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Quando lo “straniero” è l’italiano

Giacomo Carpinteri il . Giovani, Internazionale, L'analisi

erasmusÈ ormai passato più di un mese dall’inizio delle restrizioni, del cosiddetto “distanziamento sociale”, in Polonia.

Attualmente il governo, guidato dal partito di destra “Diritto e giustizia”, è intenzionato ad avviare le procedure per la graduale riapertura; questa accelerazione sarebbe legata, secondo le opposizioni, a non rinviare le elezioni del presidente della Repubblica, per le quali il candidato del partito gode di molto appoggio nel popolo.

Come già anticipato dal titolo, l’oggetto di questa riflessione non è la condizione politica dello stato polacco bensì la situazione in cui sono venuto a trovarmi in quanto italiano, situazione che ho riscontrato anche nelle esperienze di altri amici che si trovano all’estero.

È necessario fare una breve introduzione: io, e gli amici che ho saputo avere esperienze simili, mi trovo in Erasmus, l’ormai famosissimo programma dell’Unione Europea che, tra le varie possibilità, permette di svolgere un periodo della propria carriera universitaria all’estero, vedendo riconosciute le materie svolte all’estero nel proprio programma di studi.

Partendo per il secondo semestre, sono arrivato in Polonia l’11 febbraio, periodo in cui di Coronavirus se ne parlava, ma senza percepire o immaginare l’impatto che avrebbe avuto nelle nostre vite nel giro di appena un mese.

In quel primo mese di esperienza all’estero, mi sono reso conto che l’atteggiamento dei polacchi, ma anche di altri studenti Erasmus, andava cambiando con l’evolversi, e quindi con la maggiore esposizione mediatica, della situazione italiana.

Col passare del tempo l’essere italiani stava diventando uno stigma, qualcosa per cui essere guardati male e tenuti lontani. Non appena la situazione è diventata ancora più grave in Italia l’aria è diventata sempre più pesante: colleghi polacchi che si tenevano lontani dagli italiani, professori che chiedevano il proprio stato di salute, il fatto che un colpo di tosse bastasse per sentirsi dire che fosse meglio stare a casa, senza rendersi conto che fossimo in Polonia già da abbastanza tempo da rendere altamente improbabile, un nostro contagio.

A questa situazione si è aggiunta, personalmente, la pesantezza dell’essere in un paese dove non riesco a capire granché di ciò che leggo o che mi viene detto, in un contesto dove i polacchi tendono a urlarti dopo aver detto loro di non sapere polacco.

Questo mi ha riportato alla mente un’esperienza che Sottosopra Catania, la sezione catanese del movimento giovanile di Save the Children, mi aveva fatto provare in un loro centro: Civico 0. In quel caso gli operatori ci parlavano nelle loro lingue di provenienza, non facendoci capire quasi niente. Il tutto in un contesto tranquillo e sorridente. “Bene” ci dissero, “Immaginate a vivere la stessa cosa dopo essere sopravvissuti a un viaggio infernale, con stavolta poliziotti che ti urlano arrabbiati in italiano”.

Ecco, tutto ciò mi ha portato in mente questo e sono grato di aver provato quest’esperienza sulla mia pelle perché ho provato cosa voglia dire essere discriminati, sulla base della nazionalità nel caso specifico.

Ovviamente non paragono minimamente la situazione, non potendomi avvicinare minimamente alle sofferenze dell’ultimo esempio.

Semplicemente, ho vissuto una situazione in cui io avevo delle “differenze” che venivano notate e, talvolta, fatte pesare. E quest’esperienza mi ricorderà, più di prima, che è fondamentale riconoscere i diritti e combattere, senza se e senza ma, coloro che tentano di categorizzare le persone per poi emarginarle.

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