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Il pm e il suo boia

Daniele Mercadante * il . Giustizia, Istituzioni, Politica, Società

Perché separare le carriere non è un’idea su cui riflettere, è incostituzionale

Sul sito internet che promuove il referendum sulla “separazione delle carriere” si legge: «[c]i sono magistrati che lavorano anni per costruire castelli accusatori in qualità di PM e poi, d’un tratto, diventano giudici. Con un sì chiediamo la separazione delle carriere per garantire a tutti un giudice che sia veramente “terzo” e trasparenza nei ruoli. Il magistrato dovrà scegliere all’inizio della carriera la funzione giudicante o requirente, per poi mantenere quel ruolo durante tutta la vita professionale. Basta con le “porte girevoli”, basta con i conflitti di interesse che spesso hanno dato luogo a vere e proprie persecuzioni contro cittadini innocenti»[1].

Il quesito referendario propone l’abrogazione dell’art. 192, comma 6, dell’Ordinamento Giudiziario, limitatamente alle parole: «salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura», oltre all’abrogazione di diverse altre disposizioni, o parti di norme, relative a quattro ulteriori, diversi testi[2].

Atteso che il successo del quesito referendario lascerebbe immutato l’Ordinamento Giudiziario, eccettuato l’art. 192, c. 6, appena menzionato, l’eventuale abrogazione non inciderebbe sul perdurante vigore dell’art. 211 («Divieto di riammissione in magistratura»), del quale riporto il primo comma: «[i]l magistrato che ha cessato di far parte dell’ordine giudiziario in seguito a sua domanda, da qualsiasi motivo determinata, anche se ha assunto altri uffici dello Stato, non può essere riammesso in magistratura»[3].

Questo per quanto riguarda la “riammissione” in magistratura. Consideriamo adesso l’ammissione.

L’Art. 4 della Costituzione afferma che «[l]a Repubblica riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro».

L’art. 51 della Costituzione afferma che «[t]utti i cittadini dell’uno o dell’altro sesso possono accedere agli uffici pubblici […] in condizioni di eguaglianza, secondo i requisiti stabiliti dalla legge».

L’art. 54 della Costituzione afferma che «[i] cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche hanno il dovere di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge».

L’art. 97 della Costituzione afferma che «[a]gli impieghi nelle pubbliche amministrazioni si accede mediante concorso, salvo i casi stabiliti dalla legge».

L’art. 102 della Costituzione afferma che «[l]a funzione giurisdizionale è esercitata da magistrati ordinari istituiti e regolati dalle norme sull’ordinamento giudiziario».

L’art. 106 della Costituzione afferma che «le nomine dei magistrati hanno luogo per concorso»[4].

Il D. Lgs. n. 160/2006, all’art. 2, c. 2, prevede che «[s]ono ammessi al concorso [in magistratura] i candidati che soddisfino le seguenti condizioni: a) essere cittadino italiano; b) avere l’esercizio dei diritti civili; b-bis) essere di condotta incensurabile; b-ter) non essere stati dichiarati per tre volte non idonei nel concorso per esami di cui all’articolo 1, comma 1, alla  data di scadenza del termine per la presentazione della domanda; c) possedere gli altri requisiti richiesti dalle leggi vigenti» (ricordiamo che il testo originale dell’Ordinamento Giudiziario prevedeva, quali requisiti per l’accesso alla magistratura, l’appartenenza al sesso maschile, alla ‘razza italiana’ e al partito nazionale fascista).

Tutto sembra indicare, dunque, che il nostro attuale assetto costituzionale e legislativo abbia fatto proprio il principio consacrato nell’art. 6 della Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino francese del 1789: «[t]ous les citoyens étant égaux à ses yeux sont également admissibles à toutes dignités, places et emplois publics, selon leur capacité, et sans autre distinction que celle de leurs vertus et de leurs talents» («essendo tutti i cittadini uguali ai suoi occhi [quelli della legge], questi sono ugualmente suscettibili di venire ammessi a qualsiasi dignità, incarico ed impiego pubblici secondo le loro capacità, e senz’altra distinzione che quella delle loro virtù e dei loro talenti»).

Ciascun requisito attuale di ammissione alla magistratura trova dunque un fondamento costituzionale: l’appartenenza alla comunità da servire (l’essere citoyen, senza più distinzioni di sesso, razza o opinioni politiche), la virtù (il non essere stati privati dei diritti civili e l’essere di condotta incensurabile), il talento (l’avere conseguito i titoli di studio necessari alla partecipazione al concorso e l’avere prevalso sugli altri concorrenti nelle prove d’ammissione).

Quale sarebbe il possibile effetto dell’approvazione del quesito referendario su questo assetto normativo?

Qualora il quesito venisse sottoposto a referendum e venisse approvato, conseguendone la preclusione del passaggio dalla magistratura requirente a quella giudicante (in questa sede ci limiteremo a questo punto, senza dimenticare che il referendum, e si fatica ancora di più a comprenderne la ragione, precluderebbe anche il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti – forse si teme l’ingresso nei ruoli del pubblico ministero di chi abbia passato anni a “costruire, nel contraddittorio delle parti, castelli decisionali terzi e imparziali” -), l’accesso alla magistratura giudicante presupporrebbe i seguenti requisiti:

i.       L’appartenenza alla comunità (l’essere “cittadino”);
ii.      Il possesso della necessaria virtù (la disponibilità dei pieni diritti civili e una condotta incensurabile);
iii.     Il possesso dei necessari talenti (dimostrati dai titoli di studio e dal superamento delle prove);
iv.     Non essere, e non essere mai stato, un pubblico ministero.

A chi dovesse obiettare che il punto iv discende da un’interpretazione forzata e oltranzista del quesito, rispondo che oggi non vi è persona, in possesso della cittadinanza italiana e dei requisiti di virtù e talento che si sono specificati, alla quale sia precluso l’accesso alla magistratura giudicante. Se questa persona è già investita di una qualsiasi carica pubblica, può, senza abbandonare il suo eventuale, attuale impiego, partecipare al concorso e, una volta superato quest’ultimo, diventare giudice.

Non lo potrebbe fare un pubblico ministero (o un aspirante pubblico ministero): in sede concorsuale, dovrebbe scegliere per quale ruolo concorrere; se già in servizio, non potrebbe chiedere il mutamento di funzioni, ma non potrebbe neppure ripresentarsi al concorso per magistrato giudicante, né potrebbe dimettersi dalla magistratura requirente e sostenere nuovamente le prove (lo vieta l’art. 211, Ord. Giud.).

Gli articoli 3, 4, 52, 54, 97 e 106 della Costituzione però, e come abbiamo già avuto occasione di notare, appaiono prescrivere, come d’altronde parrebbe dettato da una logica alla portata dei più, che l’accesso alla magistratura (espressione nella quale il Titolo IV della seconda parte della Costituzione stessa ricomprende sia quella requirente che quella giudicante), come quello a qualsiasi altro impiego pubblico, sia aperto a tutti, e che i soli limiti ammissibili possano concernere le virtù, i talenti e (per quegli impieghi che abbiano a che fare con le funzioni “sovrane”) la cittadinanza.

Ogni altro limite non dettato da imperiose esigenze organizzative (valutate alla stregua dello “strict scrutiny”) si risolverebbe in una discriminazione “politica” (come l’originario requisito dell’appartenenza al sesso maschile, alla “razza italiana” e al partito nazionale fascista), e come tale, sospetta d’incostituzionalità.

Verifichiamo, dunque, se il criterio iv di accesso alla magistratura giudicante (non essere, e non essere mai stato, un pubblico ministero) possa essere considerato una specificazione dei primi tre, sottraendosi in tal modo alla censura[5].

La risposta è negativa: quanto al requisito della cittadinanza, questa è posseduta da tutti i pubblici ministeri (e, visto il clima generale, dovrebbe confortare pubblici ministeri e giudici il fatto che l’art. 22 della Costituzione stabilisca che «[n]essuno può essere privato, per motivi politici, della capacità giuridica, della cittadinanza, del nome»[6]); quanto ai talenti, questi sono per definizione posseduti da tutti i pubblici ministeri, i quali hanno superato le medesime prove concorsuali – all’esito dell’ottenimento degli stessi titoli abilitativi – dei magistrati giudicanti; quanto alla virtù, per quale motivo il pubblico ministero dovrebbe ritenersi talmente inadatto all’accesso alla magistratura giudicante da divenire l’unico laureato in legge italiano ad essere escluso dalla possibilità di concorrervi?

Eppure.

Eppure è esattamente questo il significato obbiettivo, non ambiguo, della normativa che scaturirebbe dall’affermazione referendaria del quesito (e, prima ancora, è questo il principio che si affermerebbe “costituzionalmente immaginabile” in conseguenza dalla sua ammissione): il pubblico ministero non possiederebbe la “virtù” necessaria a divenire magistrato giudicante (più precisamente, secondo la terminologia di cui all’art. 54, Cost., dovrebbe presumersi che non sarebbe in grado di esercitare con disciplina e onore le funzioni di magistrato giudicante).

Se anche ha avuto accesso alla magistratura, e dunque deve ritenersi in possesso dei pieni diritti civili e di condotta incensurabile, la presunzione della sua attitudine a giudicare “con disciplina e onore” verrebbe meno dopo anche un solo minuto secondo di esercizio delle funzioni requirenti, come nella “dottrina” del razzismo schiavista statunitense (secondo la quale una sola “goccia” di “sangue nero” rendeva “nera” la persona ad ogni effetto di legge[7]): un solo istante d’esercizio delle funzioni requirenti renderebbe il pubblico ministero indegno di esercitare una qualsiasi funzione giudicante, in quanto presuntivamente “indisciplinato” e “disonorevole” in misura tale che solo la sua esclusione permanente dall’accesso alla funzione giudicante proteggerebbe adeguatamente l’ordinamento.

Non solo.

Renderebbe il magistrato requirente indegno della responsabilità del giudicare per avere ricoperto una precedente carica pubblica, per avere esercitato un precedente impiego pubblico, e renderebbe indegno, per questo motivo, lui, e solo lui: è principio (fino ad oggi) indiscusso quello per il quale solo comportamenti di diretta rilevanza penale possano costituire cause d’indegnità (sintomatiche, insomma, di “mancanza di sufficiente virtù”, di sufficiente “disciplina” e di sufficiente “onore”), ostative all’ingresso in magistratura.

Ripetiamo: tutti i laureati in legge d’Italia[8] incensurati potranno aspirare a far parte della magistratura giudicante.

Tutti, tranne i pubblici ministeri.

Il quesito referendario introduce la prima presunzione d’indegnità per l’accesso alla magistratura giudicante, che non sia legata a condotte penalmente rilevanti, dai tempi del fascismo. La “colpa” dei nuovi “indegni” non sarà più quella d’essere donne, o appartenenti a “razze non italiane”, o refrattari all’iscrizione al partito nazionale fascista, ma quella d’essere nientemeno che (vi prego, fate uscire i bambini e le persone fragili) pubblici ministeri.

Per semplificare: un avvocato che, come è suo altissimo diritto (e in questo non vi è alcuna ironia, Eichmann doveva avere una difesa, il peggior terrorista deve avere una difesa, e chi lo difende rende il maggiore servizio all’ordinamento giuridico – come anche chi sostiene l’accusa, se, come il difensore, lo fa nel rispetto delle leggi e della Costituzione), abbia difeso nella sua carriera solo pedofili, o mafiosi, tutti successivamente condannati in via definitiva, può essere un buon giudicante; un lobbista, che nella sua carriera abbia rappresentato solo gli interessi di entità favorevoli ad una diminuzione drastica delle più elementari tutele apprestate alla sicurezza e alla salute pubblica può essere un buon giudicante; un politico, che abbia fondato il suo consenso sulla richiesta dell’abolizione del 416-bis, c.p., o che abbia ripetutamente proposto la depenalizzazione dell’omicidio volontario, può essere un buon giudicante.

Spingiamoci oltre, e tentiamo un esperimento mentale (puramente teorico, insuscettibile di verificarsi nella realtà): in un’Italia che rinnegasse alcuni tra i propri impegni internazionali più significativi, riformasse la Costituzione, reintroducesse la pena di morte, e ammettesse alla professione di esecutore delle pene capitali solo individui laureati brillantemente in legge, il “boia” potrebbe essere un buon giudicante.

Il pubblico ministero no.

Paolo Borsellino, se il cielo ci facesse l’immenso dono di restituircelo, no.

E’ il momento di restituire la parola alla Costituzione.

* Giudice del Tribunale di Pisa

Fonte: Questione Giustizia


Note

[1]https://www.referendumgiustiziagiusta.it/separazione-delle-carriere-dei-magistrati-sulla-base-della-distinzione-tra-funzioni-giudicanti-e-requirenti/

[2] Questo il quesito completo: «Volete voi che siano abrogati: l’“Ordinamento giudiziario” approvato con Regio Decreto 30 gennaio 1941, n. 12, risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 192, comma 6, limitatamente alle parole: “, salvo che per tale passaggio esista il parere favorevole del consiglio superiore della magistratura”; la Legge 4 gennaio 1963, n. 1 (Disposizioni per l’aumento degli organici della Magistratura e per le promozioni), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 18, comma 3: “La Commissione di scrutinio dichiara, per ciascun magistrato scrutinato, se è idoneo a funzioni direttive, se è idoneo alle funzioni giudicanti o alle requirenti o ad entrambe, ovvero alle une a preferenza delle altre”; il Decreto Legislativo 30 gennaio 2006, n. 26 (Istituzione della Scuola superiore della magistratura, nonché’ disposizioni in tema di tirocinio e formazione degli uditori giudiziari, aggiornamento professionale e formazione dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera b), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 23, comma 1, limitatamente alle parole: “nonché’ per il passaggio dalla funzione giudicante a quella requirente e viceversa”; il Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160 (Nuova disciplina dell’accesso in magistratura, nonché’ in materia di progressione economica e di funzioni dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera a), della legge 25 luglio 2005, n. 150), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad esso successivamente apportate, limitatamente alle seguenti parti: art. 11, comma 2, limitatamente alle parole: “riferita a periodi in cui il magistrato ha svolto funzioni giudicanti o requirenti”; art. 13, riguardo alla rubrica del medesimo, limitatamente alle parole: “e passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa”; art. 13, comma 1, limitatamente alle parole: “il passaggio dalle funzioni giudicanti a quelle requirenti,”; art. 13, comma 3: “3. Il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, non è consentito all’interno dello stesso distretto, né all’interno di altri distretti della stessa regione, ne’ con riferimento al capoluogo del distretto di corte di appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni. Il passaggio di cui al presente comma può essere richiesto dall’interessato, per non più di quattro volte nell’arco dell’intera carriera, dopo aver svolto almeno cinque anni di servizio continuativo nella funzione esercitata ed è disposto a seguito di procedura concorsuale, previa partecipazione ad un corso di qualificazione professionale, e subordinatamente ad un giudizio di idoneità allo svolgimento delle diverse funzioni, espresso dal Consiglio superiore della magistratura previo parere del consiglio giudiziario. Per tale giudizio di idoneità il consiglio giudiziario deve acquisire le osservazioni del presidente della corte di appello o del procuratore generale presso la medesima corte a seconda che il magistrato eserciti funzioni giudicanti o requirenti. Il presidente della corte di appello o il procuratore generale presso la stessa corte, oltre agli elementi forniti dal capo dell’ufficio, possono acquisire anche le osservazioni del presidente del consiglio dell’ordine degli avvocati e devono indicare gli elementi di fatto sulla base dei quali hanno espresso la valutazione di idoneità. Per il passaggio dalle funzioni giudicanti di legittimità alle funzioni requirenti di legittimità, e viceversa, le disposizioni del secondo e terzo periodo si applicano sostituendo al consiglio giudiziario il Consiglio direttivo della Corte di cassazione, nonché’ sostituendo al presidente della corte d’appello e al procuratore generale presso la medesima, rispettivamente, il primo presidente della Corte di cassazione e il procuratore generale presso la medesima.”; art. 13, comma 4: “4. Ferme restando tutte le procedure previste dal comma 3, il solo divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, all’interno dello stesso distretto, all’interno di altri distretti della stessa regione e con riferimento al capoluogo del distretto di corte d’appello determinato ai sensi dell’articolo 11 del codice di procedura penale in relazione al distretto nel quale il magistrato presta servizio all’atto del mutamento di funzioni, non si applica nel caso in cui il magistrato che chiede il passaggio a funzioni requirenti abbia svolto negli ultimi cinque anni funzioni esclusivamente civili o del lavoro ovvero nel caso in cui il magistrato chieda il passaggio da funzioni requirenti a funzioni giudicanti civili o del lavoro in un ufficio giudiziario diviso in sezioni, ove vi siano posti vacanti, in una sezione che tratti esclusivamente affari civili o del lavoro. Nel primo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura civile o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. Nel secondo caso il magistrato non può essere destinato, neppure in qualità di sostituto, a funzioni di natura penale o miste prima del successivo trasferimento o mutamento di funzioni. In tutti i predetti casi il tramutamento di funzioni può realizzarsi soltanto in un diverso circondario ed in una diversa provincia rispetto a quelli di provenienza. Il tramutamento di secondo grado può avvenire soltanto in un diverso distretto rispetto a quello di provenienza. La destinazione alle funzioni giudicanti civili o del lavoro del magistrato che abbia esercitato funzioni requirenti deve essere espressamente indicata nella vacanza pubblicata dal Consiglio superiore della magistratura e nel relativo provvedimento di trasferimento.”; art. 13, comma 5: “5. Per il passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti, e viceversa, l’anzianità di servizio è valutata unitamente alle attitudini specifiche desunte dalle valutazioni di professionalità periodiche.”; art. 13, comma 6: “6. Le limitazioni di cui al comma 3 non operano per il conferimento delle funzioni di legittimità di cui all’articolo 10, commi 15 e 16, nonché, limitatamente a quelle relative alla sede di destinazione, anche per le funzioni di legittimità di cui ai commi 6 e 14 dello stesso articolo 10, che comportino il mutamento da giudicante a requirente e viceversa.”; il Decreto-Legge 29 dicembre 2009 n. 193, convertito con modificazioni nella legge 22 febbraio 2010, n. 24 (Interventi urgenti in materia di funzionalità del sistema giudiziario), nel testo risultante dalle modificazioni e integrazioni ad essa successivamente apportate, limitatamente alla seguente parte: art. 3, comma 1, limitatamente alle parole: “Il trasferimento d’ufficio dei magistrati di cui al primo periodo del presente comma può essere disposto anche in deroga al divieto di passaggio da funzioni giudicanti a funzioni requirenti e viceversa, previsto dall’articolo 13, commi 3 e 4, del Decreto Legislativo 5 aprile 2006, n. 160.”?».

[3] I restanti commi prevedono un’eccezione per quei magistrati ordinari che siano poi approdati alle “magistrature speciali”.

[4] Con talune eccezioni, previste ai successivi commi dell’articolo, che ai fini delle tesi qui sostenute non appaiono rilevanti.

[5] Che il criterio iv, se considerato come “misura organizzativa”, non possa superare un giudizio condotto alla stregua dello “strict scrutiny” è talmente ovvio che non appare il caso di annoiare, sul punto, il lettore addetto ai lavori.

[6] L’estensore di questo articoletto si rende ben conto che l’art. 22, Cost., è una delle risposte costituzionali più dirette alle leggi razziali (le stesse a seguito delle quali si è pensato bene di “epurare” la magistratura dai non appartenenti alla “razza italiana”). Se viene evocato questo “terribile articolo” è perché il suo modesto autore ritiene, con Thomas Jefferson, che «the price of liberty is eternal vigilance» (il prezzo della libertà sia l’eterna vigilanza).

[7] In lingua inglese, la “one-drop rule”, la “regola di una sola goccia”.

[8] Quando sarà ripristinata, come la proposta di riforma dell’Ordinamento Giudiziario elaborata dalla Commissione Luciani preconizza, l’apertura del concorso ad ognuno di loro, senza la necessità di ulteriori titoli o esperienze.

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