impiego di numerosi uomini d’onore del proprio mandamento (e, segnatamente, delle famiglie di Brancaccio, di Corso dei Mille e di Roccella, che ne fanno parte, dunque legati da obblighi di fedeltà e di subordinazione) e, comunque, di soggetti allo stesso strettamente legati. Si tratta dei seguenti diciotto imputati condannati in via definitiva (vale a dire oltre la metà dei responsabili individuati), per tutti gli episodi stragisti, con le limitazioni e precisazioni specificate con riferimento a ciascuno:

  1. Francesco Tagliavia, capo famiglia di Corso dei Mille (riconosciuto mandante della strage di Firenze), Giuseppe Barranca, Francesco Giuliano e Cosimo Lo Nigro, inseriti nella medesima famiglia;
  2. Antonino Mangano (capo della famiglia di Roccella), Salvatore Grigoli (uomo d’onore della famiglia di Roccella);
  3. Cristofaro Cannella (riconosciuto esecutore delle stragi di via Fauro e di Firenze), Luigi Giacalone (esecutore di tutte le stragi, esclusa quella di Firenze), Salvatore Benigno, Giorgio Pizzo (riconosciuto esecutore delle sole stragi di Firenze e Formello) e Vittorio Tutino (riconosciuto esecutore della strage di Formello), tutti uomini d’onore della famiglia di Brancaccio);
  4. Cosimo D’Amato (cugino di Lo Nigro), Pietro Carra (autotrasportatore che curava il trasporto degli esplosivi a Prato, a Roma e ad Arluno – paese poco a Nord di Milano – gravitava negli ambienti mafiosi di Brancaccio), Pietro Romeo (riconosciuto responsabile della strage di Formello), Gaspare Spatuzza (non uomo d’onore al momento dell’esecuzione delle stragi, che in seguito all’arresto dei Graviano, avvenuto il 27 gennaio 1994, ha ricoperto anche un ruolo di comando in seno al mandamento di Brancaccio);
  5. Giovanni e Tommaso Formoso “uomini d’onore” di Misilmeri, rientrante nel mandamento di Belmonte Mezzagno, riconosciuti esecutori della strage di Milano;
  6. Antonio Scarano [6], il quale, dopo aver lavorato in Germania per circa 12 anni ed essere tornato in Italia nel 1973, stabilendosi a Roma, prima a Centocelle, poi a Torremaura, tra l’altro, accompagnava Gaspare Spatuzza in via Veneto a Roma, al bar Doney, il 18 gennaio 1994, ove quest’ultimo incontrava Giuseppe Graviano, che gli dava l’input per eseguire l’attentato allo stadio Olimpico in via dei Gladiatori e, nella circostanza, gli riferiva: grazie a soggetti detentori di potere si erano presi il paese nelle mani.

Giuseppe Graviano, nell’interesse di cosa nostra, ha rappresentato il cuore pulsante dello stragismo, contribuendo a elaborare le finalità e dosandone correlativamente le tempistiche di esecuzione (in particolare, quella dell’attentato allo stadio Olimpico eseguito il 23 gennaio 1994), e lo stesso ha trascorso parte della sua latitanza al Nord e, segnatamente, a Milano, ove veniva arrestato il 27 gennaio 1994.

Con riguardo alla strage di via dei Georgofili, che oggi commemoriamo, sono state ricostruite le attività pianificate e attuate afferenti: alle modalità di acquisizione dell’esplosivo (in larga misura tritolo proveniente da ordigni bellici); al confezionamento della carica e alle modalità di collocazione della stessa nel Fiorino e a come è stato armato l’ordigno (si è praticato un foro nei fianchi dove veniva inserito il detonatore); al collocamento del furgone sull’obiettivo prescelto da parte di Francesco Giuliano e di Cosimo Lo Nigro; il peso (250 Kg con un margine di oscillazione del 15-20%) e l’innescamento della carica e la composizione della stessa.

La strage di via dei Georgofili si colloca nel più ampio progetto terroristico eversivo, ideato nell’autunno del 1991, sintetizzato dalle parole di Salvatore Riina: “bisogna prima fare la guerra prima di fare la pace”, riportate da Filippo Malvagna, che rappresentano un ragionamento politico.

A seguito del nefasto esito del maxiprocesso, derivante dalla sentenza della Corte di Cassazione del 30 gennaio 1992 e del conseguente insuccesso dei tentativi di condizionarne l’esito, cosa nostra ha colpito gli acerrimi nemici e i tradizionali referenti politico istituzionali. Con il ricatto a suon di bombe, attuato con otto stragi (due in Sicilia e sei nel continente) e plurimi omicidi [7], i vertici del sodalizio hanno voluto fare una guerra allo Stato per piegarlo e indurlo a trattare, in un periodo di sfaldamento dei partiti di governo, falcidiati dalle indagini su Tangentopoli.

E ciò al fine di creare un assetto di potere ritenuto funzionale alle proprie aspettative riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti, condizionando la politica legislativa del governo e del parlamento (ottenere vantaggi sul terreno carcerario – l’abolizione del carcere duro di cui all’art. 41 bis O. P. e dell’ergastolo – su quello del pentitismo e del sequestro dei beni) e riannodando il rapporto politico mafioso sfaldato con altri referenti nel quadro di più trattative avviate da esponenti delle istituzioni o da loro emissari con appartenenti a cosa nostra.

L’ondata stragista tesa a colpire il patrimonio storico, artistico e monumentale della Nazione prese le mosse da un’azione minatoria: la collocazione di una bomba da mortaio nei giardini di Boboli, annessi a palazzo Pitti, a Firenze, in epoca prossima al 5 ottobre 1992.

Il via libera alla nuova stagione delle stragi veniva deciso in una calda giornata di aprile del 1993, il 1 aprile, nel villino di Giuseppe Vasile a Santa Flavia, ove si teneva una riunione operativa, nel corso della quale tre boss di vertice di cosa nostra (Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro e Giuseppe Graviano) ragionavano di bombe. Obiettivi insoliti venivano colpiti rispetto al tradizionale modo di operare di cosa nostra.

Sette stragi, che indussero il premier Carlo Azeglio Ciampi a dire di “aver temuto un colpo di Stato”, eseguite nel territorio italiano nell’arco di quattordici mesi, dal 23 maggio 1992 al 28 luglio ’93 (il riferimento è alle stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio; all’attentato a Maurizio Costanzo del 14 maggio 1993, due giorni dopo l’insediamento del governo Ciampi, in cui erano inseriti per la prima volta in Italia, esponenti del PDS, l’ex partito comunista; alla strage di via dei Georgofili del 27 maggio 1993; alle stragi eseguite nella notte tra il 27 e il 28 luglio 1993, allorché esplosero, quasi simultaneamente, tre autobombe: la prima a Milano, in via Palestro, che provocò cinque morti e una decina di feriti e distrusse il padiglione di arte contemporanea; la seconda, a Roma, danneggiò la basilica di San Giovanni in Laterano e il palazzo lateranense e provocò 14 feriti; la terza, ancora a Roma, procurò il ferimento di tre persone e gravi danni alla basilica di San Giorgio al Velabro. Una strage ulteriore allo stadio Olimpico di Roma, programmata per il gennaio 23 gennaio 1994, con lo scopo di eliminare, con un’autobomba, decine di carabinieri, in servizio di ordine pubblico, non verificatasi per un malfunzionamento del telecomando.

Rimangono, invero, spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare per verificare se sia dimostrabile sul piano processuale una convergenza di interessi di ulteriori soggetti estranei al sodalizio mafioso nell’ideazione e nell’esecuzione della strage. Vanno ricordati i seguenti a titolo esemplificativo.

Come mai Paolo Bellini [8] s’incontrò con Antonino Gioè, mentre era in corso la fase preparatoria della strage di Capaci (alla quale contribuì attivamente) e perché istillò il proposito di colpire la Torre di Pisa?

Le ragioni e le modalità della morte di Antonino Gioè il 29 luglio 1993, all’indomani degli attentati del 27-28 luglio 1993 sono rimaste non chiarite.

Cosa è accaduto in via Palestro dopo il 23 luglio 1993, allorché Spatuzza lasciava Milano e si recava a Roma? Da chi e come è stata trasportata la Fiat Uno in via Palestro?

Perché tutti gli episodi stragisti menzionati (tranne quello di via Palestro) sono stati rivendicati con la sigla Falange Armata?

E, più in generale, non sono state individuate compiutamente le ragioni dell’accelerazione dell’eliminazione di Paolo Borsellino, eseguita a distanza di 57 giorni nella medesima città, a Palermo o, comunque, nelle immediate vicinanze, nella quale fu eseguita quella di Falcone, della moglie e dei tre agenti di scorta (Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani) e non si conosce il perché sia cessata il 23 gennaio 1994 la campagna stragista, dopo il fallito attentato allo stadio Olimpico.

Vi è poi il dato, suscettibile di approfondimento, per cui i vertici di cosa nostra ricevettero, nel corso del 1992, un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa, che, nella loro prospettiva suonava come una conferma che la loro attività stragista fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali [9]. Il che induce a chiedersi come sia possibile che lo stragista Matteo Messina Denaro continui a essere latitante dopo un trentennio, nonostante le investigazioni volte a catturarlo? Una permanenza in libertà che non consente di ritenere finita l’era dei corleonesi, tanto più che sono stati pianificati attentati nei confronti di rappresentanti delle istituzioni in anni recenti.

Se il nostro sistema normativo si è rivelato estremamente efficace e sofisticato, come riconosciuto in ogni sede internazionale, consentendo un’azione di contrasto funzionale a raffreddare l’agire d’impronta stragista e a contrastare l’evoluzione dell’agire delle varie strutture mafiose radicate nel nostro Paese, è un dato di fatto che, dal 2008, le collaborazioni qualitativamente significative in seno a cosa nostra si sono inaridite e nessuno dei condannati per le stragi del triennio 92-94 ha trovato conveniente la collaborazione, preferendo morire in carcere o sperare nell’ottenimento dei benefici carcerari (permessi premio, liberazione condizionale, lavoro esterno al carcere, semilibertà), divenuti di recente possibili a seguito degli interventi della Corte Costituzionale, tant’è che alcuni di loro hanno  concretamente ottenuto permessi da fruire fuori dal carcere.

Ciò che oggi è importante è evitare che gli uomini d’onore percepiscano che la spinta investigativa proiettata a ricercare la verità non si è arenata e che lo Stato nel suo insieme considera di fondamentale importanza la collaborazione con la giustizia, che non si intenda smantellare gli strumenti esistenti, ma potenziarli e che il contrasto alla criminalità organizzata è in vetta alle priorità politico-legislative-giudiziarie, non solo in occasione delle commemorazioni pervase da retorica celebrativa.

In questa prospettiva diventa importante rendere più vantaggiosa la defezione dai sodalizi rispetto alla militanza degli uomini di vertice dell’organizzazione e di chi è a conoscenza di quanto è accaduto in quegli anni, potenziando l’efficienza assistenziale del servizio di protezione, rendendo concreto il reinserimento sociale con la possibilità per il collaboratore di intraprendere un lavoro onesto o di percepire gli assegni pensionistici come per tutti gli altri cittadini senza ingiustificati ritardi, rimodulando la normativa esistente in modo che preveda tangibili ulteriori vantaggi per chi si affida con serietà allo Stato, colmando il vuoto normativo che deriverà dall’ordinanza n. 97 del 15 aprile 2021 della Corte Costituzionale sull’ergastolo ostativo se il Parlamento non interverrà nel termine stabilito, tenendo presente che vi sono mafiosi stragisti, anche detenuti, che continuano a coltivare propositi di vendetta verso chi li ha accusati o li ha fatti arrestare e che attendono di ritornare in libertà per attuare le loro ritorsioni.

A distanza di 29 anni dalla strage di via dei Georgofili se possiamo ritenere di avere accertato, con il pieno rispetto delle garanzie degli imputati condannati, una parte davvero significativa della verità attorno a quel delitto, non possiamo trascurare l’impegno a continuare nella ricerca della stessa, nel rigido rispetto del segreto investigativo, evitando cedimenti e cercando di impedire l’erosione degli strumenti di contrasto che i vertici di cosa nostra volevano far eliminare ricattando lo Stato con il tritolo. Un tributo che si deve al vivere democratico, alla memoria delle vittime, al dolore dei loro cari e dei sopravvissuti.

È importante non dimenticare mai ciò che è accaduto e mantenere un impegno costante nel contrasto, fino a quando continueranno a esistere cosa nostra e le altre strutture mafiose, per non essere costretti a rivivere quel tragico passato.

* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze

Una sintesi è stata pubblicata in data odierna da Il Fatto Quotidiano

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Note

[1] Salvatore Riina, Bernardo Provenzano, Leoluca Bagarella, Matteo Messina Denaro, Giuseppe e Filippo Graviano, Giovanni Brusca e Giuseppe Ferro per tutte le stragi. Gioacchino Calabrò limitatamente alla strage di via dei Georgofili.

[2] Nei confronti di LeolucavBagarella e altri.

[3]  Nei confronti di Cosimo D’Amato.

[4] Nei confronti di Francesco Tagliavia

[5] Alfredo Bizzoni per favoreggiamento reale e Angela Correa per favoreggiamento personale.

[6] Scarano ha detto poi che, agli inizi del 1992, era stato coinvolto da Messina Denaro Matteo nel primo tentativo di assassinare Costanzo, tramite Pandolfo e Garamella.

[7] Due omicidi: Salvo Lima il 12 marzo 1992 e Ignazio Salvo il 17 settembre 1992. Il progetto ha visto la realizzazione di diversi altri attentati a sedi e a beni dell’allora Democrazia Cristiana in Sicilia. Ben quindici gravi delitti furono progettati, fra i quali, gli attentati a Calogero Mannino e a Claudio Martelli, l’eliminazione del capitano Ultimo, il rapimento di uno dei figli di Giulio Andreotti, l’omicidio di Alfonso Giordano o di Pietro Grasso, l’idea di disseminare di siringhe infette la costa della Romagna e quella di avvelenare, qua e là, qualche pacco di merendine nei supermercati.

[8] A partire dai mesi di febbraio-marzo ‘92, mentre era in fase di preparazione la strage di Capaci, si instaurò una complessa trattativa tra Paolo Bellini e Antonino Gioè, avente a oggetto il recupero di quadri rubati di notevole valore, a fronte di benefici per detenuti, indicati in esponenti del gotha di Cosa Nostra, nel quadro di riflessioni relative al compimento di attentati al patrimonio artistico del Paese, tra i quali, sempre ricorrente, la Torre di Pisa. Quei progetti vennero veicolati a rappresentanti dello Stato. Secondo il racconto di Giovanni Brusca, fu Bellini a mettere sotto gli occhi dei mafiosi i beni del patrimonio artistico nazionale e a discutere con loro delle conseguenze di possibili attentati. Il collaborante ha puntualizzato di aver parlato dei suggerimenti di Bellini con Leoluca Bagarella e di aver sempre tenuto informato Riina, sottolineando che elaborarono l’idea istillata da Bellini. Sul versante istituzionale, è emerso che, inizialmente, Bellini si rapportò con il maresciallo dei carabinieri del Reparto Tutela Patrimonio Artistico, Roberto Tempesta, e, successivamente, con il generale Mario Mori.

[9] Si è provato, attraverso i processi celebrati, che “erano in corso trattative con canali istituzionali che si erano condensate nell’arcinoto ‘papello’, che era una sorta di cahier de doléances che costituiva per Riina la base per una seria trattativa con lo Stato”. Così si sono espressi i giudici nella motivazione della sentenza, divenuta definitiva, della Corte d’assise d’appello di Caltanissetta, depositata il 23 giugno 2001. Nel medesimo provvedimento si legge: “ …l’escalation di violenza che contrassegnò la stagione delle stragi era finalizzata ad indurre alla trattativa lo Stato, ovvero a consentire un ricambio sul piano politico che, attraverso nuovi rapporti, potesse assicurare come per il passato le necessarie complicità di cui Cosa Nostra aveva beneficiato”. E, ancora: “Ritornando al tema delle trattative va rammentato che Cancemi, in sede di riesame ha fatto riferimento ai contatti avuti da Riina con gli onorevoli Dell’Utri e Berlusconi …; contatti che, a suo dire avevano lo scopo di ottenere provvedimenti legislativi favorevoli all’organizzazione: annullare la legge sui pentiti, abolire l’ergastolo, eliminare la normativa sul sequestro dei beni o di affievolirne le conseguenze. Anche Brusca ha riferito di una trattativa, a cavallo delle stragi, condotta da Salvatore Riina per ottenere benefici in tema di revisione dei processi, di sequestri di beni, di collaboratori di giustizia, nonché del progetto di attentato nei confronti del giudice Grasso, essendosi inaridite le trattative in corso, dopo la strage di Via D’Amelio. Dell’esistenza di contatti tra Salvatore Riina con rappresentati istituzionali si trae conferma, come ha ricordato lo stesso Brusca, dalle dichiarazioni rese dal gen. Mori e dal magg. De Donno … Tali trattative, nel cui ambito si inserì anche Vito Ciancimino, sfociate nel notissimo “papello”, vennero intraprese nel quadro di una serie di iniziative del ROS, volte alla cattura di Riina e Provenzano. I vertici di Cosa Nostra, subito dopo la strage di Capaci, avevano ricevuto un segnale istituzionale che, nella loro prospettiva, convalidava la bontà delle prospettive che si aprivano in concomitanza con le stragi, tant’è che Riina aveva cercato di rivitalizzare, dopo la strage di Via D’Amelio, la trattativa con il progetto di attentato nei confronti del dr. Pietro Grasso. Difatti, la trattativa condotta dagli ufficiali del ROS con Ciancimino si era bloccata, avendo quest’ultimo chiesto una pausa di riflessione”. Nella sentenza della Corte d’Assise di Firenze per le stragi del ’93, n. 3 del 6 giugno 1998 si legge: “ … l’iniziativa del ROS (perché di questo organismo si parla, posto che vide coinvolto un capitano, il vice-comandante e lo stesso comandante del Reparto) aveva tutte le caratteristiche per apparire una ‘trattativa’; l’effetto che ebbe sui capi mafiosi fu quello di convincerli, definitivamente, che la strage era idonea a portare vantaggi all’organizzazione. Sotto questi profili non possono esservi dubbi di sorta, non solo perché di ‘trattativa’,‘dialogo’ ha espressamente parlato il cap. De Donno (il gen. Mori, più attento alle parole, ha quasi sempre evitato questi due termini), ma soprattutto perché non merita nessuna qualificazione diversa la proposta, non importa con quali intenzioni formulata (prendere tempo, costringere il Ciancimino a scoprirsi o per altro) di contattare i vertici di ‘cosa nostra’ per capire cosa volessero (in cambio della cessazione delle stragi). Qui la logica s’impone con tanta evidenza che non ha bisogno di essere spiegata. Quanto agli effetti che ebbe sui capi mafiosi soccorrono, assolutamente logiche, tempestive e congruenti, le dichiarazioni di Brusca. Su questo personaggio si potrà dire, ancora una volta, quello che si vuole, ma il tempo (luglio-agosto 1996) in cui parlò, per la prima volta, di questa vicenda, spazza ogni dubbio sulla assoluta veridicità di quanto ebbe a raccontare. Allora, infatti, l’esistenza di questa trattativa era sconosciuta a tutti i protagonisti di questo processo; Brusca non poteva ‘prenderla’ da nessuno (lo stesso generale Mori ha dichiarato di averla raccontata al Pubblico Ministero di Firenze nel mese di agosto del 1997)”.
Dunque, si è provato, attraverso i processi celebrati, che sono esistite delle trattative, che i vertici dell’organizzazione mafiosa ricevettero un segnale istituzionale idoneo, nella loro prospettiva, a suonare come una conferma che la loro attività stragista fosse adatta a raggiungere l’obiettivo di aprire canali relazionali, capaci di individuare nuovi referenti istituzionali.

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