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I tre elaborati vincitori del Premio Santo Della Volpe, edizione 2022

Redazione il . Cultura, Giovani, Mafie, Memoria, Sicilia

La VI edizione del concorso giornalistico dedicato a Santo della Volpe è stata promossa anche quest’anno da Comune di Erice, Libera, FNSI, Ordine dei Giornalisti di Sicilia, USIGRAI, Articolo 21, Liberainformazione.

Il tema proposto agli studenti era il seguente: «Terramia. L’altro contagio, quello delle mafie. “Una variante che, come quella del virus – scrive don Luigi Ciotti – provoca malattia e morte sociale indebolendo la democrazia e ostacolando il cambiamento”. Dallo scritto del 1838 del procuratore del Re a Trapani, Pietro Calà Ulloa, al delitto di 100 anni addietro del sindaco del Comune di Monte San Giuliano (che poi divenne Comune di Erice) Sebastiano Bonfiglio. Dalla strage di Pizzolungo del 1985 alle stragi di 30 anni addietro. La mafia borghese di oggi che vive con la corruzione. Raccontiamo per non abbassare la guardia senza dimenticare i successi dell’antimafia giudiziaria e sociale senza timore di offendere o perdere la nostra memoria tragica».

Tra i lavori presentati, il vincitore è risultato essere quello di Maria Sofia Tartamella. Questo il giudizio della Commissione esaminatrice: “Tra i lavori presentati, questo elaborato è in grado di sottolineare le motivazioni dell’impegno di ciascuno nella lotta alla mafia. Un impegno costante e quotidiano fatto di sacrifici, grandi e piccoli non importa, che costituiscono la base per la tenuta democratica del tessuto sociale e civile. Non c’è una delega alla magistratura e alle forze dell’ordine, ma il richiamo al compito di ciascuno, a partire dalla presa di coscienza che il cambiamento è possibile, grazie anche ad una informazione libera come aveva insegnato e praticato il nostro Santo Della Volpe”.

Come ogni anno, pubblichiamo i tre elaborati finalisti e ringraziamo i partecipanti per la passione e l’impegno dimostrati nel volere ricordare con le loro parole il nostro caro Presidente Santo Della Volpe.

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Cara Sicilia…

Maria Sofia Tartamella

classe 3° A – I.I.S. Rosina Salvo di Trapani

1° Classificato

Ah Sicilia mia, quantu sì beddra! Non basterebbe un solo giorno per parlare di te a chi non ti conosce; ma tu meriti di essere narrata. Merita di essere raccontata la tua luce nelle focose giornate estive  e il tuo caldo afoso che ci fa venir voglia di andar al mare e di sentire il suo odore che, ad ogni siciliano, fa battere il cuore, poiché odora di ‘’casa’’.

Tu, cara mia Sicilia, sei caratteristica per gli ulivi e gli agrumi che colorano i nostri campi. Sei una vera bellezza già così! E, come se non bastasse, sei abbellita da monumenti artistici e chiese che sanno di antico e di sacro. Ma cosa saresti senza i tuoi siciliani… così passionali e così accoglienti che se, rifiuti un invito improvviso a cena, si offendono! Loro sono pronti a farti ridere con il loro dialetto e il loro peculiare gesticolare delle mani.

Sei piena di luce mia cara terra…

Ma sei piena anche di tante ombre. Sei ricolma di omertà, del sangue degli uomini giusti che si sono battuti contro un grande virus, molto potente, che si sparge a macchia d’olio semplicemente chiudendo gli occhi davanti all’illegalità e all’ingiustizia. E noi ogni volta che dimentichiamo ciò che grandi uomini hanno fatto, consapevoli che erano già dei morti che camminavano, non gli rendiamo onore e riconoscenza e non ripercorriamo il loro modello.

Il tuo bel siciliano molto spesso fa finta di non comprendere. Ma perché ancora non si è capito che mafia non sono solo ‘’ammazzatine’’ o ‘’lupara bianca’’?

Mafia è anche quando vostro figlio vede un suo amichetto che butta la carta per terra e dice al padre che è sbagliato, ma lui per tutta risposta dice ‘’fatti i fatti toi e un parrare’’.

Il tuo bel siciliano non educa alla speranza del cambiamento e alla denuncia sociale. Se ci riflettiamo, anche i nostri proverbi diffondono una subcultura mafiosa. Avete presente il proverbio ‘’Si nun si re nun fari leggi novi, lassa lu munnu comu lu trovi’’? Ecco, noi siamo così!

Se la Mafia esiste ancora è solo colpa nostra! E riconoscerlo è il primo passo per l’onestà verso il mondo in cui viviamo.

Noi siciliani ci lamentiamo del futuro che possono avere i nostri figli, con i politici che ci governano, ma a questo punto mi chiedo: Perché, se esistono uomini che fanno estorsioni ai negozianti davanti ai nostri occhi non andiamo in questura a denunciare? Perché quando vediamo per puro caso la targa di un’auto in fuga in cui vi sono gli assassini di un povero disgraziato appena ucciso sotto casa non andiamo a denunciare? Te lo dico io, Sicilia mia… Noi ragioniamo con il ‘’non vedo, non sento, non parlo’’.

Per non parlare del fenomeno che noi chiamiamo ‘’ u piccolo favuri di n’ amico a mia assai caro’’. Noi lo sappiamo che si chiama in un’altra maniera! Diciamolo… si chiama corruzione. È per questo che spesso nei posti di lavoro troviamo persone senza competenze.

 Ciò che mi addolora ancor di più sono tutte quelle persone che dovrebbero essere gli ambasciatori degli ideali di giustizia, legalità e coraggio e invece spesso sono i più corrotti e magari hanno indiretti contatti con ‘’Cosa Nostra’’. Hanno, simbolicamente parlando, sfaldato e sporcato la nostra terra.

Questa Mafia è ‘’un fumo che partìo da Sicilia e acchianao sempre chiù supra’’. Vive nell’aria che respiriamo e vola più che può, entrando nei nostri cervelli, nei nostri pensieri e nelle nostre parole. E si arriva al punto di ragionare come ‘’Cosa Nostra’’, che crede di avere il diritto di potere decidere della vita o della morte delle persone quando hanno intuito qualcosa che non doveva essere scoperto. Quando la “Mafia” scatena un attentato le vere crepe che si generano non sono quelle delle strade causate dal tritolo, quelle si aggiustano sempre. Ma chi le ricuce le crepe del cuore e dell’anima di chi ha visto morire o subire degli attentati al proprio marito, figlio o fratello? Non si ha nella coscienza la vita di una sola persona ma di tutta la sua famiglia.

Un esempio è la storia del capo-scorta del giudice Carlo Palermo che nell’attentato del 2 aprile 1985 si ritrovò fuori dall’auto blindata in piedi, con la mandibola rotta, lesioni alla gamba e un trauma cranico esteso.

La moglie Lucia Calì, che la mia classe ha avuto l’opportunità di incontrare a scuola l’8 marzo scorso e, come ci ha narrato lei stessa, gli è stata sempre accanto e ha sofferto per questo cambiamento così radicale nella vita della sua famiglia. Per tutti quelli che subiscono queste atrocità la vita non è più la stessa. Si formano delle crepe non sanabili che perdurano nel tempo. Ma non è mai stato scritto da nessuna parte che non possiamo cambiare la nostra realtà!

Voglio crederci, cara Sicilia, che un giorno verranno onorati tutti i giornalisti che hanno avuto il coraggio di esprimere la loro denuncia sociale e che ci hanno permesso di poter parlare oggi a viso scoperto e a testa alta del fenomeno mafioso. Giornalisti che hanno voluto parlare di verità come Santo Della Volpe e altri che invece hanno pagato con la loro vita la scelta di non tirarsi indietro di fronte agli affari illeciti di ‘’Cosa Nostra’’. I figli tuoi, cara Sicilia, che hanno dato la vita per te sono tanti: Mario Francese, Peppino Impastato, Giuseppe Fava, Giovanni Spampinato e altri.

Terramia voglio lottare affinché tu sia tutta luce e niente più ombre…


La mafia, minaccia alla democrazia

Mario Piazza

3° B Liceo Classico – I.I.S. “Fardella-Ximenes”

2° Classificato

La mafia, con i suoi valori di illegalità e corruzione e con le sue organizzazioni che avviluppano gli aspetti reconditi della vita sociale, è una seria minaccia alla stabilità delle moderne democrazie. La lotta alla mafia impegna molti uomini dello Stato e cittadini onesti che, a rischio della propria incolumità, si spendono nella salvaguardia e difesa della legalità.

Sono divenuti immortali nella memoria collettiva i nomi di Carlo Alberto Dalla Chiesa, Ninni Cassarà, dei giudici Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, eroi immolatisi sull’altare delle attività giudiziarie tese alla repressione delle cosche mafiose. Ma come non ricordare Giuseppe Impastato o Mauro Rostagno, giornalisti che hanno pagato con la vita le denunce contro il malaffare di Cosa Nostra? Dalla loro vicenda traspare certamente il ruolo che l’informazione svolge nel fiaccare la criminalità organizzata. La parola contiene infatti l’intrinseco potere dell’azione.

Tramite essa si può raccontare la verità e reagire così alla corruzione, nemica del vivere civile. Per questo la disinformazione è alleata di Cosa Nostra che fa dell’ignoranza, uno strumento del proprio potere. L’attività giornalistica si basa sulla mordacità delle parole, scomode da leggere o da ascoltare.

Il giornalista è chiamato a raccontare la verità dei fatti, a farsi portavoce di tutti i meccanismi sociali, mettendosi al servizio del bene comune. Come dice Horacio Verbitsky, “diffonde ciò che qualcuno non vuole che si sappia, addita e dà testimonianza a ciò che è nascosto. Perciò è un comunicatore molesto”.

È il caso del quotidiano palermitano “L’Ora”, che per primo nel 1958 pubblicò una serie di inchieste sulla mafia, cosicché Cosa Nostra ne devastò con il tritolo la storica sede. Il giorno dopo l’attentato scrisse: “La mafia ci minaccia, l’inchiesta continua”. Il sostegno alla legalità giustifica l’avversione della mafia nei confronti del sano giornalismo che non teme di denunciarne i loschi affari.

Lo sa bene Mario Francese del “Giornale di Sicilia”, che a Palermo fu ucciso nel gennaio del 1979 per mano mafiosa, dimostrando come la stampa debba essere libera da ogni condizionamento pagando con la vita la sua tenace ricerca della verità. Fu il primo di una lunga lista, cui si aggiungono Giuseppe Fava, Peppino Impastato e Mauro Rostagno, giornalisti anti-mafia che hanno pagato a caro prezzo la serietà nello svolgere il loro mestiere.

L’amore per la legalità ha segnato la vita di Giuseppe Impastato, detto Peppino. Di famiglia mafiosa, ripudiò la corruzione così da essere cacciato da casa dal padre, perché con la sua emittente Radio Aut ledeva gli interessi dei mafiosi di Cinisi e Terrasini, satireggiandoli e sbeffeggiandoli. Tra l’8 e il 9 maggio del 1978 venne ucciso e il suo corpo fu fatto esplodere sui binari della linea ferroviaria Palermo-Trapani, inscenando un presunto attentato-suicidio. Solo nel 1984 la madre di Peppino, Felicia, dimostrò la matrice mafiosa dell’omicidio.

La lezione di vita di Peppino Impastato fu fatta propria dieci anni dopo da Mauro Rostagno, sociologo, giornalista e attivista politico ucciso nel 1988 dai boss trapanesi Vincenzo Virga e Vito Mazzara. La sua colpa? Quella di aver minacciato il potere di Cosa Nostra. Conduttore nella metà degli anni ’80 di Radio Tele Cine, divenne noto per le sue interviste a Paolo Borsellino e Leonardo Sciascia e per la denuncia della collusione tra mafia e politica locale. Nei suoi servizi si occupò anche dell’omicidio del sindaco Vito Lipari, i cui imputati erano i boss Nitto Santapaola e Mariano Agate. Assassinato dentro la sua auto a poca distanza da contrada Lenzi, solo dopo 23 anni i suoi aguzzini vennero condannati all’ergastolo.

La perseveranza nella tutela della giustizia di questi giornalisti deve essere un monito per le generazioni future! Il loro amore per la dignità umana, che l‘intimidazione mafiosa offende, non può essere vano! Spetta a noi giovani squarciare il velo dell’omertà, facendoci testimoni nei comportamenti e nei pensieri della legalità, la cui realizzazione non può essere affidata solo alle istituzioni ma deve essere frutto di un impegno comune.

I giornalisti vittime di mafia ci hanno lasciato una grande eredità: come essere dei buoni cittadini che operano per il bene di tutti e danno il loro contributo per una società onesta e rispettosa della democrazia. Certo, la strada è ancora impervia ma se tutti noi nel nostro piccolo rispettassimo le regole del vivere civile, realizzeremmo le parole di Mauro Rostagno: “Non vogliamo trovare un posto in questa società ma creare una società in cui valga la pena trovare un posto”.

Armiamoci di coraggio e di forza d’animo, consci che l’azione comune cambia il mondo, guarisce le storture e i mali sociali! D’altronde anche Giovanni Falcone ci ha lasciato un prezioso consiglio: “Chi tace e piega la testa muore ogni volta che lo fa, chi parla e cammina a testa alta muore una sola volta”.


La mafia nasce agraria e si fa impresa

Antonino Genco

Classe 5° F – Liceo Classico – I.I.S. “Fardella-Ximenes”

3° Classificato

La prima consorteria riconducibile ad un’organizzazione mafiosa nasce a Trapani, nella metà dell’Ottocento, come documenta il procuratore dell’epoca Ulloa.

Le polemiche sui social che hanno seguito la fiction “Màkari” (che ha indicato Trapani come la madre della mafia) sono pertanto prive di fondamento. La mafia è nata a Trapani e, nel nostro territorio, è cresciuta tessendo rapporti, nel corso  degli anni, con i Servizi segreti deviati e la massoneria coperta tutto ciò è triste, ma, purtroppo, reale e documentato dalle inchieste giudiziarie. Il fatto che molti lo neghino non cambia, certo, la storia del Trapanese.

La mafia, e non solo quella trapanese, dalla nascita ad oggi, ha subito delle mutazioni, come un virus che si modifica affinché la sua aggressività resti sempre efficace. Agli inizi del Novecento era una mafia prettamente agraria: al fianco dei padroni, dei latifondisti, insomma, sostenevano chi sfruttava i braccianti agricoli (costretti a lavorare dall’alba al tramonto, con salari da fame). Nel nostro territorio ha pagato con la vita un politico socialista e sindacalista, che, in quegli anni, si è battuto per difendere i contadini: Sebastiano Bonfiglio, ucciso nel 1922 a Monte San Giuliano (oggi Erice).

Nel dopoguerra, a poco a poco, gli interessi della mafia si spostano verso la ricostruzione post bellica, controllando le grandi opere pubbliche, grazie alla complicità di pezzi importanti della politica. Del resto, se la mafia non avesse goduto del sostegno di uomini politici senza scrupoli, non sarebbe riuscita ad incidere così pesantemente sulla società , condizionando lo sviluppo economico.

Negli ultimi decenni la mafia si è fatta impresa e, stando alle indagini, non pochi imprenditori hanno scelto (qualcuno potrebbe anche essere stato obbligato) di trasformarsi da vittime a carnefici.

Ma non tutto è mafia o, comunque, solo mafia. La strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985, in cui morirono Barbara Rizzo ed i gemellini Giuseppe e Salvatore, segnano una tragica svolta. Nel tentativo di uccidere il giudice Carlo Palermo, rimasto pressoché illeso, i criminali non hanno esitato a colpire degli innocenti. Lo stesso ex magistrato, in più occasioni, ha ribadito che per fare chiarezza sulla strage di Pizzolungo, bisogna eliminare i segreti di Stato che, ancor’oggi coprono la verità. Ecco, la strage di Pizzolungo è una sorta di prova del fatto che la mafia abbia stretto scellerati patti con le istituzioni deviate e con la massoneria. Proprio in quegli anni, fu scoperta dalla polizia a Trapani la loggia Massonica “Iside 2”, nei  cui elenchi c’erano boss mafiosi, uomini delle istituzioni e politici. Il giudice Palermo, anni prima, a Trento, aveva avviato una delicata indagine sul traffico internazionale di armi. Un’indagine che ostacolava gli interessi di tanti uomini potenti.

Oggi, purtroppo, nonostante l’incessante sforzo di contrasto alla criminalità organizzata compiuta dalle forze di polizia e dalla magistratura, e nonostante il risveglio delle coscienze della società civile, la mafia continua ad esercitare un condizionamento non indifferente. Perché, se da un lato, è stato colpito duramente il braccio armato, l’organizzazione Cosa Nostra continua a godere di appoggi inconfessabili: la latitanza, da quasi 30 anni, del boss Matteo Messina Denaro è una conferma.

Lo Stato ha fatto tanto, ma ancora tanto c’è da fare: il 21 marzo scorso, giorno della memoria delle vittime di mafia, don Luigi Ciotti, presidente di Libera, ha ricordato che l’80% dei familiari delle vittime di mafia attendono ancora verità e giustizia.

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“Scatti di Memoria”

Trapani: “Qui la mafia non è stata ancora sconfitta”

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Al via la sesta edizione del concorso giornalistico intitolato a Santo Della Volpe

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