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Il mestiere dell’attivista. L’ultima battaglia di Peppe Sini: “Biden liberi Leonard Peltier”

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La lunga barba bianca evoca qualcosa a metà tra Engels e Zarathustra. E i decenni di impegno da cui è nato quel colore così solenne.

Perché è dalla fine degli anni settanta che il nome di Peppe Sini incrocia la vita di associazioni, circoli, riviste, attraverso la partecipazione o la promozione di pubbliche battaglie. Lui e il suo “Centro di ricerca per la pace, i diritti umani e la difesa della biosfera” di Viterbo sono in effetti ormai una componente fissa della nostra società civile.

“Anche se adesso come gruppo di amici, bisogna dirlo, siamo un po’ invecchiati”, ride lui. Lo puoi ritrovare nelle lotte umanitarie o pacifiste, ambientaliste o antirazziste. Memorabile la lunga, faticosa campagna coordinata in Italia per ottenere negli anni ottanta la libertà per Nelson Mandela. Quattro milioni di firme, e insieme la richiesta di conferirgli il premio Nobel. Ma significativo anche, nel 1987, il primo convegno nazionale di studi sulla figura di Primo Levi, il cui nome apriva proprio l’elenco delle firme anti-apartheid.

In questi mesi Peppe Sini, in genere figura riservata (“mi attengo al principio di Epicuro di cercare di vivere nascosto”), è una presenza tenace sugli schermi di centinaia di attivisti grazie alla battaglia per una causa che sembra uscire dal cilindro di un prestigiatore: la liberazione di Leonard Peltier.

Un nome totalmente sconosciuto ai più. E cronache uscite dalla memoria di quasi tutti i militanti civili. Anche se diverse sono le canzoni dedicate al protagonista, tra cui quella di Little Steven della E Street Band di Bruce nel suo album “Revolution”. Perché Peltier, cresciuto nella riserva indiana del Dakota del Nord, è come spiega Sini nel suo manifesto, “l’illustre attivista per i diritti umani dei nativi americani, vittima di una spietata persecuzione politica, dal 1977 ingiustamente detenuto dopo un processo-farsa in cui gli sono stati attribuiti delitti che non ha commesso”.

Sini conosce bene le ragioni dei nativi americani, sin da quando negli anni settanta riceveva in abbonamento una loro rivista, “Akwesasne Notes”. E questa storia l’ha studiata a fondo. Si tratta di due ergastoli per l’uccisione di due agenti dell’Fbi che porta a Peltier attraverso indizi e arbitri. Una vicenda giudiziaria complicatissima, doviziosamente raccontata in rete, e piena di punti controversi, a cui si sono rifatti gli avvocati di Peltier per chiedere un processo d’appello, sempre negato, al riparo dei pregiudizi razziali della Corte di allora.

Dal mese di agosto Sini ha iniziato una raccolta di firme senza sosta, con il metodo del “gutta cavat lapidem” (la goccia scava la pietra) che gli è congeniale. Un primo gruppo di firme a fare da battistrada (Zanotelli, Ciotti, Lerner, Ovadia…) e poi ogni volta l’annuncio della adesione del tale intellettuale o del sindaco di Icsipsilon o di Zetaiota, anche se è un comune di duemila anime. Con puntuale rilancio del manifesto e “riscaldamento” emotivo dei sottoscrittori.

Un piccolo successo dietro l’altro, l’effetto palla di neve è stato davvero raggiunto. Perché il 23 agosto il presidente del parlamento europeo David Sassoli ha annunciato, con tweet e in video, la richiesta a Biden di un atto di clemenza degli Stati Uniti per il condannato.

Per il centro di ricerca di Viterbo è stata festa. Un primo punto di arrivo, con conseguente incitamento ai compagni di viaggio: “Continuiamo a impegnarci affinché il Presidente degli Stati Uniti d’America attraverso la grazia presidenziale restituisca finalmente la libertà a Leonard Peltier, il Nelson Mandela dei nativi americani”.

In prima fila c’è naturalmente il notiziario telematico quotidiano “La nonviolenza è in cammino” che il centro pubblica dal 2000. “Non so come andrà a finire”, confessa Sini. “Ma, come diceva Bobbio, nella storia anche l’improbabile può accadere”.

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 25/10/2021


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