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Addio a Nino Milazzo

Fondazione Giuseppe Fava il . Cultura, Memoria, Politica, Sicilia, Società

Ciao Nino,

la Fondazione Fava ti ricorderà sempre con affetto e gratitudine.

Per la tua lunga e prestigiosa carriera giornalistica, per il tuoi libri Un italiano di Sicilia e Il mio Novecento. Memorie del secolo breve, per la tua vera e autentica amicizia con Pippo Fava, testimoniata con il tuo distacco dalle illazioni tendenziose che per anni hanno cercato di sminuire la figura del tuo amico.

Ti ricordiamo con le parole che hai pronunciato aprendo il pomeriggio di approfondimento teatrale che la Fondazione dedicò a IL PROBOVIRO il 4 gennaio 2015,

Nessuna cerimonia sarà veramente e pienamente sufficiente e adeguata finché l’insegnamento e l’esempio di Giuseppe Fava non entreranno stabilmente e durevolmente nella vita e nella coscienza della comunità, e finché la sua opera non diventerà materia di studio e di riflessione nelle scuole e nelle università. Un percorso già iniziato in alcune città italiane, e che è necessario si attivi anche in Sicilia e nella nostra Catania.

Quel pomeriggio diede inizio alle manifestazioni per il ricordo del 31° anniversario dell’uccisione di Giuseppe Fava e fu anche l’ultimo evento al quale partecipò Elena, la nostra Presidente, che da sempre, ti ebbe preciso e discreto punto di riferimento dal 5 gennaio 1984.

Nella foto di quel pomeriggio sei il primo da sinistra. Di seguito pubblichiamo integralmente il testo del tuo intervento che cortesemente ci hai fornito. È una testimonianza importante, il tuo J’accuse. Te ne siamo grati debitori, e ci sembra doveroso lasciarne traccia. Grazie Nino

Sono passati 31 anni da quel 5 gennaio e Catania si ridesta per ricordare l’uomo che ha consacrato la sua vita alla ricerca della verità e alla lotta contro l’ingiustizia e la violenza. Oggi è il prologo, poi domani -come giusto che sia- Catania, la Catania più sensibile, celebrerà ufficialmente in forma semplice ma pensosa, il suo giorno della memoria volgendo un pensiero commosso al sacrificio di Pippo Fava.

Ma io sono qui per dire che nessuna cerimonia sarà veramente e pienamente sufficiente e adeguata finché l’insegnamento e l’esempio di Fava non entreranno stabilmente e durevolmente nella vita e nella coscienza della comunità e finché la sua opera non diventerà materia di studio e di riflessione nella scuola e nell’università.

Non mi si fraintenda. È dovere sacrosanto di ogni cittadino onesto e responsabile rendere omaggio all’Eroe Fava a ogni anniversario del suo assassinio per mano della mafia. Ed è altrettanto doveroso rispondere all’appuntamento del Premio che, in suo nome, viene consegnato ogni anno nell’anfiteatro di Zö. Ma è la città intera, non solo la sua élite, che deve sentire e maturare coralmente il bisogno e la convinzione di vivere la vicenda Fava come parte importante della propria storia. E la vicenda Fava non va vista soltanto nel suo tragico epilogo. Fava è stato un eccelso protagonista come narratore, drammaturgo, pittore, oltre che coraggioso giornalista.

È stato un artista, è stato un intellettuale.

E, dunque, è pure questa la dimensione di lui che, andando oltre la ritualità, merita di essere ricordata per onorarne compiutamente la figura e la memoria.

Questo è il senso di ciò che, rispondendo alle sollecitazioni della Fondazione Fava di cui Elena, la figlia, è instancabile animatrice, sta cercando di fare il Teatro Stabile con l’iniziativa di questo pomeriggio, la quale iniziativa riprende e continua quella del gennaio dell’anno appena trascorso.

Per noi del Teatro Stabile Pippo Fava non è solo una inestinguibile fonte di ispirazione e di proposta artistica, è anche un amico perduto verso il quale nutriamo un sentimento condiviso di affetto, di gratitudine, di ammirazione. Per tutte queste ragioni ci inchiniamo dinanzi alla sua figura e al suo sacrificio. E vi prego di credere che il mio non è cedimento retorico. Sinceramente lo ricordiamo per tutto quello che ci ha lasciato in eredità; e sinceramente lo rimpiangiamo per tutto quello che avrebbe potuto ancora darci col suo ingegno e con la sua amicizia.

Il rimpianto. Il rimpianto è sicuramente il sentimento che accomuna tutti coloro che vivono con senso di partecipazione ogni anniversario del 5 gennaio. Ma questo giorno della nostra memoria ha bisogno anche d’altro.

Ha bisogno di affiancare al rimpianto il rimorso. E qui rimorso significa soprattutto autocritica. E con ciò, voglio dire che Catania è in debito verso Pippo Fava. Perché in debito?

A metà degli Anni 90, io fui convocato come testimone al processo per l’assassinio di Fava, benché al tempo dell’omicidio vivessi lontano da Catania: lavoravo a Milano.

Suppongo che i magistrati mi abbiano chiamato perché erano al corrente del mio vecchio rapporto con Fava, intessuto nel tempo grazie a una comune esperienza di lavoro e di impegno sindacale. Forse sapevano anche del mio incontro con lui proprio poche settimane prima dell’agguato mafioso, quando da Milano ci recammo insieme negli studi della tv svizzera a Lugano per registrare un programma di Enzo Biagi, del cui gruppo di lavoro facevo allora parte. Fu quella sua memorabile intervista a Biagi l’ultima occasione che ebbi di conversare con lui.

In udienza venni a lungo interrogato sul clima psicologico e cultuale che aleggiava attorno a Fava, soprattutto nell’ambito professionale. Ebbene, la mia risposta fu netta e dettagliata, ma riassumibile in una sola parola: solitudine, la solitudine di un combattente.

Un concetto che trovò poi largo spazio nella motivazione della sentenza.

Insomma, ne ero certo allora e ne sono certo ancora adesso: Catania o meglio le generazioni già adulte negli Anni 70 e 80, tranne qualche limitata e sporadica eccezione, rimasero colpevolmente sorde e si dimostrarono cieche dinanzi agli allarmi e alle denunce di Pippo Fava.

E questo avvenne non solo nei tempi del pieno dominio mafioso, quando sulla città imperversava incontrastato il potere di Santapaola, ma già molto prima.

Basti pensare che il Proboviro risale al 1972. Già in quel tempo lontano, la surreale invenzione drammaturgica di Fava, che fra poco sarà evocata da un valoroso gruppo di attori e da un eccellente critico quale il prof. Sciacca, annunciava l’incombente degenerazione della società italiana tanto da anticipare, in maniera quasi profetica, lo schema mafioso del recente romanzo criminale di Roma.

O forse non è vero che nella vicenda del Proboviro si avverte la presenza di un mondo di sopra e di un mondo di sotto, in mezzo ai quali galleggia un mondo di mezzo, dove tutti si incontrano per dar vita al malaffare?

Certo quel lavoro di Fava fu accolto con molti applausi, ma, finito lo spettacolo, il nulla: nessuno raccolse il messaggio che era racchiuso in quell’opera buffa sugli italiani, nemmeno la Sinistra: sia quella ufficiale, sia quella alternativa, pur così ricca di intelligenze.

Purtroppo, lo stesso drammatico vuoto si aprì nel decennio successivo allorché le rivelazioni, i moniti, le testimonianze provenienti dalle pagine de I Siciliani avrebbero dovuto aprire gli occhi di tutti. Gli “avvisi ai naviganti” erano chiari e altrettanto preoccupanti, perché la minaccia era ormai immanente, era dentro il cuore della città. Ma neanche stavolta il corpo sociale catanese diede segni di reazione, di consapevolezza. Fava fu lasciato solo con i suoi ragazzi di redazione. Fino a quel 5 gennaio, che segò e segna ancora oggi un doloroso spartiacque nella storia di Catania. Ecco il debito della città.

Molte cose sono cambiate da allora, ma quel silenzio, quell’indifferenza della Catania sorda e cieca davanti al teatro civile di Fava, ai suoi romanzi, ai suoi articoli pesano ancora: sono situazioni da riesumare e da studiare.

Insomma, il tempo è maturo per cercare finalmente di capire, facendo chiarezza laddove finora è reticenza e sovrapponendo, quindi, le ragioni del rimorso a quelle del rimpianto. Un esame di coscienza su quel che è accaduto e non doveva accadere farebbe bene alla salute etico-morale della comunità di cui facciamo parte.

Forse possiamo cominciare già oggi ragionando e meditando su un possibile modo nuovo di vivere collettivamente il retaggio Fava, nel quale convivono -lo ripeto- l’Eroe che sfidò la mafia, il narratore, il drammaturgo e – sissignori- il pittore, che è ancora in parte da scoprire.

Io lo ricordo, Pippo, quando durante le pause di lavoro in redazione tracciava i suoi schizzi: guardandoli, mi ricordavano lo stile duro e tagliente del grande Georg Grosz, il testimone fra i maggiori della tragedia di Weimar.

Anche Pippo è stato testimone di una tragedia. Ma lui ha pagato con la vita.

Le mie piccole, povere riflessioni finiscono qua. Ora andiamo avanti e passiamo al meglio di questo pomeriggio di memorie.

Info: Fondazione Giuseppe Fava

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