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Le possibili alternative al carcere

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Istituzioni, Politica, SIcurezza, Società

L’inefficacia della persecuzione vendicativa

Rieducazione. Si dovrebbe concepire la pena detentiva come «extrema ratio» organizzando misure praticabili che rispondano al bisogno di sicurezza

Le terribili immagini del pestaggio disumano organizzato ai danni dei detenuti di S. Maria Capua Vetere portano a riflettere, sia pure nel peggiore dei modi, sulla realtà del pianeta carcere.

La psicologia di chi sta fuori si esprime con ruvide formule del tipo: «Buttiamo la chiave!». E se si accenna ai  diritti dei detenuti la risposta più frequente è: «Ma cosa pretendono? Dovevano pensarci prima!».  Queste parole riflettono brutalmente la richiesta di sicurezza della collettività. Spesso strumentalizzata da chi va a caccia di facili consensi, ma guai a ridurla a mera emotività qualunquistica. Essa infatti esprime esigenze reali dell’uomo della strada, l’italiano onesto che si sente poco protetto anche in casa sua ed è privo dei mezzi economici per potersi «bunkerizzare».

E però va detto chiaramente che la filosofia del «marciscano in galera» è la peggior nemica della sicurezza che sta a cuore della collettività. Infatti, se la pena scivola nelle spirali della persecuzione vendicativa, finisce per essere inefficace. Perchè inevitabilmente genera altra violenza e nuovi errori, innescando un corto circuito che crea sempre maggiore insicurezza. Proprio l’opposto di ciò che chiedono i cittadini. È evidente, infatti, che ogni detenuto recuperato è un recidivo in meno e quindi un motivo in meno di preoccupazione per la collettività.

Quindi il dettato costituzionale (le pene devono tendere alla rieducazione del condannato) non è solo una norma di civiltà ma anche un principio di logica e buon senso, in linea con quel che più ci conviene. Ma come spesso accade, tra il dire e il fare c’è di mezzo il mare, che in questo caso è la grande complessità delle problematiche del carcere:

Primo. Per i  problemi causati dal disagio psichico e dalle droghe, dalla disoccupazione e dalla povertà, il carcere diventa un ghetto in cui scaricare i diseredati della società, i portatori di istanze che non si vogliono o non si riescono a vedere o non si sanno risolvere, anche per indifferenza ed egoismo sociale.

Secondo. I detenuti non  sono tutti eguali,  specie sotto il profilo della pericolosità e della disponibilità al reinserimento. Per di più negli ultimi anni sono aumentati in misura massiccia i problemi di multiculturalità, con una pluralità di valori di riferimento a volte inconciliabili; e con difficoltà crescenti per chi opera quotidianamente dentro le mura del carcere.

Terzo. C’è infine la tremenda complicazione del  sovraffollamento, con la conseguente drastica riduzione degli spazi fisici – aule e aree di socializzazione – necessari per le attività di trattamento rieducativo. Un problema da sempre irrisolto, nonostante vari interventi imposti dall’Europa per tamponare le emergenze, che la pandemia di Covid-19 ha ulteriormente aggravato.

E tuttavia, le problematiche del carcere impongono, per quanto difficili, risposte adeguate alla necessità di preservare l’umanità del trattamento, vero e proprio baluardo di civiltà.

Nell’ambito della pena, il carcere rappresenta a tutt’oggi la pietra angolare dell’intero edificio. Difficile immaginare un «sostituto» in grado di rimpiazzarlo totalmente – salvo cullarsi in utopie o indulgere a fughe in avanti. Si tratta piuttosto di concepire la pena detentiva davvero come extrema ratio. Organizzando le misure alternative al carcere secondo modalità effettivamente  praticabili che rispondano al bisogno concreto di sicurezza. Con la prospettiva che alla fine maturino tempi e condizioni perché il carcere possa non rappresentare più il luogo centrale del sistema sanzionatorio.

Infine, a fronte delle  falle dell’universo carcerario, va riconosciuto (ho potuto misurarlo come direttore del Dap, una volta conclusa la mia esperienza di procuratore capo a Palermo dopo le stragi del ’92) che c’è stata anche una grande crescita professionale e culturale del personale addetto, compresa la  polizia penitenziaria.

Ed è per questo che l’intollerabile vergogna di quanto accaduto a S.Maria Capua Vetere, e non solo, colpisce (anzi affonda!)  pure tutti quegli operatori che tengono un comportamento rigoroso ma corretto, pagando spesso prezzi molto alti in termini di fatica e sacrificio.

Fonte: Corriere della Sera, 07/07/2021

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