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Tra Capaci e Via D’Amelio 57 giorni di piani e stragi

Luca Tescaroli * il . Giustizia, Mafie, Memoria, Politica, Sicilia

Dopo appena 57 giorni dalla strage di Capaci, il 19 luglio 1992, si verificava la strage di via Mariano d’Amelio, costata la vita a Paolo Borsellino e a 5 agenti della scorta.

Un attacco terroristico ed eversivo diretto al cuore delle istituzioni, capace di generare panico e sgomento tra i cittadini, idoneo a intervenire sui poteri giudiziario e legislativo e di compromettere la sicurezza dello Stato, attuato con un’autobomba imbottita da circa 90 chilogrammi di esplosivo plastico Semtex-H di tipo militare e di produzione cecoslovacca, che cosa nostra aveva già impiegato.

Sui reperti trovati a seguito della strage del treno rapido 904 del 23 dicembre 1984, furono, infatti, rinvenute tracce sia di pentrite sia di T4, componenti del Semtex, alcuni pani del quale sono stati rinvenuti sia nella villa di Pippo Calò immersa nel verde del rietino, a Poggio San Lorenzo, sia nel deposito bunker di San Giuseppe Jato, in contrada Giambascio, costruito dall’imprenditore Giuseppe Monticciolo, arrestato il 20 febbraio 1996, che immediatamente iniziò a collaborare con la giustizia.

La strage di via d’Amelio, a livello istituzionale, produsse un condizionamento del potere legislativo, che si concretizzò nella conversione in legge il 7 agosto del decreto legge dell’8 giugno 1992, superando le difficoltà connesse alle contrapposizioni politiche che fino al quel momento avevano accompagnato il difficoltoso cammino parlamentare.

Quel decreto aveva varato misure repressive di contrasto alla criminalità mafiosa, fra le quali, l’estensione del regime del carcere duro ai mafiosi di cui all’art. 41 bis O. P. (che in molti oggi intendono eliminare) e un inasprimento della regolamentazione dell’ergastolo ostativo per i mafiosi che impediva loro l’ottenimento dei benefici penitenziari, fra i quali, quelli della liberazione condizionale e dei permessi premio (che, nel 2019 e nel 2021, la Corte Costituzionale ha dichiarato incostituzionale). Il giorno dopo l’attentato vennero sottoposti al 41 bis centinaia di mafiosi.

Indicato pubblicamente dal Ministro dell’Interno in carica come naturale successore di Falcone nella guida della Procura Nazionale Antimafia, consapevole di essere isolato una vittima designata, Borsellino aveva compreso l’intreccio esistente tra l’area criminale di cosa nostra e le sfere istituzionale, imprenditoriale e politica.

Nei frenetici cinquantasette giorni che precedettero la sua morte, è risultato impegnato nella gestione di plurimi collaboratori di giustizia: Leonardo Messina, il quale aveva iniziato a collaborare con lui a seguito della strage di Capaci, spiegando, fra l’altro, come funzionava il meccanismo spartitorio degli appalti pubblici tra cosa nostra, gli esponenti politici e gli imprenditori e delle correlate tangenti pagate da questi ultimi; Gioacchino Schembri, appartenente alla stidda di Palma di Montechiaro, che conosceva le dinamiche sottese all’assassinio del giudice Rosario Livatino; Gaspare Mutolo, che aveva iniziato a lanciare accuse nei confronti di appartenenti alle istituzioni e, in particolare, dei Servizi Segreti, il quale riferì che, mentre Borsellino lo stava interrogando, quest’ultimo aveva ricevuto una telefonata da parte del Ministro dell’Interno e che il magistrato, una volta recatosi al Ministero, aveva trovato il capo della Polizia dottor Vincenzo Parisi e il dottor Bruno Contrada al posto del Ministro.

Borsellino aveva manifestato il proposito di individuare i responsabili della strage di Capaci e, nel corso di un’intervista a due giornalisti francesi Fabrizio Calvi e Jean Pierre Moscardo, aveva fatto riferimento a Vittorio Mangano, e sostenuto di essere a conoscenza di rapporti tra mafiosi ed esponenti del mondo imprenditoriale, citando l’esistenza di una indagine nei confronti di Marcello Dell’Utri.

E aveva pubblicamente manifestato l’intenzione di essere sentito come testimone dai magistrati di Caltanissetta per mettere a disposizione quanto a sua conoscenza sulla strage di Capaci, ma non venne ascoltato.

In quel lasso temporale del 1992, i vertici di cosa nostra ricevettero un segnale istituzionale, consistito nell’avvio di una trattativa da parte di esponenti delle istituzioni (ufficiali del ROS). Nella prospettiva dei mafiosi, suonava come una conferma che la loro attività stragista, proiettata a colpire lo Stato minacciandolo per ottenere benefici, fosse idonea ad aprire nuovi canali relazionali, capace di individuare nuovi referenti politico istituzionali.

Se fosse stato informato dei negoziati in corso tra i vertici del sodalizio ed esponenti delle istituzioni, Borsellino si sarebbe certamente opposto. La strage inghiottì l’agenda rossa dell’Arma dei Carabinieri che il magistrato portava con sé, ove annotava i dati rilevanti, che venne fatta scomparire dopo l’attentato, certamente non da cosa nostra.

A distanza di trent’anni, si è provato il coinvolgimento di cosa nostra nella deliberazione, ideazione ed esecuzione della strage.

Sono state individuate le ragioni dell’eccidio: la vendetta di un acerrimo nemico di cosa nostra, protagonista del maxiprocesso; l’esigenza di natura preventiva dell’uccisione del dottor Borsellino, derivante dal pericolo per quanto stava facendo e avrebbe potuto effettuare, che possiedono una specificità rispetto al più ampio progetto criminale aperto, attuato nel triennio 92-94, in cui l’evento delittuoso si inserì tanto da comportare un’accelerazione della strage e di stoppare l’attività preparatoria in corso volta a colpire un altro obiettivo.

Rimangono, spunti investigativi e interrogativi che impongono di continuare a indagare.

* Procuratore aggiunto della Repubblica presso il Tribunale di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano

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