Genova. Quel sindaco tutto d’un pezzo e la vendetta della nomenklatura rossa
Alcuni anni fa girava a Genova una storiella, ambientata nella metà degli anni novanta. Una storiella amena ma verosimile, anche perché in grado di spiegare molte cose poi effettivamente accadute.
C’era dunque un sindaco, il primo di Genova eletto direttamente dal popolo, che aveva vinto con ampio margine le amministrative dell’autunno del 1993. Era costui un classico esponente della società civile.
I partiti quella volta avevano infatti preferito tenersi defilati, meglio non mettere fuori troppo il naso. Tirava aria di tempesta per loro, essendo appena esplosa la vicenda di Tangentopoli. Perciò le forze politiche che avevano tradizionalmente governato la città, ossia quelle di sinistra, tra cui era dominus il partito comunista, candidarono un signore che con la loro storia non c’entrava molto.
Si chiamava Adriano Sansa e aveva fama di galantuomo progressista, essendo stato uno di quei “pretori d’assalto” che negli anni settanta avevano fatto tremare con le loro inchieste i locali gruppi di potere. Specie quei potentati dell’economia e della politica convinti che l’inquinamento dell’aria, dell’acqua e del cibo godesse di un sovrano diritto di impunità.
Sansa venne dunque eletto suscitando anche un certo entusiasmo intorno alla sua persona. Il che però non piacque troppo a una certa nomenklatura di partito, la quale iniziò a trovarlo rigido, troppo rigido, nel pretendere il rispetto delle regole. Come succede ovunque in questi casi, venne dunque accusato di non sapere “dialogare con la sua maggioranza”, di essere troppo “chiuso” di fronte alle istanze e alle domande che provenivano dal proprio elettorato. Voci che si intensificarono man mano che ci si andava avvicinando al rinnovo della carica.
Il guaio è che Sansa era tuttavia convinto di avere agito, pur con le sue “rigidità”, nell’interesse della città e magari anche dei partiti che la governavano. Così quando gli fu prospettata la necessità della sua sostituzione sulla poltrona di sindaco già al finire del primo mandato, si mostrò recalcitrante. “Ingrato”, dovette pensare qualcuno.
Fu dunque messa in atto nei suoi confronti una esemplare offensiva di persuasione. Di quelle che devono servire a mettere le cose in chiaro senza che possa sopravvivere alcuna ambiguità.
Diceva a questo punto la storiella che fu impartita al giudice ribelle una memorabile lezione di pedagogia politica. Più precisamente raccontavano i meglio informati che un giorno il “compagno segretario” aveva invitato il sindaco in scadenza a fare una piacevole passeggiata con lui intorno al centro della città.
Invito che Sansa aveva vissuto con curiosità. Sia perché voleva capire se si potesse trovare un’intesa sulla sua ricandidatura sia perché la meta della passeggiata si rivelò ben presto essere la panchina di un pubblico giardino, sede certo anomala per un incontro tra politici di mondo.
Ebbene, la panchina dimostrò invece la sua funzione formativa. Fu quando davanti ai due convenuti comparve a costeggiare il giardino un camion apparentemente insignificante ma che, almeno nella mente del compagno segretario, era tutt’altro che privo di significato. L’uomo infatti alzò didascalicamente il dito a indicare il camionista ignaro. Sansa non capì subito. Ma bastò un attimo.
“Lo vedi quel camionista?”. Il sindaco in scadenza si aspettava chissà quale confidenza. Tipo “è mio figlio”, oppure “è un nostro militante”. Il compagno segretario gli rivelò invece un’altra cosa: “Ecco, se io voglio diventa lui il sindaco di Genova”.
Per chiarire che il sindaco in scadenza non aveva alcun valore. Per umiliarlo: ma quale storia personale, quale lotta all’inquinamento.
Come sia finita a Sansa non tutti lo sanno. Ha continuato a fare bene il giudice. Ha scritto libri e poesie molto belle, alcune dedicate alla moglie amatissima.
Come sia finita invece a Genova, un passo dietro l’altro, ognun lo sa. Chissà che non sia incominciato tutto su quella panchina.
Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 20/05/2024
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