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Se la politica delega alla magistratura e poi grida all’invasione di campo

Gian Carlo Caselli il . Costituzione, Giustizia, Istituzioni, Politica

La dirompente intervista al Corriere della sera del ministro Crosetto può dirsi l’ennesimo atto di una guerra dei 30 anni tra toghe e politica?

Non credo, perché ogni guerra presuppone due soggetti che se le danno vicendevolmente, mentre la storia italiana dei rapporti tra magistratura e politica, riesumata oggi dal ministro dopo i fasti berlusconiani, è ben altra.

In democrazia non possono esserci dubbi sul “primato della politica”, la sola cui spetta operare le scelte finalizzate al buon governo. Nessun altro, compresa ovviamente la magistratura, può arrogarsi questa funzione.

Ma il fatto è che proprio alla magistratura (e alle forze dell’ordine) sono stati delegati a ripetizione, nel tempo, gravi problemi che la politica non ha voluto o saputo affrontare o risolvere.

È successo per: la mafia, con una legislazione “del giorno dopo”, piena zeppa di articoli bis, ter, quater ecc., inseriti per colmare buchi o voragini legislative che non disturbavano prima che qualche “fattaccio” criminale ci risvegliasse; il terrorismo brigatista, almeno nella fase iniziale segnata da ambiguità se non contiguità; il terrorismo nero e stragista, con la sequela di tranelli e depistaggi che hanno ostacolato le indagini; la corruzione: fin dal 1992, la vicenda di Tangentopoli, preannunciata dagli scandali Italcasse, Lockheed e Petroli, chiedeva a gran voce una legge anticorruzione davvero efficace, ma solo nel 2019 la si è avuta con la cosiddetta “spazzacorrotti”; la sicurezza sui posti di lavoro, dove si è arrivati al punto di affidare impropriamente ai magistrati la terrificante alternativa tra la vita e il lavoro dei dipendenti dell’Ilva di Taranto…; l’evasione fiscale, dove la delega iniziale è stata poi sterilizzata, intervenendo nel 2001 sulla legge del 1992 nota come “manette agli evasori”; la sicurezza agroalimentare; la tutela dell’ambiente e della salute; la bioetica, dove (ricordiamo i casi Welby ed Englaro) delicati e mutevoli equilibri tra valori profondi e personalissimi restano in gran parte in un limbo irrisolto, mentre i giudici non possono non farsi carico di tutelare i bisogni emergenti.

Attenzione, però. Delega alla magistratura, spesso e volentieri, ma sempre con riserva, una specie di “asticella” da non oltrepassare, non scritta ma chiara. Oltrepassandola, infatti, si toccano certi poteri “forti”, che non ci stanno a essere controllati. E quando capita, si difendono: “Noi non abbiamo delegato un bel niente”; “Siete voi magistrati che avete esercitato una “supplenza” arbitraria”; “Peggio, siete responsabili di straripamento o invasione di campo!”.

A volte, quando sono in gioco interessi particolarmente sensibili, si parla addirittura di “golpe”, di “partito o governo dei giudici”, di “inchieste basate su teoremi e non su prove”. Insomma, un catalogo di attacchi ai rappresentati della giustizia che osino lavorare in maniera indipendente, “arricchito” da ingiurie assortite, come “cancro da estirpare”, “pazzi”; “antropologicamente diversi dalla razza umana”; “eversori”; “associazione a delinquere”.

La conseguenza è che se a essere messi sotto accusa sono i magistrati, invece dei collusi con la mafia o dei corrotti o di coloro che preferiscono le furbate o le scorciatoie (vale a dire norme che non reggono al vaglio costituzionale) tutti costoro faranno meno fatica a ricostruire le fortificazioni scalfite dalle inchieste. A parte che si tende a non denunciare – anzi, anatema su chi osa farlo! – le gravi responsabilità politico-morali che spesso scaturiscono con evidenza dagli accertamenti giudiziari.

Per alcuni, il magistrato che dà più fastidio è quello “troppo” indipendente, che si dimostra cioè indipendente anche quando la legge e la sorte gli assegnano il compito di doversi occupare di interessi che stanno oltre l’asticella.

Come da copione, alla “troppa” indipendenza seguono a ruota accuse pesanti; innanzitutto quella di “politicizzazione”, al punto che se un magistrato si occupa di un politico accusato di corruzione o di collusione con la mafia, a fare politica non è più il politico, bensì il magistrato!

L’accusa di politicizzazione è un cavallo di battaglia lanciato a campo aperto per delegittimare e squalificare i magistrati che, adempiendo ai loro doveri, vanno “oltre”. Piove verso il cielo; in altre parole… siamo all’assurdo.

All’accusa di politicizzazione si affianca quella di “giustizialismo”.

Prendiamo un vocabolario della lingua italiana di qualche anno fa e cerchiamo la parola “giustizialismo”: la troviamo, ma scopriamo che era riferita esclusivamente alla politica argentina di Juan Domingo Perón. Niente che riguardasse la giustizia, men che mai quella italiana.

Dunque una parola letteralmente sconosciuta nel lessico giudiziario, che viene poi astutamente riciclata con la cinica finalità mediatica di fondare il dibattito su una sorta di verità rovesciata, dove esercitare la giustizia senza privilegi per nessuno sarebbe appunto giustizialismo.

Purtroppo, questa tesi assurda è stata diffusa seguendo il canone della propaganda ingannevole, secondo cui la ripetizione assillante fa sembrare veri anche i falsi più clamorosi. Che in fondo è un po’ il fil-rouge che unisce Berlusconi ai suoi odierni epigoni quando si parla di politica e giustizia, senza rispondere alla domanda (cito Ainis, La Stampa 23.11.23) se non si ostenti “di stare alle regole della democrazia per mera convenienza”.

Fonte: La Stampa, 28/11/2023

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