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Eccidio di Mostar: sofferenza e responsabilità

Nicole Corritore * il . Diritti, Giovani, Guerre, Informazione, Internazionale

Alla commemorazione in memoria dei tre inviati Rai, Luchetta, D’Angelo e Ota uccisi trent’anni fa a Mostar est, Andrea, figlio di Marco, ha parlato di “sofferenza che non cancella le responsabilità”. E ha chiesto alle autorità di opporsi “a chi ha bisogno dell’odio per difendere il suo potere” e tiene la città ancora sotto scacco.

Il 30 gennaio sono stata a Mostar, con la numerosa delegazione partita da Trieste, alla commemorazione organizzata dall’Ambasciata d’Italia a Sarajevo. Ho voluto tornare in punta di piedi in quel cortile dove il 28 gennaio 1994 tre inviati Rai della sede di Trieste – Marco Luchetta, Dario D’Angelo e Alessandro Saša Ota – sono stati uccisi dai cannoni dell’HVO (esercito croato-bosniaco) che tenevano Mostar est sotto assedio.

Mostar è per me, ancora oggi, il silenzio attonito che mi ha investita alcuni mesi dopo la loro uccisione, quando ho camminato per la prima volta tra le macerie della parte est assieme a volontari del vasto movimento di solidarietà italiano. E Mostar è per me ancora la sofferenza, mista a testarda resistenza, letta negli occhi e nelle parole delle persone allora incontrate, con le quali sono nate amicizie che il tempo non ha scalfito.

Per cui, oggi ho deciso di non scrivere di questa città ancora ingabbiata in un passato che non passa e dalla quale si continua a scappare: non per salvarsi dalle bombe ma per il diritto ad una vita degna, per fuggire dalla mancanza di prospettive, da uno spazio socialmente e politicamente divisivo. Per allontanarsi da una guerra che prosegue con altri mezzi e i cui segni sono ancora incisi nel discorso pubblico, nei media, nella politica. Nei muri delle case.

Scrivo per dare voce ai parenti dei tre inviati, venuti a Mostar per ricordarli (Daniela, Andrea e Anna – rispettivamente moglie, figlio e sorella di Luchetta – e Milenka moglie di Ota), attraverso le parole pronunciate da Andrea, figlio di Marco Luchetta. Aggiungere altro al suo discorso, intimo e al contempo politico (che ha rivolto anche alle autorità presenti, tra cui il sindaco della Città Mario Kordić) sarebbe superfluo.

L’Ambasciatore Marco Di Ruzza, dopo aver ricordato tutti gli italiani che hanno perso la vita in Bosnia Erzegovina durante il conflitto ha invitato a prendere ispirazione dal loro impegno civile: “Il loro sacrificio deve essere una bussola per tutti coloro che si adoperano per promuovere reali processi di riconciliazione in Bosnia Erzegovina, affinché il Paese possa finalmente evolvere in una moderna società aperta, cosmopolita, democratica, multiculturale, lontana dagli odi etnici e dai ciechi nazionalismi che hanno insanguinato questa terra. Una società che possa guardare con fiducia e determinazione al suo percorso europeo” (si veda il testo completo del discorso).

Ad alcuni, tra i tanti italiani e mostarini presenti, voglio però dare un volto preciso: gli alunni quattordicenni dell’ottava classe della scuola dell’obbligo “Mustafa Ejubović-Šejh Jujo”, rimasti in piedi quasi due ore al freddo e in composto silenzio. “Come mai avete deciso di venire?”, chiedo al loro insegnante. Risponde, quasi sorpreso della domanda, che è importante far sapere cosa è accaduto, ed esserci per partecipare al cordoglio.

Ma anche per tenere viva la memoria di persone, venute da lontano, che hanno rischiato la vita per raccontare al mondo la storia di bambini vittime di una guerra assurda che ha tolto loro il diritto di vivere, insieme e in pace.

Parliamo, racconto loro della Fondazione nata a Trieste nata poco dopo quel 28 gennaio 1994, grazie alla quale sono stati curati 850 bambini, tra cui molte vittime di quella guerra e di altre parti disastrate del mondo. Racconto che Andrea, quel giorno, aveva solo 7 anni, e che oggi è giornalista Rai com’era stato suo padre.

A fine commemorazione, hanno chiesto e ricevuto il personale saluto di Andrea Luchetta.

Questi futuri adulti, forse un giorno saranno – per usare le parole di Andrea – la Mostar “di chi crede in una comune radice umana”.

La prima volta che sono venuto in questo cortile era il 2007. Mi ha accompagnato Zlatko, il bambino che era insieme a papà, Dario e Saša. Mentre camminavamo per i vicoli, mi sembrava che i palazzi si stessero chiudendo su di me, che la realtà stesse collassando. Avevo immaginato per 13 anni questo cortile. Mi sentivo fragile, disorientato. Ci ho messo delle ore per lasciar uscire il dolore. E quando finalmente ha vinto le barriere che avevo costruito, quando ho iniziato a sentirmi disperatamente solo, dalla notte è spuntato un cagnone nero. Mi ha fatto la guardia in silenzio e poi mi ha abbracciato. L’ho chiamato Stari, mi è rimasto al fianco per 15 anni.

Non ho mai parlato pubblicamente di queste cose, detesto come le vicende più intime diventino chiacchiericcio, superficialità. Ma qui lo faccio perché so di essere in mezzo a fratelli, a persone che hanno sofferto quello che abbiamo sofferto noi, e spesso ben di peggio. Quando cammino per Mostar avverto una strana sensazione di familiarità.

Mostar non è la città che ha tolto papà a mia mamma, a mia sorella Carolina e a me. È la città per cui papà ha sentito un’urgenza così profonda da fare quello che ha fatto. Ha provato un’empatia meravigliosamente umana e ha scelto di ascoltarla. Ha scelto di essere parte di una comunità. Una comunità che non ha declinazione etnica, religiosa, linguistica o qualsiasi altra idiozia ci siamo inventati per spararci addosso e derubarci. La stessa empatia che ha provato per le vittime musulmane, ne sono certo, la avrebbe provata per le vittime cattoliche, ortodosse, atee, agnostiche, buddhiste e tutto quello che volete.

La sofferenza ovviamente non è una lavatrice. Non ci rende per forza uguali, non lava via le responsabilità. Sappiamo da che parte del Bulevar è partita la granata. Non sappiamo se fosse diretta a loro in quanto testimoni, o se fosse l’ennesimo tentativo di ammazzare qualche persona a caso. Non ci fa nessuna differenza. Chi ha sparato è un criminale. Chi gli ha dato una giustificazione ideologica per farlo non è degno di stare qui.

Apprezziamo la presenza delle autorità oggi, sappiamo che non era scontata. E rivolgo loro un invito, a nome della mia famiglia: assumetevi la responsabilità della vostra presenza. Dopo le corone, dopo i discorsi, lavorate per liberare Mostar dalla cappa che ancora la opprime. Opponetevi a chi ha bisogno dell’odio per difendere il suo potere, in tutte le comunità, se non volete insultare la memoria delle persone che oggi ricordate.

Mostar per me e mia sorella è nostro padre. Mostar è l’empatia che ci ha insegnato a provare. Mostar è tutto quello che ci rende diversi da chi non sa parlare di dolore. Da chi non lo vuole guardare, da chi lo ostenta, da chi lo manipola per costruirci sopra un potere meschino. Mostar sono gli uomini che hanno rifiutato di uccidere, i cittadini che hanno nascosto i perseguitati. Mostar è chi crede in una comune radice umana. Mostar è un cane silenzioso, che ti tiene in equilibrio quando ti manca la terra sotto i piedi.

Mostar appartiene a loro, non a chi commercia veleno.

Andrea Luchetta


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