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La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero

Giovanni Melillo * il . Giustizia, Istituzioni, Società

Con il contributo odierno, gentilmente offerto da Giovanni Melillo, prosegue il percorso di riflessioni avviato dalla rivista Giustizia Insieme in ordine alle forme di comunicazione della giustizia attraverso l’Editoriale, l’intervento di Giovanni Canzio sul linguaggio giudiziario e la comunicazione istituzionale e l’intervista a Rosaria Capacchione

Di assoluta e stringente attualità è senza dubbio la relazione esistente tra la giustizia penale e l’informazione e, in questo ambito, appare ineludibile una compiuta elaborazione circa le modalità di comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero. In particolare, si avverte il pericolo di un interesse massimo della collettività nella fase delle indagini preliminari, interesse che appare scemare progressivamente nel corso dello sviluppo processuale.

Occorre, dunque, declinare la comunicazione pubblica della fase investigativa con particolare riguardo al delicato rapporto – e al conseguente bilanciamento – tra il segreto istruttorio e il diritto all’informazione, da contemperare naturalmente con le garanzie poste a tutela delle persone sottoposte ad indagine, seguendo scrupolosamente, con equilibrio e misura, quanto indicato dal C.S.M. nelle Linee Guida, approvate con delibera dell’11 luglio 2018, le quali dettano una disciplina uniforme che trae spunto anche da molteplici documenti elaborati in sede sovranazionale, attese le scarne previsioni legislative nazionali.

Allo stato tre appaiono i temi maggiormente meritevoli di considerazione con i quali gli uffici di procura dovranno certamente, o almeno auspicabilmente, confrontarsi e sui quali vi è necessità di un’attenta meditazione.

In primis, occorre mettere in rilievo la giurisprudenza della Corte E.D.U. che, anche di recente, con sentenza dell’1 aprile 2021, Sedletska v. Ucraina, ha ribadito il diritto del giornalista a beneficiare della protezione della confidenzialità delle proprie fonti.

In secondo luogo, risulta particolarmente interessante osservare gli sviluppi della direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali, al cui recepimento l’Italia ha provveduto solo con la legge di delegazione europea 2019-2020 (legge n. 53 del 22 aprile 2021, in vigore dall’8 maggio 2021).

Infine, un nuovo terreno comunicativo investe gli uffici di procura: la rendicontazione sociale attraverso lo strumento del bilancio di responsabilità sociale. Tale strumento di  “accountability” consente di portare all’esterno l’organizzazione dell’ufficio e le attività svolte, anche con riferimento ai risultati conseguiti e alle spese sostenute, e, lungi dall’assumere una visione aziendalistica – prospettiva assolutamente incompatibile con l’essenza della funzione giurisdizionale – può inverare un momento di trasparenza del lavoro degli uffici inquirenti a beneficio del popolo in nome del quale si amministra giustizia, anche per contribuire a recuperare la fiducia nell’istituzione in parte perduta.

Donatella Palumbo

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La comunicazione dell’ufficio del pubblico ministero

Sommario: 1. Relazioni fra giustizia penale e informazione. Inquadramento generale – 2. La comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari – 2.1. La disciplina nazionale – 2.2. La giurisprudenza della Corte E.D.U. e le altre fonti internazionali – 3. Le Linee Guida del Consiglio Superiore della Magistratura – 4. Rapporto tra segreto d’indagine e diritto all’informazione – 5. La tutela della riservatezza – 6. Conclusioni. Il bilancio di responsabilità sociale.

1. Relazioni fra giustizia penale e informazione. Inquadramento generale

La complessità della trama concettuale delle relazioni fra giustizia penale e informazione, ampiamente visibile già nei riflessi delle numerose norme costituzionali di imprescindibile riferimento (artt. 21, 24, 97, 101, 111 Cost.), non potrebbe considerarsi appieno senza riconoscere la sua prima, fondamentale connotazione patologica, propria essenzialmente della realtà italiana: il controllo sociale sulla giurisdizione, reso possibile dal dispiegarsi della libertà di informazione, è inversamente proporzionale allo sviluppo del processo, in quanto massimo durante la fase delle indagini preliminari, che dovrebbero avere una funzione preparatoria del processo, di regola, invece, assai attenuato nella successiva fase delle verifica in contraddittorio della fondatezza dell’accusa formulata all’esito delle investigazioni preliminari.

Naturalmente, le cause di tale fenomeno sono complesse, sia sul versante della disciplina processuale che della fenomenologia dell’informazione, ma conviene additarlo subito come uno dei principali fattori di distorsione e di ostacolo al bilanciamento fra libertà di informare e diritto di essere informati, da un lato, e gli altri valori costituzionali, poiché, con evidenza, un irragionevole distanziamento temporale della conoscenza e del clamore delle indagini preliminari dall’esito del processo acuisce enormemente i costi sociali ed individuali del corto circuito insito in un rapporto di proporzionalità inversa fra tempo del procedimento e pressione mediatica, che nello stesso modo contribuisce a determinare l’accumularsi e l’acutizzarsi delle tensioni polemiche e istituzionali attorno al ruolo del pubblico ministero e all’incedere delle investigazioni.

Spetta ad autorevoli processualisti[1] il merito di aver descritto limpidamente i rischi dell’affiancamento al processo ordinario del processo mediatico, per l’assoluta diversità dei rispettivi caratteri e codici narrativi, fornendo alcune essenziali chiavi di accesso alla comprensione del reale valore deontologico dei comportamenti dei soggetti del processo nel rapporto con l’informazione e, per tale via, dell’intensità del rischio di deragliamento della sorte reale delle garanzie e degli stessi ruoli processuali collegato all’ingresso sulla scena mediatica di fattori obiettivamente distorsivi, poiché funzionali al rischio di condizionamento della percezione di accadimenti ancora da sottoporre alla valutazione del giudice.

Nel contempo, conviene ricordare che si deve ad un giornalista[2] l’aver posto anche il problema della “ecologia” della professione giornalistica: non solo quando essa pretende di avere il diritto-dovere di pubblicare “qualunque notizia giunga nel proprio ambito di percezione, a prescindere da qualunque altra valutazione sulle conseguenze della pubblicazione sulle persone e sui relativi procedimenti”, ma anche quando, “coi mille trucchi dell’omissione chirurgica, del sapiente sottointeso, dell’ingigantimento di circostanze prive di rilievo ed il nascondimento di cose serie, rinuncia alla verità per le tante ragioni, dal piccolo cabotaggio della concorrenza fra testate e giornalisti alle campagne orchestrate per ragioni commerciali o di lotta politica”.

Accanto ad una dimensione patologica, vi è però anche un valore sociale ed istituzionale della relazione fra giustizia ed informazione che sarebbe oltremodo sbagliato trascurare, anche e soprattutto con riferimento all’organizzazione degli uffici del pubblico ministero, poiché attiene alla necessità di non oscurare agli occhi del cittadino l’esercizio della giurisdizione, aprendo alla conoscenza della sua struttura e del suo funzionamento. Ciò apre la porta verso aree problematiche tanto importanti quanto sovente oscurate, che chiamano in causa innanzitutto la trasparenza delle logiche che presiedono al funzionamento degli uffici giudiziari, sovente considerate ius repositum in penetralibus pontificum, anziché snodi fondamentali del rapporto con la collettività e le altre istituzioni democratiche[3]. Ma sul punto converrà ritornare in seguito, essendo preminente l’urgenza di considerare il versante delle prassi della comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari.

2. La comunicazione pubblica nella fase delle indagini preliminari

In astratto, la materia si presta ad agevole definizione. Potrebbe semplicemente dirsi che la comunicazione deve essere deontologicamente impeccabile ed insieme efficace nel restituire il senso dell’iniziativa giudiziaria di volta in volta in rilievo. Ma non faremmo grandi passi in avanti, perché, come è stato sottolineato, la realtà ha mostrato e mostra ancora molti esempi di comunicazione efficacissima, ma sicuramente scorretta, perché lesiva delle ragioni di altri e talvolta anche della verità, così come esempi di segno opposto, nei quali una comunicazione correttissima risulta priva di qualsiasi interesse per i media[4].

Si tratta allora di trovare la formula quasi alchemica, in grado di assicurare il perfetto equilibrio fra efficacia e correttezza della informazione, ciò che per un giurista, e a maggior ragione per un magistrato come tale soggetto solo alla legge, vuol dire una comunicazione efficace nei limiti nei quali può rendersi rispettando le regole, non solo prettamente processuali, ma anche della cultura e della deontologia del processo penale di una società liberale.

Naturalmente, anche così dicendo, i nodi problematici che abbiamo di fronte sono ben lungi dall’essere avviati a scioglimento, collocandosi in una dimensione delle prassi scarsamente attinta dalla legge ed anzi resi ancor più intricati da aporie, contraddizioni, incertezze ed anche ipocrisie normative.

Collocandosi sul terreno delle prassi investigative, in talune circostanze, la consapevolezza della delicatezza degli interessi in gioco dovrebbe spingere a serbare il silenzio assoluto, che, tuttavia, può risultare impraticabile, perché incompatibile con la libertà di stampa e il diritto dei cittadini di essere informati.

Anche per questo appare senz’altro necessario accogliere l’invito[5] a metter da parte l’idea di poter fungere da disciplinati seguaci del settecentesco abate Dinoaurt, autore del famoso libretto L’Arte del silenzio.

Al di là del valore pedagogico e filosofico di molte delle acute riflessioni di quell’elegante intelletto ecclesiastico, infatti, è bene subito fissare che, ai nostri fini, riserbo e correttezza sono concetti diversi e talvolta contrastanti con quello di silenzio, che esprime piuttosto una pretesa – un po’ altezzosa, un po’ comodamente difensiva ed un po’ ipocritamente ispirata a visioni sacerdotali del lavoro giudiziario incompatibili con le moderne democrazie – di tenere lontana dal magistrato la responsabilità per la comunicazione pubblica.

Una comunicazione ben regolata e, così, ancorata a principi di equilibrio, sobrietà e prudenza è possibile ed appare anzi necessaria. Anche per recuperare la fiducia in parte perduta dei cittadini nell’amministrazione della giustizia.[6]

Naturalmente, tutto si fa più difficile nell’era della connessione globale del web e del diffondersi incontrollabile di campagne di disinformazione su vasta scala[7], ma anche i pericoli e le minacce proprie di questa fase dello sviluppo tecnologico contribuiscono a rendere ancor più evidente ed urgente la necessità di disporre di criteri di orientamento delle prassi della comunicazione maggiormente capaci di misurarsi con la complessità e la delicatezza dei valori e degli interessi complessivamente in gioco.

Se, dunque, non possiamo limitarci al silenzio, per progredire nella ricerca di un sempre incerto, ma più avanzato equilibrio, occorre piuttosto considerare il monito insito nel paradosso plotiniano del millepiedi, costretto, come noto, per evitare di inciampare, a non interrogarsi sull’ordine del movimento delle proprie zampe.

Il ricordo della paradossale condizione del povero artropodo dalle troppe zampe e dalle troppo povere capacità elettive può aiutare a dimostrare che non è conveniente muoversi senza disporre di un preciso orientamento metodologico e di strumenti di indirizzo delle prassi degli uffici giudiziari.

2.1. La disciplina nazionale

L’esperienza dimostra che può non bastare esser consci delle difficoltà e persino operare con correttezza e rigore. Vi è bisogno di regole e di procedure, per quanto sia evidente che anch’esse possono essere travolte nello scontro con la realtà. Se la comunicazione è un campo di battaglia, quella relativa alla giustizia è fra i terreni di scontro più frequenti ed insidiosi. Dunque, occorre convenire che, effettivamente, se l’indagine e il processo toccano interessi e centri di potere politici, economici, criminali, sarà oltremodo agevole constatare che, anche toccandosi l’apice della correttezza della comunicazione, sarà ben difficile evitare attriti, reazioni, polemiche, conflitti.

Non di meno, resta intatto il bisogno di custodire quotidianamente valori e regole di condotta fondamentali per la trasparenza e l’imparzialità dell’agire giudiziario.

Certamente, vengono in primaria considerazione i canoni normativi essenziali per la tenuta del principio di legalità processuale nella fase delle indagini e per l’effettività del relativo ruolo di garanzia proprio anche del pubblico ministero, ma la ricerca di solidi ancoraggi normativi non è destinata ad offrire approdi confortanti se si sposta dal terreno della deontologia a quello dell’organizzazione degli uffici e dell’orientamento delle prassi.

Come noto, il dato legislativo (art. 5 del d.lgs. 106/2006)[8] è assai laconico e si limita ad attribuire al capo dell’ufficio requirente la esclusiva responsabilità della comunicazione. Rivelando una discreta dose di rassegnata indifferenza ovvero di ipocrisia, nulla dice sul quomodo. Né, a ben vedere, molto aggiunge la previsione del d.lgs. 109/2006, la quale, prevedendo il rilievo disciplinare di una serie di comportamenti del magistrato (fra le quali altresì la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di notizie non pubblicabili[9]), si colloca in una prospettiva obiettivamente lontana dall’organizzazione razionale delle prassi.

Non molto di più, al momento, dicono le norme secondarie del sistema dell’autogoverno, anche se non poche, ed anche importanti indicazioni possono trarsi, come si dirà oltre, dalle pur non stringenti “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, approvate dal Consiglio Superiore della Magistratura con delibera dell’11 luglio 2018[10].

2.2. La giurisprudenza della Corte E.D.U. e le altre fonti internazionali

Naturalmente, anche nella consapevolezza che, ad ogni latitudine, non esistono dispositivi normativi che garantiscano dai rischi tipici della informazione giudiziaria, alcuni passi in avanti possono farsi guardando, innanzitutto, alle regole enucleabili dalla giurisprudenza della C.E.D.U. e da documenti internazionali importanti, pur se privi di ogni valore immediatamente precettivo[11].

Sul primo versante, si ritrovano ampie tracce di alcuni principi fondamentali, fissati dalla Corte di Strasburgo attorno, da un lato, al valore della libertà di stampa, intesa secondo la classica (ed un po’ retorica) formula del “cane da guardia della democrazia” (William Goodwin v. UK, 27 marzo 1996) e, dall’altro, alla necessità di equilibrio degli assetti reali dei sistemi nazionali, essendo buon andamento della amministrazione della giustizia, privacy e presunzione di innocenza[12] valori protetti dalla Convenzione, ma chiamati a fare i conti con un’ampia tutela del diritto di cronaca (almeno a far tempo dalla famosa sentenza del 26 aprile 1979 – Sunday Times v. UK – che ricordò a tutti che i tribunali non possono funzionare nel vuoto, perché i loro compiti suscitano naturalmente il dibattito pubblico e devono confrontarsi con il diritto del pubblico ad essere informato).

Del resto, della sussistenza dell’interesse pubblico non può che decidere il giornalista, come ovvio assumendone la responsabilità, quando l’interesse pubblico ritenuto sussistente per legittimare la pubblicazione entri in conflitto con altri interessi e diritti, quali quella alla privacy e alla reputazione (si veda, ad esempio, il caso Furst-Pfeifer v. Austria del 17 maggio 2016 ove si discuteva della legittimità, riconosciuta dalla C.E.D.U., della pubblicazione di notizie sulla salute mentale di una psichiatra che agiva come consulente sui minori dell’autorità giudiziaria)[13].

Sul secondo versante, alcuni parametri fondamentali di un’informazione corretta delle Procure della Repubblica è dato individuarli nei contenuti del parere reso, sotto l’egida del Consiglio d’Europea, dal Comitato Consultivo dei Procuratori Europei nel 2013 (parere n. 8/2013)[14], intervenuto quattro anni dopo la Dichiarazione di Bordeaux su “Giudici e magistrati del Pubblico Ministero in una società democratica”[15] predisposta appunto a Bordeaux, in seduta comune dei Gruppi di lavoro del Consiglio Consultivo dei Giudici Europei (C.C.J.E.) e del Consiglio Consultivo dei Pubblici Ministeri Europei (C.C.P.E.), ed adottata ufficialmente dal C.C.J.E. e dal C.C.P.E. a Brdo il 18 novembre 2009[16].

Potrà sembrare banale il preliminare avvertimento che da tali documenti potremo solo in controluce ricavare gli antidoti della comunicazione clandestina o più abilmente ricercata a fini di promozione mediatica di figure e destini personali, occupandosi i medesimi di orientare correttamente i canoni pratici della comunicazione giudiziaria ufficiale, ma sarebbe ancor più facile constatare che l’ampiezza del gioco dell’una significativamente dipende dagli spazi non occupati dalla seconda.

In tale prospettiva, si coglie tutta l’importanza dei canoni di orientamento dell’applicazione pratica dei principi convenzionali enucleabili dalla lettura dell’uno e dell’altro documento[17].

In definitiva, trova limpida affermazione in quei documenti il principio secondo il quale la trasparenza delle funzioni del p.m. e dell’organizzazione delle indagini e degli uffici che hanno la responsabilità è una “componente essenziale dello Stato di diritto e al tempo stesso una delle garanzie del giusto processo”.

Naturalmente, resta affidata alla considerazione personale di ciascuno ogni riflessione sulla distanza della realtà quotidiana delle prassi applicative di quei valori, certo particolarmente visibile nella rappresentazione degli esiti delle indagini con enfasi e perentorietà di toni non compatibili con la natura della fase procedimentale e la dimensione giurisdizionale dell’azione del pubblico ministero[18], ancorché sovente ricercati in logiche di comunicazione proprie delle società nelle quali si indeboliscono i fattori di difesa e diffusione della cultura della presunzione di innocenza e della dignità delle persone, pur se accusate di gravissimi delitti.

Tuttavia, l’aperto e continuo richiamo ai principi della Dichiarazione di Bordeaux operato dalle successive Linee guida del C.S.M. consente, pur essendo tale strumento per sua natura dotato di relativa capacità di vincolante indirizzo, di cogliere il valore innovativo dell’approccio al problema e di talune delle soluzioni prospettate, consentendo di proiettare l’uno e le altre nella concreta dimensione dell’organizzazione degli uffici del pubblico ministero e di ridurre il rischio di divaricazioni e contraddizioni delle prassi operative.

3. Le Linee Guida del Consiglio Superiore della Magistratura

Innanzi tutto, il documento[19] muove dal ripudio dell’idea che la comunicazione sia materia accantonabile nel lavoro di ogni magistrato.

All’elogio del silenzio e alla stantia ed ipocrita massima secondo la quale i magistrati dovrebbero parlare solo con i loro provvedimenti (nella realtà sovente esposizioni di enormi masse informative e di valutazioni difficili da comprendersi per i più), si sostituisce l’invito ad una parola equilibrata, misurata, responsabile, ispirata al rispetto della funzione giudiziaria e dei diritti dei cittadini.

Naturalmente, ciò non copre tutta la dimensione della comunicazione del magistrato, che comunica con tutti i suoi comportamenti, non solo professionali, come ci ricordano le bellissime pagine introduttive alla pubblicazione del pluridecennale dialogo epistolare di un giudice con una persona condannata alla pena perpetua[20], ma anche conducendo o partecipando all’udienza e con ogni altro atteggiamento percepito dal cittadino a vario titolo coinvolto nel procedimento.

In altri termini, come è stato altresì ben detto[21], la percezione sociale del magistrato e della giustizia si nutre sempre più del costume giudiziario, ovvero di come i magistrati si pongono, parlano, scrivono, si comportano e si relazionano con i soggetti del processo e nel dibattito pubblico.

In questa dimensione, nella quale, quasi quotidianamente, la magistratura perde piccole quote di credibilità e fiducia dei cittadini, il dovere di difendere strenuamente la libertà di manifestazione del pensiero del cittadino magistrato anche su temi politicamente sensibili ed esposti al rischio della polemica deve potersi associare alla possibilità di criticare e tenere lontane da sé le tentazioni a presentarsi come depositari di verità e dell’etica pubblica e a non cedere alla vanità e ai precari vantaggi del circuito mediatico.

Le Linee guida, dunque, per quanto generiche e bisognose di traduzione in documenti di chiaro valore precettivo, hanno un rilievo obiettivo e si potrebbe ritenere non eludibile per i dirigenti degli uffici giudiziari, imponendosi la necessità di valutare la necessità di precisi interventi organizzativi, essenziali all’orientamento trasparente delle forme di esercizio della loro responsabilità della comunicazione pubblica.

Ecco allora, trattandosi di informazione sulle attività del P.M., vedere la luce nella sede dell’autogoverno della magistratura alcuni pur generici, ma chiarissimi, principi, agevolmente suscettivi di progressione precettiva: dal divieto di discriminazioni tra giornalisti o testate e di canali informativi privilegiati alla tutela della dignità delle persone vulnerabili dal rischio di pressioni vessatorie dei media, dal dovere di una comunicazione reattiva, finalizzata a correggere o smentire informazioni errate, false o distorte, fino al dovere (del dirigente dell’ufficio) di coinvolgere gli altri magistrati nelle valutazioni di modalità ed impatti della comunicazione pubblica.

In altri termini, di alcuni dei principi dedotti nelle ricordate Linee Guida è ben possibile tentare di assicurarne la reale condivisione e l’uniforme applicazione, riducendo i margini della scivolosa dimensione di informalità che abitualmente caratterizza i rapporti con i media.

La considerazione del rischio di diffusione di fotografie e video ritraenti il volto di persone arrestate in esecuzione di ordinanze applicative di misure cautelari ovvero arrestate in flagranza di reato o sottoposte a fermo di polizia giudiziaria[22] può, ad esempio, utilmente porsi a fondamento di formali direttive ai servizi di polizia giudiziaria, così collocandosi apertamente la doverosa cura delle condizioni di efficace tutela della dignità delle persone sottoposte ad indagini in condizioni di particolare vulnerabilità, da un lato, nella sfera di diretta responsabilità dei vertici degli organi di polizia giudiziaria e, dall’altro, al centro delle funzioni di direzione e controllo delle investigazioni proprie dell’ufficio del pubblico ministero.

Nella medesima prospettiva, i progetti organizzativi degli uffici di Procura, vieppiù quando risultanti dall’effettiva partecipazione di tutti i magistrati che ne fanno parte al relativo processo di elaborazione, si offrono naturalmente (al pari delle opportunità di indirizzo uniforme delle prassi insite nelle funzioni di vigilanza spettanti ex art. 6 d.lgs. 106/2006 ai procuratori generali presso le corti d’appello) alla costruzione di chiare e trasparenti regole organizzative interne per la gestione dei rapporti con i media, imprimendo alla comunicazione pubblica dell’Ufficio il valore aggiuntivo della consapevole contribuzione dei sostituti assegnatari dei singoli affari alla definizione dei contenuti delle informazioni da rendere in ordine alle procedure che – in ragione della particolare delicatezza, gravità, rilevanza e comunque idoneità a coinvolgere l’immagine dell’Ufficio o per le questioni di diritto, nuove ovvero di speciale complessità e delicatezza o per la loro rilevanza per la tutela dei diritti delle persone coinvolte – maggiormente esigono la più ampia collaborazione, anche attraverso specifiche riunioni, all’analisi dei dati e delle informazioni suscettivi di divulgazione. Ciò rende evidente che il principio di responsabilità del Procuratore della Repubblica, lungi dall’esprimere istanze di esclusione, esige invece, per la sua stessa effettività di nutrirsi della partecipazione degli altri magistrati alla sua concreta declinazione, vieppiù rilevante allorquando si imponga rendere con tempestività e precisione le comunicazioni sempre più necessarie per correggere informazioni ed interpretazioni errate e dannose per l’efficacia delle indagini o per la tutela dei diritti delle persone coinvolte, nonché dell’immagine di indipendenza, imparzialità e correttezza dell’Ufficio.

4. Rapporto tra segreto d’indagine e diritto all’informazione

Soprattutto, per quanto il tema sembri accantonato nella loro definizione, le Linee Guida del C.S.M. rivelano chiaramente l’ineludibilità della questione della regolazione dell’accesso diretto dei giornalisti agli atti non segreti, aprendosi per tale via la strada alla condivisione delle istanze da tempo mosse dal giornalismo più attento e colto e dalla dottrina più rigorosa e lungimirante.

Da tempo è stato autorevolmente sollevato il problema dell’irragionevolezza della distinzione normativa, ancora attuale, fra “atto”, non pubblicabile, e “contenuto pubblicabile”, sulla quale si fonda l’art. 114 c.p.p., indicando l’accesso diretto (e controllato nelle forme dell’art. 116 c.p.p.) del giornalista agli atti del procedimento come condizione per un esercizio autonomo e responsabile della libertà di informazione[23].

Si staglia così una dimensione problematica che non può che essere affidata al legislatore, poiché coincidente con l’individuazione della linea problematica cruciale alla sdrammatizzazione del rapporto fra comunicazione ed indagini: rendere pubblicabile tutto ciò che non è più segreto ed assicurare l’effettività della protezione di ciò che invece è segreto (in tale direzione muovendosi il superamento del tradizionale quanto ipocrita divieto di pubblicazione dell’ordinanza applicativa di misure cautelari), superando le istintive obiezioni correlate alla sorte della presunzione di innocenza e della serenità delle successive valutazioni del giudice, essendo realisticamente assai difficile riconoscere fondamento razionale tanto al mito della verginità cognitiva del giudice quanto al timore che le campagne di stampa colpevoliste sarebbero significativamente alimentate dalla rimozione di un divieto, quale quello di pubblicazione, costantemente violato e ridicolmente sanzionato.

Ma al tema in esame è collegata anche una dimensione non eludibile responsabilmente nel concreto atteggiarsi delle prassi giudiziarie, direttamente riferibile, nelle condizioni normative date, al riconoscimento della possibilità di accesso diretto del giornalista a ciò che non è più segreto, ai sensi e per gli effetti dell’art. 116 c.p.p. e, dunque, attraverso l’esercizio, responsabile e trasparente, di potestà processuali, spettanti, nella fase delle indagini preliminari, all’ufficio del pubblico ministero, sollevando il giornalista e la libertà di stampa [24] dal peso di “situazioni di sostanziale sudditanza”[25] e ponendo fine ad un obiettivo sistema di scambi immorali [26], quale quello che si realizza in una sorta di mercato clandestino delle informazioni, secondo le condizioni tipicamente proprie dei regimi proibizionistici, che si nutrono delle violazioni della loro impossibile pretesa di attuazione reale.

Per tale via, e dunque ancor prima ed indipendentemente dalla maturazione delle condizioni di una consapevole e moderna regolazione legislativa del rapporto fra segreto d’indagine e diritto all’informazione, non soltanto la figura del giornalista può essere emancipata dalla necessità di attingere clandestinamente alle proprie fonti e messa in grado di poter accedere in condizioni di parità e trasparenza alle informazioni contenute in provvedimento non più segreti, ma si riduce significativamente il rischio di trascinamento del pubblico ministero in sistemi di relazione non coerenti con il suo statuto di imparzialità.

Naturalmente, non si tratta di una sorta di vaccino utile contro virus proteiformi e resistenti ad ogni profilassi, ma certo di un rimedio apprezzabile nella logica della riduzione dei danni correlati al mondo delle relazioni clandestine fra stampa e soggetti del processo. Anche in tal caso, la strada sembra attraversare l’organizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, esigendosi una regolamentazione delle modalità di esercizio della discrezionalità giudiziaria essenziale al migliore bilanciamento degli interessi complessivamente coinvolti nella singola procedura. L’esperienza, del resto, rivela che alle prassi in tal senso orientate non corrispondono inconvenienti o doglianze di sorta. Nessun rimedio miracoloso né tanto meno definitivo, dunque, ma uno strumento di inoculazione di una dose aggiuntiva di trasparenza e responsabilità della quale sembra difficile poter negare la necessità.

5. La tutela della riservatezza

Ancor più naturalmente, non essendo l’accesso diretto dei giornalisti agli atti non coperti da segreto panacea di ogni male, perdura immutata l’importanza di un rigoroso controllo delle tecniche di selezione delle informazioni e dei dati sensibili acquisiti nel corso delle indagini ai fini della formazione dei provvedimenti giudiziari, essenziale anche per ridurre le tensioni che ruotano attorno alla radicale divaricazione fra il criterio di giudizio che dovrebbe guidare le valutazioni del pubblico ministero e del giudice e i parametri della cronaca giudiziaria, che non possono che essere più ampi, coincidendo con l’interesse pubblico alla conoscenza della notizia, così come valutato dagli organi di informazione.

Restano altresì intatti i rischi collegati al governo delle tecnologie impiegate nel processo penale, l’uso delle quali pone problemi di responsabilità del trattamento dei dati personali in passato impensabili ed oggi largamente inesplorati, soprattutto con riguardo all’intervento di ausiliari e servizi privati il rilievo decisivo dei quali ai fini delle investigazioni pone sovente gli Uffici giudiziari in una posizione di dipendenza cognitiva e subalternità operativa, venendo in rilievo la gestione di sistemi informativi retti da logiche d’impresa ed ancora lontani da una sfera di effettiva controllabilità dell’amministrazione della giustizia.

Sul primo terreno si pone nitidamente il tema della separazione dei destini dei due diversi campi di giudizio, assicurando l’allontanamento della giurisdizione da ciò che, esorbitando dall’accertamento del reato, attiene invece all’etica dei comportamenti ed al loro disvalore morale, attraverso la cura scrupolosa nella ricognizione di ciò che effettivamente rileva ai fini del processo penale, di ciò necessitando la stessa autorevolezza della funzione giudiziaria, perché l’attribuzione o più spesso l’autoassegnazione al magistrato di impropri e persino improbabili ruoli di autorità morale[27] mette in crisi la distinzione fra etica e diritto penale la chiarezza della quale è invece baluardo della legalità processuale.

Sul secondo piano di riflessione si colloca invece il fattore di dilatazione delle tensioni fra esigenze investigative e tutela della riservatezza e dei dati personali delle persone a vario titolo coinvolte nel procedimento penale rappresentato nell’era della connessione globale alla rete dall’ingresso in scena dei big data e dell’intelligenza artificiale nelle attività di ricerca della notizia di reato e di successiva acquisizione probatoria e dal trascinamento nel processo penale di enormi masse informative e di dati sensibili coincidenti con l’intera sfera esistenziale delle persone coinvolte nelle attività di indagine. A tale dimensione problematica apparterranno anche le prossime, ancor più grandi ed ormai visibili fibrillazioni polemiche intorno alla disciplina delle indagini preliminari e ai limiti, insiti nell’imprescindibile legame di proporzionalità ed adeguatezza fra esigenze investigative e tutela dei diritti fondamentali, delle più invasive potestà di acquisizione probatoria[28].

6. Conclusioni. La rendicontazione sociale

Ultime considerazioni vanno riservate al profilo della comunicazione degli Uffici del Pubblico Ministero afferente alla relativa organizzazione e all’attività svolta, che il già ricordato parere del Comitato Consultivo dei Procuratori Europei consente di valorizzare ponendo l’applicazione del principio di trasparenza del lavoro degli uffici inquirenti come elemento essenziale per assicurare la fiducia del pubblico, richiedendo ciò la più ampia diffusione delle informazioni sui criteri prescelti di esercizio delle relative attribuzioni istituzionali e prettamente processuali.

Un’indicazione offuscabile attraverso approcci retti da finalità di cosmesi e autocelebrazione, ma non a lungo eludibile, imponendosi l’apertura ad una conoscenza diffusa e agevole del lavoro giudiziario, dando conto dei criteri e dei risultati ottenuti, illustrando le ragioni che regolano l’ordine di trattazione delle procedure, la durata delle medesime procedure, le modalità di impiego delle risorse, secondo modelli condivisi ed omogenei, che consentano la comparazione e l’analisi delle diverse prassi.

Anche in questo modo, attraverso lo strumento del bilancio di responsabilità sociale[29], la giurisdizione “rende conto” (nell’accezione anglosassone di accountability) della propria azione al popolo nel nome del quale è amministrata, sottoponendosi ad un controllo democratico che è il necessario contrappeso all’indipendenza e alla autonomia della magistratura.

* Procuratore capo presso la Procura della Repubblica di Napoli

Fonte: Questione Giustizia


Note

[1] Glauco Giostra, Processo penale e informazione, Milano, 1989; ID., Processo penale e mass media, in Criminalia, 2007; ID., L’informazione giudiziaria non soltanto distorce la realtà rappresentata, ma la cambia, in Osservatorio sull’informazione giudiziaria dell’Unione delle Camere Penali italiane (a cura di), L’informazione giudiziaria in Italia. Libro bianco sui rapporti tra mezzi di comunicazione e processo penale, Pisa, 2016, 82; Carlo E. Paliero, La maschera e il volto (percezione sociale del crimine ed ‘effetti penali’ dei media), in Rivista di diritto penale e procedura penale, 2006, 2, 467 ss.; Tullio Padovani, Informazione e giustizia penale: dolenti note, in Diritto penale e processo, 2008, 689 ss.; Ennio Amodio, Estetica della giustizia penale. Prassi, media, fiction, Milano, 2016.

[2] Luigi Ferrarella, Non per dovere, ma per interesse (dei cittadini): i magistrati e la paura di spiegarsi, in Questione Giustizia, 2018, 4, 311; ID., Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario tra prassi e norme, in Diritto penale contemporaneo, 2017, 3, 4 ss..

[3] Sul punto si segnalano le considerazioni di Elisabetta Cesqui, Farsi capire da Adam Henry e da tutti gli altri, in Questione Giustizia, 2018, 4, 236 ss. secondo la quale “la comunicazione della attività e delle decisioni è un gesto di trasparenza e la trasparenza, quando riguarda il potere, è un esercizio di democrazia che può che giovare alla società” (p. 237). Ed ancora “non è vero che i giudici parlano solo con le sentenze, parlano anche con i loro comportamenti, con il modo in cui si pongono nei confronti di chi, vittima o reprobo che sia, incrocia il loro cammino nei luoghi della giustizia e non possono sottrarsi al dovere di rendere comprensibile il loro agire” (p. 242).

[4] Giuseppe Pignatone, Comunicazione della Procura della Repubblica: una garanzia anche per l’imputato, in Questione Giustizia, 2018, 4, 262 e ss..

[5] Nello Rossi, Il silenzio e la parola dei magistrati. Dall’arte di tacere alla scelta di comunicare, in Questione Giustizia, 2018, 4, 245 e ss..

[6] In tale senso, altresì, Donatella Stasio, Il dovere di comunicare dei magistrati: la sfida per recuperare fiducia nella giustizia, in Questione Giustizia, 2018, 4, 213 e ss.

[7] Sul tema, assume peculiare rilievo l’elaborazione in corso in ambito sovranazionale (cfr. European Commission contribution to the European CouncilAction Plan against Disinformation, 5 dicembre 2018; European ParliamentStudy requested by the LIBE committeeDisinformation and propaganda – impact on the functioning of the rule of law in the EU and its Member States, febbraio 2019).

[8] Si riporta il testo integrale dell’art. 5 del d.lgs. 106/2006 (concernente “Disposizioni in materia di riorganizzazione dell’ufficio del pubblico ministero, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera d), della legge 25 luglio 2005, n. 150”), rubricato “Rapporti con gli organi di informazione”: “1. Il procuratore della Repubblica mantiene personalmente, ovvero tramite un magistrato dell’ufficio appositamente delegato, i rapporti con gli organi di informazione. 2. Ogni informazione inerente alle attività della procura della Repubblica deve essere fornita attribuendola in modo impersonale all’ufficio ed escludendo ogni riferimento ai magistrati assegnatari del procedimento. 3. E’ fatto divieto ai magistrati della procura della Repubblica di rilasciare dichiarazioni o fornire notizie agli organi di informazione circa l’attività giudiziaria dell’ufficio. 4. Il procuratore della Repubblica ha l’obbligo di segnalare al consiglio giudiziario, per l’esercizio del potere di vigilanza e di sollecitazione dell’azione disciplinare, le condotte dei magistrati del suo ufficio che siano in contrasto col divieto fissato al comma 3.”

[9] Si riporta il testo dell’art. 2 del d.lgs. 109/2006 (concernente “Disciplina degli illeciti disciplinari dei magistrati, delle relative sanzioni e della procedura per la loro applicabilità, nonché modifica della disciplina in tema di incompatibilità, dispensa dal servizio e trasferimento di ufficio dei magistrati, a norma dell’articolo 1, comma 1, lettera f), della legge 25 luglio 2005, n. 150”), rubricato “Illeciti disciplinari nell’esercizio delle funzioni”, limitatamente alle lettere u) e v): “u) la divulgazione, anche dipendente da negligenza, di atti del procedimento coperti dal segreto o di cui sia previsto il divieto di pubblicazione, nonché la violazione del dovere di riservatezza sugli affari in corso di trattazione, o sugli affari definiti, quando é idonea a ledere indebitamente diritti altrui;  v) pubbliche dichiarazioni o interviste che riguardino i soggetti coinvolti negli affari in corso di trattazione, ovvero trattati e non definiti con  provvedimento non soggetto a impugnazione ordinaria, quando sono dirette a ledere indebitamente diritti altrui nonché la violazione del divieto di cui all’articolo 5, comma 2, del decreto legislativo 20 febbraio 2006, n. 106”.

[10] Sul tema, Edmondo Bruti Liberati, Un punto di arrivo o un punto di partenza?, in Questione Giustizia, 2018, 4, 318 e ss.; Vincenza (Ezia) Maccora, Un percorso che deve coinvolgere l’agire quotidiano dei magistrati per costituire una effettiva svolta culturale, in Questione Giustizia, 2018, 4, 218 ss., la quale opportunamente osserva che “il tema della comunicazione della giustizia sulla giustizia è un tema ineludibile, finora troppo sottovalutato o temuto, con il quale ogni magistrato – giudice o pm – deve misurarsi, non solo con gli strumenti “ordinari”, a cominciare dal rendere sempre comprensibile la motivazione dei propri provvedimenti, ma anche attraverso altre forme di comunicazione che, a prescindere da quella veicolata dai media, raggiungano in modo corretto l’opinione pubblica”.

[11] Per un quadro di riferimento generale: Mariarosaria Guglielmi, Uno sguardo oltre i confini. Principi ed esperienze della comunicazione giudiziaria in Europa, in Questione Giustizia, 2018, 4, 278 ss..

[12] Al riguardo si segnala anche la Direttiva (UE) 2016/343 del Parlamento Europeo e del Consiglio del 9 marzo 2016 sul rafforzamento di alcuni aspetti della presunzione di innocenza e del diritto di presenziare al processo nei procedimenti penali. Tale Direttiva, composta da 51 considerando e 16 articoli, doveva essere recepita dagli Stati membri entro l’1 aprile 2018, stante il tenore dell’art. 14. Tuttavia l’Italia ha provveduto solo con la Legge di delegazione europea 2019-2020 (Legge n. 53 del 22 aprile 2021, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale n. 97 del 23 aprile 2021 e in vigore dall’8 maggio 2021), contenente la delega al Governo al recepimento anche della predetta Direttiva sulla presunzione di innocenza (cfr. art. 1 comma 1 della L. 53/2021 e allegato A alla medesima legge). Ai fini della presente trattazione appare rilevante soprattutto il contenuto dell’art. 4 della Direttiva rubricato “Riferimenti in pubblico alla colpevolezza” di cui si riporta il testo integrale: “1. Gli Stati membri adottano le misure necessarie per garantire che, fino a quando la colpevolezza di un indagato o imputato non sia stata legalmente provata, le dichiarazioni pubbliche rilasciate da autorità pubbliche e le decisioni giudiziarie diverse da quelle sulla colpevolezza non presentino la persona come colpevole. Ciò lascia impregiudicati gli atti della pubblica accusa volti a dimostrare la colpevolezza dell’indagato o imputato e le decisioni preliminari di natura procedurale adottate da autorità giudiziarie o da altre autorità competenti e fondate sul sospetto o su indizi di reità. 2. Gli Stati membri provvedono affinché siano predisposte le misure appropriate in caso di violazione dell’obbligo stabilito al paragrafo 1 del presente articolo di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli, in conformità con la presente direttiva, in particolare con l’articolo 10. 3. L’obbligo stabilito al paragrafo 1 di non presentare gli indagati o imputati come colpevoli non impedisce alle autorità pubbliche di divulgare informazioni sui procedimenti penali, qualora ciò sia strettamente necessario per motivi connessi all’indagine penale o per l’interesse pubblico”.

[13] Da ultimo deve essere menzionato il diritto del giornalista a beneficiare della protezione della confidenzialità delle proprie fonti, come ribadito nella sentenza C.E.D.U., 1 aprile 2021, Sedletska v. Ucraina, a commento della quale si segnala il seguente articolo: Marina Castellaneta, La C.E.D.U. e i limiti alle intercettazioni dirette nei confronti di giornalisti (a proposito di Corte edu, 1 aprile 2021, Sedletska contro Ucraina), in questa Rivista, 5 maggio 2021. Con riferimento allo stesso tema, si segnala anche la precedente sentenza C.E.D.U., 6 ottobre 2020, Jecker v. Svizzera, e il commento della medesima Autrice, Segretezza delle fonti giornalistiche nel quadro della C.E.D.U.. Una nuova pronunzia della Corte di Strasburgo (Jecker c. Svizzera), in questa Rivista, 14 novembre 2020.

[14] Parere n. 8/2013 del Comitato Consultivo dei Procuratori Europei reperibile in lingua inglese

[15] In particolare, degno di rilievo il punto 11: “E’ altresì interesse della società che i mezzi di comunicazione possano informare il pubblico sul funzionamento del sistema giudiziario. Le autorità competenti dovranno fornire tali informazioni, rispettando in particolare la presunzione di innocenza degli accusati, il diritto ad un giusto processo ed il diritto alla vita privata e familiare di tutti i soggetti del processo. I giudici ed i magistrati del pubblico ministero debbono redigere, per ciascuna professione, un codice di buone prassi o delle linee-guida in ordine ai loro rapporti con i mezzi di comunicazione”. Qui il testo integrale della Dichiarazione di Bordeaux su “Giudici e magistrati del Pubblico Ministero in una società democratica”.

[16] Nella scia di tali organi consultivi di quell’organizzazione paneuropea si collocano anche i documenti dell’European Network of Councils for the Judiciary (E.N.C.J – acronimo in lingua francese R.E.C.J.), a far tempo dal “Justice, Society and the Media – Report 2011-2012”, il cui testo è reperibile qui in lingua inglesenonché al più recente  – per come rilevante ai fini della presente trattazione – “Public Confidence and the Image of Justice – Report 2017-2018”, approvato a Lisbona l’1 giugno 2018, nell’ambito del quale si sviluppa ampiamente la prospettiva della comunicazione in ambito giudiziario e si suggerisce l’adozione di piani d’azione nazionali, verifiche periodiche del livello di fiducia del pubblico, la formazione professionale specifica (per capi degli uffici, giudici, procuratori, personale amministrativo), l’elaborazione di linee-guida sui rapporti tra il giudiziario e i media. In particolare, tra l’altro, si raccomanda la nomina come “spokeperson” di giudici o procuratori con specifica formazione in tema di comunicazione e l’istituzione di uno “specialised department” che impieghi professionisti nella comunicazione sotto la direzione del “press judge/prosecutor”.

[17] Sinteticamente: l’informazione data ai media non deve minare l’integrità delle investigazioni, l’esercizio dell’azione e le loro finalità; l’informazione data ai media non può danneggiare o influenzare la tutela dei diritti dei soggetti coinvolti nel procedimento o dei terzi; le relazioni con i media devono essere costruite sulla base del reciproco rispetto, dell’eguale trattamento e della responsabilità, operando con imparzialità e uguaglianza nei confronti dei giornalisti; dunque, trasparenza di queste relazioni, senza tessitura di rapporti personali o di pratiche selettive finalizzate ad assicurare maggiore risalto all’azione del P.M.; l’informazione data ai media deve essere rispettosa delle decisioni del giudice e, segnatamente, “i membri dell’ufficio del pubblico ministero devono rispettare l’indipendenza e l’imparzialità dei giudici; in particolare, essi non possono esprimere dubbi sulle decisioni giudiziali o ostacolare la loro esecuzione, salvo quando esercitano i loro diritti di appello o invocano altre procedure declaratorie”.

[18] Armando Spataro, Comunicazione della giustizia sulla giustizia. Come non si comunica, in Questione Giustizia, 2018, 4, 294 e ss.. Sul punto anche Giovanni Canzio, in questa Rivista, 19 maggio 2021.

[19] Il testo delle “Linee Guida per l’organizzazione degli uffici giudiziari ai fini di una corretta comunicazione istituzionale”, approvate dal C.S.M. con delibera dell’11 luglio 2018, è reperibile qui.

[20] Elvio Fassone, Fine pena: ora, Sellerio, Palermo, 2015.

[21] Armando Spataro, cit., p. 294.

[22] Naturalmente, il tema ha diretta incidenza anche nello statuto deontologico dei giornalisti, che prevede espressamente che “Salva l’essenzialità dell’informazione, il giornalista non fornisce notizie o pubblica immagini o fotografie di soggetti coinvolti in fatti di cronaca lesive della dignità della persona (…) salvo rilevanti motivi di interesse pubblico o comprovati fini di giustizia e di polizia, il giornalista non riproduce né riprende immagini e foto di persone in stato di detenzione senza il consenso dell’interessato. Le persone non possono essere rappresentate con ferri o manette ai polsi, salvo che ciò sia necessario per segnalare abusi”, per quanto sia chiaro che in ogni caso la trasmissione agli organi di stampa delle foto segnaletiche di persone scattate in occasione dell’arresto possa integrare, in mancanza di comprovate finalità di giustizia, di polizia o di motivi di interesse pubblico, una violazione dell’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo (come già sancito nella sentenza della C.E.D.U. dell’11 gennaio 2005 – ricorso n. 50774/99 – in procedura instaurata nei confronti dell’Italia), integrando la violazione di un divieto ribadito anche in numerosi provvedimenti dell’Autorità di garanzia della protezione dei dati personali (ex plurimis, provvedimento n. 179 del 5.6.2012).

[23] Francesco C. Palazzo, Note sintetiche sul rapporto tra giustizia penale e informazione giudiziaria, in Diritto penale contemporaneo, 2017, 3, 139 e ss..

[24] Naturalmente, l’accesso agli atti potrà essere assicurato, secondo la medesima clausola normativa ed analoga tecnica di motivato bilanciamento degli interessi coinvolti, oltre che al giornalista, altresì all’informazione digitale che si realizza senza la mediazione dell’appartenenza ordinistica del soggetto istante, altresì in corrispondenza alle esigenze di analisi criminologica e statistica proprie di istituzioni accademiche e di ricerca.

[25] Francesco C. Palazzo, ivi, 142.

[26] Luigi Ferrarella, Il “giro della morte”: il giornalismo giudiziario, cit., 6 ss.

[27] Armando Spataro, cit., p. 297.

[28] Per una rassegna degli irrisolti nodi giurisprudenziali in materia di intercettazione delle comunicazioni telematiche e di acquisizione investigativa dei dati accumulati nei relativi dispositivi, cfr. Pierluigi Di Stefano, Il Trojan horse nel processo penale in questa Rivista, 28 ottobre 2020.

[29] Per un approfondimento sullo strumento del bilancio di responsabilità sociale applicato agli uffici requirenti: Paolo Ricci e Pietro Pavone, The experience of social reporting in Italian judicial offices. The laboratory of the public prosecutor’s office in Naples, in International Journal of Public Sector Management, 2020 (DOI 10.1108/IJPSM-04-2020-0102); Id. The Accountability in the Judicial System: Have Times Really Changed? Reflections From an Italian Social Reporting Experience, in Public Integrity, 2021.

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