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Mafia, la lotta iniziata nell’80 perde colpi per le ultime scelte

Luca Tescaroli * il . Giustizia, Mafie, Memoria, Sicilia

Basile e l’antimafia oggi. Strategie. Dal 41 bis ai permessi premio: la battaglia è sempre meno decisiva

Da poco aveva disceso le scale del Municipio e stringeva tra le braccia la figlia Barbara di 4 anni che stava dormendo con il capo reclinato sulla sua spalla, quando tre sicari di mafia gli spararono alle spalle. Quattro colpi di pistola, in rapida successione: l’ultimo, il colpo di grazia, alla nuca.

Moriva così, il 4 maggio 1980, nella via Pietro Novelli di Monreale, un antico paese aggrappato alla montagna, il capitano dei Carabinieri, Emanuele Basile, sotto gli occhi impietriti della moglie Silvana Musanti che lo accompagnava. Occhi innocenti, che videro quell’ufficiale in uniforme barcollare e piegarsi sulle gambe, per poi cadere a terra, a distanza di qualche metro, sulla bimba, miracolosamente rimasta illesa.

I killer si dileguarono a bordo di un’auto A 112 e i cinque testimoni oculari, che tutto avevano visto, non fornirono alcuna indicazione utile per l’individuazione dei responsabili. Scattò una caccia all’uomo che portò nell’arco di poche ore a fermare i tre spietati assassini. Uno di loro fu riconosciuto dall’appuntato dei carabinieri Ponfino Buttazzo e da sua moglie Carla. Il giudice istruttore Paolo Borsellino rinviò a giudizio tre mafiosi di rango: Vincenzo Puccio, Armando Bonanno e Giuseppe Madonia, sospettati di essere gli esecutori materiali, dando l’abbrivio al primo grande processo di mafia degli anni ’80, che divenne il simbolo della Giustizia “aggiustata”.

Udienza dopo udienza, sentenza dopo sentenza, cosa nostra sperimentò tutte le vie per assicurare l’impunità ai sicari: dalle pressioni ai falsi testimoni per fornire alibi ad arte, dalle minacce e intimidazioni nei confronti perfino degli avvocati di parte civile all’avvicinamento e ai consigli ai giudici togati e popolari, dall’attacco verbale personale nei confronti di chi aveva istruito quel processo sino all’omicidio del presidente di uno dei tanti giudizi d’appello celebrati (Antonino Saetta). Il 31 marzo 1983 i sicari furono assolti e, poco dopo essere stati scarcerati, fuggirono dal confino in Sardegna dove erano stati inviati.

Furono necessari 12 anni, la celebrazione di ben 8 processi e le stragi di Capaci e di via Mariano d’Amelio perché gli imputati venissero riconosciuti colpevoli in maniera definitiva del delitto di quell’ufficiale dei Carabinieri venuto dal continente. Fu la quinta sezione della Corte di Cassazione che il 14 novembre 1992 condannò all’ergastolo, quali mandanti, Salvatore Riina e Francesco Madonia e il killer Giuseppe Madonia. Vincenzo Puccio fu ucciso in carcere nel 1989 da alcuni suoi compagni. Armando Bonanno venne condannato dal tribunale di cosa nostra che lo fece ritrovare cadavere in un ospedale palermitano a ridosso della vigilia di Natale del 2003. Servirono altri dieci anni perché divenisse definitivo il verdetto di condanna nei confronti dell’altro mandante, Michele Greco. Giovanni Brusca si autoaccusò di aver fatto parte del gruppo di fuoco che organizzò l’agguato.

Sono trascorsi più di 40 anni dall’assassinio di quell’ufficiale che aveva trovato il filo che portava ai responsabili dell’agguato in cui perì il capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano e, d’iniziativa, il 6 febbraio 1980 arrestò un nugolo di mafiosi che rappresentavano lo stato maggiore dell’ala corleonese.

Nei 18 mesi in cui lavorò in Sicilia, vide cadere, in poco più di un anno, oltre a Giuliano, il giornalista Mario Francese, il giudice Terranova, il segretario provinciale della DC di Palermo Michele Reina e il Presidente della Regione siciliana Piersanti Mattarella. Analoga sorte toccò la sera del 13 giugno 1983, in via Scobar a Palermo, al capitano, che aveva preso il posto di Basile alla compagnia dei Carabinieri di Monreale, Mario D’Aleo (e ai brigadieri Pietro Morici e Giuseppe Bommarito che si trovavano in sua compagnia).

Questa lunga scia di sangue ha contribuito al varo della legislazione più avanzata per il contrasto alla criminalità organizzata, che oggi viene progressivamente erosa: dalle dichiarazioni di incostituzionalità della previsione della collaborazione come unica strada per avere accesso alla libertà condizionale e ai permessi premio all’affievolimento del regime detentivo del 41 bis (con la rimozione del divieto assoluto di scambio di oggetti tra i detenuti appartenenti allo stesso gruppo di socialità e l’introduzione del diritto ai colloqui via video), segno evidente di un cambio di stagione nella cultura del contrasto al crimine mafioso.

* Procuratore aggiunto presso la Procura della Repubblica di Firenze

Fonte: Il Fatto Quotidiano, 08/05/2021

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