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Caso Alpi-Hrovatin: l’omicidio di Hashi Omar Assan e una lunga scia di sangue

Mariangela Gritta Grainer il . Caso Alpi-Hrovatin, Criminalità, Giustizia, Informazione, Memoria

L’undici luglio 2010 moriva Giorgio Alpi, il papà di Ilaria: dodici anni fa.

Il 12 giugno 2018 moriva anche Luciana, la mamma di Ilaria: quattro anni fa.

Avevo pensato di ricordarvi insieme cari Giorgio e Luciana da questo anno 2022. Non avrei immaginato di dovervi dare la notizia della morte di Hashi che avete sempre considerato in carcere innocente. In questi giorni vi ho pensato con intensità e con affetto immenso.

Sento sempre la vostra “lontananza” e ieri ho sentito più di ogni altro momento la vostra mancanza.

Ho ripercorso col pensiero tutta la storia di Hashi prima e dopo il suo arresto il 12 gennaio 1998.

Abbiamo sostenuto, da subito, che si trattava di un vero e proprio capro espiatorio e, in tutti i modi, abbiamo cercato di far conoscere come sia potuto succedere che un cittadino innocente potesse essere incarcerato, al suo arrivo in Italia, processato con sentenze diverse: innocente e scarcerato, colpevole e condannato all’ergastolo, trasformato in 26 anni di carcere dopo la Cassazione. Lo ipotizzammo già nel libro “L’Esecuzione” (Giorgio e Luciana Alpi Mariangela Gritta Grainer Maurizio Torrealta – Kaos edizioni) uscito nel gennaio 1999. Accompagnò, in tutte le udienze del primo processo, il pm Franco Ionta che aprì la sua requisitoria proprio raccontando la figura del “capro espiatorio”, la sua origine e il suo significato sostenendo che Hashi non era un capro espiatorio ma un colpevole.

Dei 26 anni di carcere Hashi ne ha scontati quasi diciassette: il tribunale di Perugia lo dichiara innocente con scarcerazione immediata nel dicembre 2016. Nelle motivazioni della sentenza sta anche scritto che l’unico testimone d’accusa era falso: Hashi è stato un vero capro espiatorio costruito con un depistaggio di grande portata.

Insieme cari Giorgio e Luciana, con il lavoro prezioso dell’avvocato Domenico Damati e dell’avv. Giulio Vasaturo che negli ultimi anni accompagna la FNSI che si è costituita parte civile, abbiamo ricostruito tutti i passaggi riguardanti i sei mesi che conducono all’arresto di Hashi fino alla sua condanna definitiva a 26 anni di carcere e alla sua scarcerazione, con l’impegno decisivo di Chiara Cazzaniga, giornalista di “Chi l’ha visto?” che ha rintracciato Jelle e lo ha interrogato in video.

Con voi accanto provo a raccontare, in sintesi, perché è importante l’estate 1997; per spiegare come si sviluppa un depistaggio di grande portata che non è l’unico iniziato nelle prime ore successive all’agguato mortale, come verrà più tardi riconosciuto dalle motivazioni della sentenza del tribunale di Perugia.

Giuseppe Pititto (affiancato al dottor De Gasperis nel marzo 1996 dal procuratore Michele Coiro) dà impulso all’inchiesta che, nel luglio del 1997, il procuratore Salvatore Vecchione avoca a sé affiancato dal dottor Franco Ionta: tutto mentre stanno arrivando testimoni chiave (autista e uomo di scorta di Ilaria quel 20 marzo) che il dottor Pititto non potrà interrogare.

Negli stessi giorni si sviluppa un grande caos mediatico relativo alle presunte violenze subite da cittadini e cittadine somale da parte di militari italiani in Somalia per la missione internazionale “Restore Hope”. Se ne occupa una commissione governativa presieduta da Ettore Gallo, esimio presidente della Corte Costituzionale. Spunta anche un fantomatico memoriale del maresciallo dei carabinieri Francesco Aloi: sarà preso in custodia dalla Procura Militare.

Contemporaneamente a Mogadiscio, con l’impegno singolare dell’ambasciatore Giuseppe Cassini, spunta un nuovo testimone oculare: Ahmed Ali Rage detto Gelle, l’accusatore di Hashi Omar Hassan.

E così luglio agosto 1997 diventano due mesi cruciali per preparare quello che anche la sentenza del primo processo nei confronti di Hashi Omar Assan definirà la costruzione di un capro espiatorio.

La Procura di Roma opera con grande velocità: il 6 di agosto il procuratore capo Salvatore Vecchione “ascolta” l’ambasciatore Giuseppe Cassini che viene autorizzato a condurre in Italia il testimone importante.

Ahmed Ali Rage, detto Jelle, giunge in Italia all’inizio di ottobre. Il 9 e il 10 è interrogato prima dalla polizia (dal dottor Lamberto Giannini insieme ad altri) e poi dal magistrato dottor Franco Ionta. Fa il nome di un componente del commando assassino Hashi Omar Assan, un racconto molto impreciso dell’agguato del 20 marzo 1994 (per esempio dice che Ilaria stava davanti a fianco dell’autista!), sostiene che nessuno si è avvicinato alla macchina e che hanno sparato da lontano. Un testimone “utile” che indica un capro espiatorio e, cosa importante, conferma la versione della casualità.

Testimone “utile” e falso. Gli interrogatori non sono registrati; in ogni caso sono spariti come il testimone stesso che si rende irreperibile prima dell’arrivo a Roma di dieci cittadini somali il 12 gennaio 1998 fatti arrivare dalla commissione Gallo.

Ci sono due somali non previsti: Ali Mohamed Abdi, l’autista di Ilaria e Hashi Omar Hassan che viene arrestato appena sbarcato all’aeroporto di Ciampino con l’accusa del duplice omicidio indicato dal Jelle e già irreperibile: una fuga clamorosa e improbabile per un testimone chiave sotto protezione che ogni giorno viene accompagnato dalla polizia presso l’azienda “Scomparin” dove lavora.

Non lo si è più cercato nemmeno quando, dopo la condanna definitiva di Hashi, si farà vivo più volte raccontando all’avvocato Duale di essere stato indotto ad accusare Hashi da autorità italiane: aveva raccontato il falso.

Ad accusare Hashi però c’è un testimone di riserva Ali Abdi, autista di Ilaria. Solo dopo un lunghissimo interrogatorio (e dopo che sarà informato che l’ambasciatore Cassini conferma de-relato, al posto di Jelle, l’accusa nei confronti di Hashi) riconoscerà in Hashi un componente del commando. Sosterrà anche lui che nessuno si è avvicinato alla macchina; confermerà di essere stato in possesso di una pistola e di aver sparato uno o due colpi (vera solo quest’ultima dichiarazione rilasciata alla commissione bicamerale gennaio 1996 a Mogadiscio).

“… Il viaggio di Abdi in Italia non era giustificato, dal momento che egli era estraneo alle violenze sui somali: sembra perciò fatto apposta per creare una situazione di contatto tra Abdi e Hashi …. Non sembra infatti dubitabile che Abdi sia stato fatto partire per l’Italia al solo fine di effettuare il riconoscimento di Hashi….” (dalla sentenza della prima corte 20 luglio 1999).

Hashi in carcere e, forse come contropartita, in tutte le sentenze troviamo scritto in vario modo che:

1) si è trattato di un duplice omicidio volontario premeditato, accuratamente organizzato con largo impiego di uomini …ed eseguito con freddezza, ferocia, professionalità omicida;

2) i motivi a delinquere dei mandanti ed esecutori sono stati, come dimostrato, di natura ignobile e criminale, essendo stato il duplice omicidio perpetrato al fine di occultare attività illecite;…” (è scritto nella sentenza del novembre 2000 di condanna di Hashi; il carattere in grassetto è ndr)).

Cari Giorgio e Luciana avevamo capito e voi siete stati indomabili e decisivi per arrivare a scagionare Hashi insieme e poi Luciana da sola.

Conoscere consente di collocare l’assassinio di Hashi dentro una “lunghissima scia delle persone che hanno avuto a che fare con la tragica storia di Ilaria e Miran. Che sono morte in circostanze non sempre limpide”.

Viene in mente subito Ali Mohamed Abdi, testimone d’accusa di Hashi, morto, avvelenato o per una overdose, appena fatto rientrare a Mogadiscio dopo la condanna definitiva di HashiMa la lista è lunga, ecco qualche altro nome.

Carlo Mavroleon, operatore della ABC che girò le preziose immagini nell’immediatezza dell’attentato, ucciso in Afghanistan per una rapina in hotel nel 1997.

Vittorio Lenzi della Tv Svizzera, intervistò alcuni testimoni subito dopo l’agguato e filmò Gabriella Simoni e Giovanni Porzio mentre sono nelle stanze di Ilaria e Miran per l’inventario dei bagagli: morto in un dubbio incidente stradale.

Starlin Harush, Presidente delle donne somale e amica di Ilaria, in un’altra rapina; a casa sua Ali Mohamed Abdi andò per lasciare il pick up sul quale Ilaria e Miran erano stati appena uccisi.

Ali Jiro Shermarke, responsabile della polizia somala nei giorni dell’agguato, morto in circostanze sconosciute, siglò un documento (confermando il contenuto al dottor Giuseppe Pititto che lo interrogò) in cui indicava Giancarlo Marocchino come possibile responsabile del duplice omicidio.

Vincenzo Li Causi, maresciallo del SISMI, il 12 novembre 1993, a Balad viene ucciso in un agguato in circostanze misteriose. Si è parlato di “fuoco amico”, anche per lui non sarà eseguita autopsia; si conoscevano con Ilaria che aveva lasciato la Somalia da pochi giorni: era la sua sesta volta. Li Causi doveva rientrare a Trapani un paio di giorni dopo per testimoniare al processo su Gladio, la struttura “segreta” dell’intelligence militare da lui diretta e presente a Trapani nei giorni dell’assassinio di Mauro Rostagno (non si sa tutta la verità di questo delitto; una sentenza nel 2018 ha sancito che si è trattato di un delitto di mafia).

Natale De Grazia capitano di vascello, figura chiave del pool investigativo di Reggio Calabria che indagava sulle navi dei veleni. Fu lui a trovare copia di un documento e/o del certificato di morte di Ilaria nella perquisizione a casa di Giorgio Comerio (a detta degli inquirenti noto trafficante di armi e coinvolto in traffici per smaltire illecitamente rifiuti tossici).

Il 13 dicembre 1995 De Grazia muore in circostanze misteriose che saranno chiarite solo nel 2013 quando la commissione d’inchiesta sulle ecomafie, riesumata la salma, confermerà che si trattò di avvelenamento.

Il Colonnello AWES, capo della sicurezza dell’albergo Hamana, nei pressi del quale avviene l’agguato mortale, risulta deceduto: le testimonianze e le indagini non sono esaurienti neanche per questo teste, forse l’ultimo che ha visto Ilaria e Miran vivi e parlato con Ilaria. (Commissione bicamerale 30, 31 gennaio 1996 a Mogadiscio).

Questa morte di Hashi ci addolora profondamente; deve scuotere le autorità che hanno il compito di arrivare a giustizia e verità su chi ha ucciso Ilaria e Miran, esecutori e mandanti.  Ora hanno il dovere di impegnarsi anche per Hashi che è stato due volte vittima nel nostro Paese.

Ci sono persone, anche con ruoli istituzionali oggi più importanti di allora, che conoscono bene tutte le inchieste compresa la parte che porta all’arresto e a tutta la storia di Hashi Omar Hassan.

Caro Giorgio e cara Luciana vogliamo anche evidenziare, insieme a voi, persone che “sanno, conoscono” se non tutta la storia sicuramente frammenti che possono comporre un puzzle intero e arrivare agli esecutori e ai mandanti. Ogni volta chiediamo loro di non essere indifferenti ma partigiani della verità e della giustizia. Raccontare.

Prendere esempio dal dottor Armando Rossitto, il medico che stilò sulla nave Garibaldi il certificato di morte di Ilaria sparito subito e che potrete avere solo nel 2004. Venticinque anni dopo quel tragico 20 marzo 1994 il dottor Rossitto, commosso, ha letto, videointervistato, la pagina del suo diario personale di quel giorno che conferma quanto scritto nel certificato di morte: due colpi in testa uno per Ilaria e uno per Miran.

Abbiamo proseguito in questi anni il vostro lavoro: più difficile senza di voi. Un lavoro che consente di constatare quanto è successo quella domenica di primavera a Mogadiscio quanto è successo prima e anche dopo; il perché, forse anche da chi era composto il comando assassino e credibili ipotesi su chi ha ordinato l’esecuzione e chi ha coperto esecutori e mandanti. La sentenza di Perugia ha confermato quelle che potevano essere considerate solo ipotesi. C’è stato depistaggio, anzi depistaggi iniziati fin dai primi giorni dopo l’agguato. Pensiamo che solo un atto giudiziario può stabilire, “al di là di ogni ragionevole dubbio”, chi li ha ideati organizzati e chi ne è stato coinvolto.

Con voi cari Giorgio e Luciana possiamo continuare a ripercorrere tutta la storia e mettere in fila nomi fatti responsabilità piccole e grandi. E magari chiedere di incontrare queste persone.

Ricordiamo le tue parole, Luciana, dopo aver abbracciato Hashi a Perugia subito dopo la sentenza che lo liberava: “Sono molto contenta per HashiOrmai sono però convinta che sulla morte di mia figlia e di Miran Hrovatin non è stato fatto nulla a livello di indagine: sul caso si sono alternati negli anni ben cinque magistrati e tre procuratori. Eppure, nessuno è riuscito a porre fine alle troppe bugie, ai troppi depistaggi che hanno caratterizzato questa vicenda. … ho l’impressione che gli inquirenti non siano mai stati interessati a scoprire la verità. Jelle, ad esempio, non è mai entrato in un’aula di giustizia e questa cosa la trovo veramente vergognosa”.

Ricordiamo, cara Luciana, che Jelle è stato assolto in contumacia dall’accusa di calunnia nei confronti di Hashi con sentenza pubblicata il 7 gennaio 2013: “… per tutte le spiegate ragioni appare evidente l’ impossibilità di pervenire a un giudizio di colpevolezza di Ahmed Ali Rage; non essendo emersi elementi probanti, al di là di ogni ragionevole dubbio, che l’imputato abbia voluto scientemente incolpare falsamente Hashi Omar Hassan di aver partecipato al gruppo materiale  degli  esecutori del duplice omicidio, consumato in Mogadiscio il 20 marzo 1994 ai danni di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin e visto l’art.530 del cpp ASSOLVE Ahmed Ali Rage detto Jelle dal reato ascrittogli, perché il fatto non sussiste.”

Il procedimento si è svolto presso il tribunale penale di Roma con tre magistrati e l’intervento della dottoressa Elisabetta Ceniccola, titolare dell’inchiesta sulla morte di Ilaria e Miran; presenterà due richieste di archiviazione nel 2017 e nel 2019, dopo la prima formulata dal dottor Franco Ionta nel 2007. Tutte respinte.

È il tempo di parlare per chi sa e non lo ha ancora fatto, è tempo che la magistratura indaghi per scoprire chi ha pensato progettato e organizzato i depistaggi e fare giustizia per Ilaria Miran e le loro famiglie, per Hashi Omar Hassan, per tutto il Paese. È il tempo per la verità e per la giustizia.

“…Mi chiamo come non si sarebbe immaginato, come il rischio che ho corso, mi chiamo per non smettere mai di chiamarvi, voi che siete vittime e imputati allo stesso tempo, voi che in me siete per sempre coinvolti.

Vi conosco tutti, uno per uno, conosco i vostri volti, ogni dettaglio lo ricostruisco, ho un’infinita pazienza e il tempo mio si chiama “sempre” ed è adesso che si svolge e vi travolge, con grande indulgenza.

Le cose non sono mai quello che sembrano. Ricordate, ricordatemi.

Mi chiamo Ilaria Alpi, sono morta il 20 marzo 1994. 

(da “Io la verità parlo” di Aldo Nove   1994-2014)

Fonte: Articolo 21

Il disegno è di Mauro Biani

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