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Piero Nava, il primo “testimone di giustizia” contro le mafie

Luca Cereda il . Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia, Società

Nel 2017, con voto unanime in Parlamento, è stata approvata la proposta di legge che riconosce il 21 marzo come “Giornata della Memoria e dell’Impegno in ricordo delle vittime delle mafie”. Vittima innocente della Stidda e di un sistema di giustizia che non era pronto, è da oltre trent’anni anche l’agente di commercio lecchese Piero Nava che, andando al lavoro, ha visto l’esecuzione del giudice Rosario Livatino. Testimoniando contro la mafia, Nava è diventato il primo testimone di giustizia

Ogni anno il 21 marzo, primo giorno di primavera, si celebra la Giornata della memoria e dell’impegno in ricordo delle vittime innocenti delle mafie. L’iniziativa nasce dal dolore di una mamma che ha perso il figlio nella strage di Capaci e che non sente mai pronunciare il suo nome. Un dolore che diventa insopportabile se alla vittima viene negato anche il diritto di essere ricordata con il proprio nome.

Tra queste 1055 vittime c’è il giudice Rosario Angelo Livatino – ucciso il 21 settembre 1990 dalla Stidda, costola di Cosa Nostra in Sicilia. Non c’è tra questi nomi quello di Piero Ivano Nava, a cui il 21 settembre del ’90 è cambiata la vita, o meglio, è cessata per come l’aveva conosciuta sin lì. Perché ha visto tutto dell’omicidio di Livatino e ha scelto di testimoniare, diventando il primo testimone – slegato quindi dalle dinamiche del reato – di giustizia contro la mafia. «Sulla statale 640, quella mattina, morimmo in due: il giudice e Pietro Nava. Quello fu l’ultimo giorno della mia vita di prima. Nel momento esatto in cui andai a denunciare quel che avevo visto, tutto cambiò per sempre», spiega Nava, al telefono, con la voce camuffata e parlando da un luogo sconosciuto per ragioni di sicurezza.

Da cittadino a “testimone a rischio”

Quelli di Livatino e di Nava sono destini incrociati. Si sono unite le loro storie laddove l’estate abbraccia l’autunno sulla superstrada Canicattì-Agrigento: quattro sicari affiancano la Ford Fiesta del giudice Rosario Livatino, la speronano e sparano al magistrato, uccidendolo, mentre tenta la fuga a piedi.

Il tutto avviene sotto gli occhi di Piero Nava, un agente di commercio lecchese in trasferta in Sicilia che non esita a contattare il 112 e a raccontare quanto accaduto, descrivendo i killer nei dettagli. Non lo sa ancora, ma quel gesto lo renderà il primo testimone civile di un omicidio di mafia e da quel momento la sua vita cambierà drasticamente. Mai nessuno, prima di lui, aveva osato testimoniare, da libero cittadino, contro la Stidda e in generale la mafia in Sicilia.

Piero Nava con la sua vita – costretta per anni alla clandestinità insieme alla sua famiglia, senza più nome ne casa, per via della sua testimonianza – diviene simbolo del dovere civico di denuncia del fenomeno mafioso e di lotta all’omertà. «All’epoca non esisteva ancora in Italia alcun programma di protezione per i testimoni a rischio. Per il mio gesto ho perso il lavoro e i miei affetti, non sono mai più tornato a Lecco e sono finito nel più assoluto isolamento, costretto a cambiare più volte residenza e ad emigrare all’estero», racconta Nava.

Dal buio alla luce

Nava però si è fatto scudo e forza con la sua famiglia: «In questi anni nessuno mi ha mai giudicato per la scelta che ho fatto di testimoniare. Ne i familiari più stretti ne i miei amici». Le foto della sua vita, racconta, sono state fatte sparire dalle forze dell’ordine per questioni di sicurezza. Il momento più difficile? «È stato quando sono arrivato al porto di Messina con la mia auto e non mi hanno fatto salire sui traghetti normali. Lì grazie a Sandro, il mio angelo custode nelle forze dell’ordine per anni, ho realizzato che non avrei più avuto la mia vita, quella che conoscevo. Accadeva 36 ore dopo l’omicidio di Livatino».

Dal buio alla luce: «Il momento più gratificante della mia vita è stata la visita al Papa quattro anni fa. Papa Francesco ha sottolineato il mio coraggio di testimoniare per la Giustizia». Ma questa esperienza Piero Nava non l’ha vissuta da solo, aveva due figli piccoli. Come avete spiegato ai ragazzi cosa stava succedendo? «Con semplicità. Abbiamo detto loro che avevo visto delle cose che non andavano e che avevo scelto di denunciare e che quindi avremmo dovuto fare una vita di versa. Il più grande aveva sette anni e mia figlia tre. Sono stati bravissimi. Abbiamo vissuto in nove posti diversi, cambiato identità e case. Non nego sia stata una sofferenza, anzi, quando mia glia si è sposata non sono potuto andare al matrimonio. La mia, purtroppo, è sempre una presenza ingombrante».

E lo Stato?

«Lo Stato ha fatto quello che poteva in una situazione nuova per le istituzioni e con esponenti delle forze dell’ordine che facevano anche loro la vita a cui ero costretto anch’io. È stata molto dura. Sono stato fermo dieci anni con il lavoro e per me il lavoro era una parte fondamentale della vita. Per sfogarmi lucidavo talmente il pavimento che i miei cani non riuscivano a stare in piedi. A 50 anni, ho ricominciato come se fossi un ragazzino di diciotto».

Lo Stato a quei tempi però non era pronto, c’erano i pentiti ma ancora nessun testimone di mafia. È con l’azione di Rosy Bindi, dal 2013 al 2018 presidente della commissione antimafia del Parlamento, e insieme a Piero Nava che si iniziano a creare delle normative specifiche per i testimoni, diverse da quelle dei collaboratori di giustizia.

Lo Stato fino a quel momento tutelava solo i collaboratori, mafiosi e vicini alla criminalità organizzata, ma non i cittadini. Una differenza sostanziale per una parità di trattamento. I collaboratori infatti sono persone che hanno fatto parte integrante delle organizzazioni mafiose e che si sono macchiate di reato. Con loro si fa un contratto per raccontare vicende e storie della criminalità organizzata in cambio di sconti di pena. I testimoni no, sono come Piero Nava, cittadini che hanno assistito al un omicidio o un reato di mafia senza esserne in alcuno modo legati.

Nava, da “cavia” per la giustizia a esempio per i giovani

«Piero fece “da cavia”, – ha detto recentemente Rosy Bindi presentando il libro che Nava ha scritto a trent’anni dall’inizio di questa sua nuova vita “Io sono nessuno” – collaborando in totale assenza di un quadro giuridico, collaborando con le forze dell’ordine. Lui è stato il primo a costituire la la figura del testimone di giustizia. Ed è il senso civico di quest’uomo che ci ha permesso tutelare queste figure e di cercare di inquadrarle in un ordinamento giuridico».

«Ai più giovani mi sento di dire di sconfiggere l’indifferenza. Non essere ignavi. L’ignavia ammazza tutti, lo Stato e anche me. Quindi non devono essere indifferenti rispetto alle ingiustizie che vedono», conclude Nava.

La lezione profonda che a tutti lascia la vicenda umana di Piero Nava è quella della ‘normalità’ del servizio alla giustizia e alla verità. Un’insegnamento che morendo ma soprattutto in vita, diede anche Livatino. L’antimafia deve andare in questa direzione, non quella della grande retorica degli eroi, ma in quella della normalizzazione del servire la giustizia. Come fece Nava.

Fonte: Vita, 19/03/2021

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