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L’Arcivescovo di Milano Delpini in dialogo «per un giornalismo al servizio del bene comune»

Annamaria Braccini * il . Chiesa, Diritti, Informazione, Lombardia, Memoria, Migranti

Si è tenuto all’Istituto dei Ciechi di Milano l’incontro annuale di monsignor Delpini con i giornalisti. Hanno partecipato il direttore di Avvenire Marco Girardo e il conduttore di Report, Sigfrido Ranucci.

«Se qualcuno immagina che il mondo sia una discarica, è chiaro che qualsiasi cosa se ne trae sarà rovinata e rotta; se qualcuno immagina che sia un giardino dove tutti gli alberi sono belli e ricchi di frutti, la narrazione sarà poetica e rassicurante, ma non realistica. Credo che i giornalisti debbano partire da una visione del mondo come campo da lavorare».

Nelle parole con cui l’Arcivescovo Mario Delpini apre il primo degli interventi con i giornalisti – Marco Girardo, direttore di “Avvenire”, Sigfrido Ranucci, conduttore della trasmissione Rai, “Report” con la moderazione di Elisabetta Soglio, responsabile di “Buone notizie” del “Corriere della Sera” – c’è tutta la sintesi del tema “Custodi della notizia o seminatori di paura?”, su cui si è invitati a riflettere come comunicatori. Un chiaro riferimento al Discorso alla Città pronunciato dal vescovo il 6 dicembre scorso, è anche il titolo del tradizionale incontro di monsignor Delpini con gli operatori della comunicazione svoltosi in un’affollatissima Sala Barozzi dell’Istituto dei Ciechi, in occasione della festa liturgica di San Francesco di Sales (che ricorre il 24 gennaio), patrono degli operatori dei media.

I saluti istituzionali

Un incontro aperto dall’intervento di Stefano Femminis, responsabile dell’Ufficio Comunicazioni Sociali della Diocesi che spiega il senso dell’iniziativa 2024, «nell’aver voluto mettere allo stesso tavolo giornalisti e giornalismi diversi» e di Riccardo Sorrentino, presidente dell’Ordine dei giornalisti della Lombardia che dice. «La paura e il suo correlato, il coraggio, ci portano al centro delle difficoltà del giornalismo di oggi che non riesce più a distinguersi da quello che giornalismo non è e alimenta la paura. Un giornalismo in difficoltà deve definire il suo ruolo, in un universo della comunicazione ormai amplissimo, tornando ai fatti. Occorre, nel diluvio di informazioni, un lavoro di verifica da svolgere con rispetto e rigore. È venuto il momento per fare un elogio del giornalismo mite, coraggioso, forte e saldo, che sa quel che dice e lo dice con chiarezza». Espressioni, queste, condivise da Edoardo Caprino che, a nome di Monica Forni, presidente regionale porta il saluto dell’Unione Cattolica della Stampa Italiana-Lombardia, promotrice della mattinata con l’Arcidiocesi di Milano.

Il tempo della paura fluida

Sul tempo attuale, definito «della paura fluida», si sofferma l’intervento introduttivo di Paola Barretta, portavoce della Carta di Roma e ricercatrice dell’Osservatorio di Pavia, specializzato in analisi della comunicazione.    

«Bisogna capire la percezione delle paure, delle incertezze e la rappresentazione di queste stesse. Vediamo che a livello italiano ed europeo c’è una sorta di scala delle paure a partire dalla disuguaglianza. Se si chiede cosa sia prioritario nella vita, al primo posto si trova la sicurezza economica, con tutto quello che comporta: avere un lavoro che permetta una vita dignitosa e una casa. Nelle generazioni più adulte c’è anche la percezione che le proprie condizioni di vita siano peggiorate e vi siano incertezze per il futuro, specie riguardo all’ assistenza sanitaria. È vero – continua Barretta – che c’è una dimensione congiunturale dell’insicurezza, ma anche un’amplificazione data da una sorta di sciami informativi. Eppure, una continuità corretta dell’informazione su alcune questioni è fondamentale, anche al di là della tragicità dei fatti di cronaca». Si scopre, così, che,  rispetto a 10 anni fa, le persone si sentono, in effetti, meno insicure, ma che l’immigrazione nel 2023 registra comunque il maggior indice di insicurezza, con il 46% di  risposte in questo senso. «Qui è ovvio», secondo la ricercatrice, «che vi sia una precisa responsabilità del giornalista, ad esempio, quando i media indicano nazionalità e provenienza di  persone coinvolte in qualche fatto di cronaca anche se non è necessario».

Basti pensare che la parola dell’anno 2023 è, per l’informazione, “Cutro” (luogo di riferimento della strage dei migranti del febbraio 2023) e, riguardo all’immigrazione, il termine “invasione”. Insomma, «solidarietà e comunità non fanno parte del vocabolario usato allorché si parla di immigrazioni», con una disinformazione e una misinformazione – per usare la definizione usata dalla Bbc a indicare una non completezza dell’informazione – molto meno riconoscibile e, quindi, più insidiosa delle fakes news. «Chi non tiene conto dei codici deontologici e continua a fare propaganda semplicemente non fa il giornalista. Va sottolineato come l’uso delle parole riguardi la responsabilità dei comunicatori», conclude Barretta, prima che Soglio dia la parola al vescovo Mario.

Il giornalismo come servizio al bene comune

«Avvicinando i giornalisti ho l’impressione che sia gente che lavora, si informa, insegue le notizie e mi chiedo come mai, a volte, l’impressione è che la notizia, invece di capire la realtà, generi insicurezza. I giornalisti devono, anzitutto, partire da una visione del mondo che non può essere solo una discarica o un giardino dell’Eden» spiega l’Arcivescovo.

«Mi sembra che il giornalista non possa considerare la notizia come un prodotto del mercato, per cui più se ne offre di cattive e meglio è. Dovrebbe, invece, vivere la notizia come contributo alla crescita del bene comune. Ad esempio, parlando delle gang di giovani si può pensare che siano fatte da persone di cui raccontare la vicende umane. La continuità e l’insistenza sugli aspetti problematici e degradati sono una scelta che, forse, è premiante, ma il giornalista e l’editore si devono domandare questo se serve a una missione di solidarietà e inclusione sociale».

Il giornalismo di inchiesta e l’impegno etico

Parole a cui fa eco Ranucci, raccontando l’impegno con “Report” con le sue tante inchieste di giornalismo investigativo. «La finalità è trovare un campo dove, magari, nascosti ci sono dei rifiuti e cosi si può proteggere l’albero di frutti che cresce sopra. Negli ultimi anni, con i social, sono aumentati i monologhi e l’agenda politica detta i temi. Noi facciamo inchieste che mettono paura, siamo a volte dipinti come terroristi, ma il ruolo del giornalismo di inchiesta è illuminare il buio per leggere la realtà». Non a caso il “Washington Post”, il quotidiano che svelò il caso Watergate ha, nella sua testata in prima pagina, la frase: “Democracy dies in darkness – Nel buio muore la democrazia”. «Con questa consapevolezza di dovere incutere qualche volta paura, cerchiamo anche di dare anche buone notizia, facendo inchieste propositive», sottolinea il giornalista Rai.

Per il direttore Girardo si tratta di avere un «impegno etico con i lettori. «Esiste una domanda che dobbiamo tutti porci, in un’epoca nella quale i social hanno trasformato la comunicazione in uno spazio informativo senza intermediazione. Dobbiamo chiederci, con il 58% della gente che si  informa dalla televisione, circa il 40% sui social e solo per il 3% sulla carta stampata, che valore aggiunto possiamo dare. Possiamo farlo solo scegliendo il metodo della ricerca precisa fatta di accuratezza, completezza e verifica, sapendo se vogliamo rivolgerci a dei consumatori o a dei cittadini. Se vogliamo andare incontro ai primi, non c’è partita: l’intelligenza artificiale funziona molto meglio di noi, ma per i secondi c’è la missione della professione. Vogliamo sollecitare esperienze emotive polarizzate di paura e buonismo o sostituire a questi estremi uno sguardo coerente?». Quasi una risposta immediata quella che viene da una seconda riflessione dell’Arcivescovo.

Una realtà fatta di cose buone

«Ho intitolato il mio Discorso di Sant’Ambrogio, “ Uno il coraggio se lo può dare”, facendo appello allo scuotersi dalla rassegnazione. Credo che tra noi ci siano persone che hanno coraggio e originalità, intraprendenza e capacità di pensare con la propria testa. La cura per la notizia come bene comune – quando è buona, ma anche quando è cattiva, contenendo comunque una storia umana -, sia un servizio e la vocazione del giornalista e che le buone intenzioni possano essere un seme di futuro. L’idea di una tendenza irreversibile al peggio e alla disperazione mi pare che non sia obbligatoria e per questo vorrei cercare seminatori di fiducia, ognuno con le proprie convinzioni».

«Non leggo molto i giornali», ammette monsignor Delpini, sollecitato da Elisabetta Soglio sulla sua opinione sul mondo dei media. «Conosco, però, giornalisti che sono bravi, non formulo una valutazione complessiva della categoria, ma conosco gente preparata e seria. Se noi guardiamo la realtà come l’abbiamo sotto gli occhi, è fatta per lo più di cose buone. Ho fiducia nell’umanità perché merita fiducia. La realtà è buona, anche se ci sono problemi. Mi pare che anche la categoria definita come “buona notizia” rischi il volontarismo: forse, è più importante vedere la realtà con tanta gente buona che tutte le mattine si alza e compie il proprio dovere, anche se fa più notizia una mamma che uccide un figlio che miliardi di genitori che quotidianamente preparano la colazione ai loro bimbi».

La responsabilità dei giornalisti

E di fronte a esempi di accuse, anche contro i preti o la Chiesa, che sbattono il mostro in prima pagina prima dei processi, la risposta è senza appello: «La Chiesa continua a fare il bene e continua ad essere screditata. Penso che il tema della mitezza, che è pratica dei forti, sia la strada della Chiesa. I giornalisti devono rendersi conto che ci sono notizie che durano un momento e quelle che danno etichette per sempre. Le persone rovinate dalle notizie sono una grave responsabilità per i giornalisti».

Concordi su questo sia Ranucci che Girardo, per il quale si tratta «di coltivare il rapporto di fiducia diretto con una comunità di lettori», ad esempio, accendendo i riflettori su Paesi dimenticati come Haiti o il Sudan in tempi di guerre molto vicine. «Dobbiamo non lasciare mai il controllo della notizia. La capacità di raccontare il quotidiano dipende sempre da chi guarda. Ricordiamoci che perdiamo molto tempo a parlare di noi stessi e la gente non ha più tempo di leggere 40 pagine di giornali».

All’incontro ha fatto seguito il tradizionale dono all’Arcivescovo dello zucchetto episcopale da parte dell’Istituto dei Ciechi consegnato dal presidente, cavalier Rodolfo Masto, che ricorda la collaborazione fattiva e antica con la Chiesa di Milano, le sfide affrontate nel presente con coraggio sostenendo giovani e anziani e il prossimo “compleanno” della gloriosissima istituzione giunta al 185esimo anno di vita.

Il video integrale dell’incontro

* Chiesa di Milano, il portale della Diocesi Ambrosiana

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