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24 maggio 2023, una rosa chiamata Ilaria…

Mariangela Gritta Grainer il . Caso Alpi-Hrovatin, Diritti, Giustizia, Informazione, Memoria

Cara Ilaria, per questo 24 maggio ho pensato di raccontarti: di una rosa chiamata Ilaria. Di Andrea Rocchelli che abbiamo conosciuto dopo la sua morte. Di tre giornalisti che sono importanti per te, per Luciana e Giorgio, per tutti noi, e che non ci sono più: Roberto Morrione, Santo Della Volpe e Gianni Minà.

Venti anni dopo la tua uccisione insieme a Miran a Mogadiscio, in un agguato organizzato e ben preparato, due eventi, uno positivo e uno tragico, rimangono scolpiti nella tua storia.

Quello positivo: Davide, un giovane produttore di rose, crea una rosa dedicata a te: si tratta di una rosa arbustiva bianca, che si tinge di rosa poco prima di sfiorire. Fiorisce in questi giorni di solito; non l’ho vista sbocciare ancora quest’anno anche se questo è il periodo. Ho ripensato a quei giorni, a quanto fu felice Luciana per questa rosa chiamata Ilaria. In questi anni sono state tante le piazze, le scuole, le biblioteche, i parchi dedicati a te: è sempre stato un piacere sapere che tante persone volessero ricordarti e chiedere giustizia e verità insieme ai tuoi genitori e a tutti noi.

Dedicarti una rosa ci è parso un gesto molto poetico e originale: la rosa, che vedi nella foto, profuma e quel profumo che va via col vento ci fa ricordare il tuo spirito libero.

Quello tragico: Andrea Rocchelli, un fotoreporter di talento, viene ucciso da una serie ripetuta di colpi di mortaio vicino a Sloviansk in Ucraina proprio il 24 maggio 2014. Muore con lui anche il suo amico giornalista dissidente russo Andrej Mironov, mentre il fotoreporter francese William Roguelon è ferito gravemente, si salva e sarà un testimone prezioso dell’accaduto.

Sulla vicenda giudiziaria: Vitalj Markiv, cittadino italo-ucraino volontario della Guardia Nazionale ucraina, è stato condannato in primo grado a 24 anni per concorso in omicidio plurimo; in appello è stato assolto per vizio di forma, che la Cassazione ha confermato. Ma la Magistratura italiana in tutti e tre i gradi di giudizio ha cristallizzato che si è trattato di un crimine di guerra commesso dalle forze armate ucraine.

Ricordando le parole del sindaco di Bucha al Corriere della Sera il 4 aprile 2022: “I russi sparavano a tutto quel che si muove”, Elisa Signori, mamma di Andrea, ha dichiarato: “La frase mi ha molto colpito perché riecheggia, quasi testualmente, quanto un miliziano italo-ucraino della guardia nazionale (GN) ebbe a dire, sempre al Corriere della Sera, commentando l’uccisione avvenuta a Sloviansk il 24 maggio 2014. “Spariamo a tutto quello che si muove”. Non parlava dei russi, parlava di sé, dell’esercito e della GN ucraina che, dall’alto di una collina, con l’artiglieria pesante e un tiro progressivamente aggiustato e martellante, ha uccisi entrambi i due Andrea (Rocchelli e Mironov) e gravemente ferito un fotografo francese”.

Nel Donbass, in quella primavera del 2014, affondano le radici della guerra odierna. L’Ucraina è stato ed è un contesto di reato per crimini di guerra. È stata creata un’apposita commissione, presieduta da Kharim Ahmad Khan, procuratore capo della Corte penale internazionale, che esaminerà e indagherà sui crimini di guerra commessi in Ucraina da chiunque, a partire dal novembre 2013 sino ad oggi. Ecco la sua dichiarazione: “Nessuno nella vicenda ucraina ha licenza di commettere crimini nell’ambito della giurisdizione della Corte”. La famiglia di Andrea Rocchelli ha sottoposto il caso all’attenzione del tribunale dell’Aja nella convinzione che si tratti di un atto dovuto, giusto e necessario.

Questi i fatti: è giusto ricordarli anche in momenti delicati come questo. Resta confermato l’impianto delle sentenze di primo e secondo grado che indica nell’Ucraina il Paese che ancora detiene i segreti dell’esecuzione dei giornalisti e che, possiamo sostenere con certezza, non ha collaborato in nessun modo con la magistratura italiana. Anzi ha operato per sostenere la falsa versione che a sparare siano stati i russi e con comportamenti irrispettosi (a dir poco) nei confronti delle istituzioni italiane…

Tutti ora siamo concordi nel condannare i crimini di guerra perpetrati durante la sciagurata occupazione dell’Ucraina, ma è bene non usare pesi e misure diverse se crimini della stessa natura sono stati compiuti in precedenza da militari ucraini. E la ragion di stato non deve far velo al giudizio. “Vogliamo che sia posta fine all’impunità per questo delitto, consapevoli che in tal modo difendiamo la vita dei civili e dei giornalisti che operano in scenari di crisi e di guerra. L’impunità è una garanzia e una rassicurazione per chi, colpevole di crimini, può continuare a commetterli. Dunque va combattuta…”. Sono ancora parole di Elisa Signori.

C’è una rinnovata amicizia fra Italia ed Ucraina, agìta concretamente con aiuti a chi resiste all’aggressione russa, e a chi ha lasciato e lascia il paese, milioni di persone. Fra i due stati la vicenda non dovrà restare ancora trascurata perché finalmente giustizia sia fatta… Anche il nostro obiettivo, accanto alla famiglia, è che quanto accaduto il 24 maggio 2014 venga riconosciuto come un crimine di guerra e non rimanga impunito.

Cara Ilaria, ora ti racconto di Roberto Morrione che ci ha lasciato il 20 maggio 2011.

Ci manca Roberto: un uomo, un giornalista di talento, un amico. Ci manca il suo impegno, la profondità del suo lavoro i suoi pensieri lunghi, l’amore e la passione, “contagiosi”, nelle cose che faceva: tutte e sempre.

Abbiamo rinsaldato la nostra amicizia dopo il tuo assassinio cara Ilaria e quello di Miran il 20 marzo 1994: seguendo il corso delle indagini, difficili, lacunose omertose piene di carte false e depistaggi; con la sua preziosa collaborazione alle edizioni dei premi giornalistici a te dedicati. I primi premi dedicati a lui sono stati una sezione speciale del premio dedicato a te.

Possiamo solo immaginare che cosa Roberto penserebbe scriverebbe degli ultimi dieci anni e di questi giorni difficili per il nostro Paese. La guerra di aggressione della Russia di Putin nei confronti dell’Ucraina, dopo una pandemia che ha provocato morti e aumentato le disuguaglianze intollerabili, l’ambiente e le immagini drammatiche dell’alluvione dell’Emilia Romagna di questi giorni, la crisi politica economica e sociale aspra che vede la destra per la prima volta al governo dopo la Resistenza e la Liberazione dal nazifascismo, il 25 aprile 1945 ; pericolose vicende che minacciano le libertà e i diritti sanciti dalla nostra Costituzione.

Roberto sarebbe accanto al nostro Presidente della Repubblica Sergio Mattarella, presidio e garante della Costituzione. Ci rassicura sulla solidità della nostra democrazia che, ci ricorda sempre, anche negli anni più bui fece vincere la vita sulla morte. Sarebbe Roberto, altresì impegnato a chiarire ombre, spazi oscuri complicità ancora non chiarite nel nostro passato ma anche nel presente. Oggi sarebbe a Palermo a ricordare Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani: vittime della strage di Capaci, trentuno anni fa. Il giornalismo di Roberto era prima di tutto testimonianza civile, come esigono la libera stampa, il diritto di critica e il dovere di informare i cittadini.

Riporto alcuni stralci del testo di Roberto Morrione del marzo 2009, per Internazionale.

Nella grande piazza del Plebiscito, stracolma delle decine di migliaia di giovani, di cittadini, di amministratori comunali, di rappresentanti della società civile, accorsi a Napoli da tutt’Italia per dare vita alla “giornata della memoria e dell’impegno” voluta da Libera, risuonano dal palco, insieme a quelli di centinaia di vittime innocenti delle mafie, i nomi di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Sono stati assassinati a Mogadiscio quindici anni fa, quindici anni senza verità e con poca memoria, nonostante lo straordinario impegno messo in atto dai genitori di Ilaria, Giorgio e Luciana che non hanno mai cessato di lottare, di denunciare deviazioni, depistaggi, omissioni, silenzi, complicità istituzionali. Nonostante i procedimenti giudiziari avviati in mezz’Italia, ricchi di indizi e clamorose rivelazioni, ma tutti lasciati infine cadere, fino all’ultima esile speranza assegnata alla Procura di Roma per una riapertura delle indagini. Riapertura certo possibile, ma molto problematica, dopo che la Commissione Parlamentare che vi ha lavorato per anni si è conclusa nel 2006 spaccandosi fra la relazione di maggioranza, guidata dal presidente Carlo Taormina e due di minoranza, che contestavano le affermazioni del Centro-Destra. I genitori di Ilaria hanno ritenuto volgari e calunniose le conclusioni e alcune affermazioni di Taormina, volte a negare qualsiasi pista legata all’inchiesta che la giornalista conduceva sui traffici d’armi e di rifiuti tossici e a dare all’agguato un tratto casuale o al più terroristico.

Infine sono da chiarire le vicende e il ruolo di precisi personaggi che hanno certo avuto a che fare con l’inchiesta di Ilaria e che… sarebbero stati in grado di approfondirne i contorni, se non fossero stati uccisi, in circostanze ancora da chiarire…Come il maresciallo Vincenzo Li Causi, uomo dei servizi segreti militari, ucciso in una strana sparatoria in Somalia nel Novembre del ’93, dopo avere avuto un ruolo centrale nella gestione segreta a Trapani del centro Scorpione, legato all’organizzazione Gladio e ai traffici da un vecchio aeroporto militare in quella zona. E proprio a Trapani si svolge e si conclude la vicenda umana e giornalistica di Mauro Rostagno, che secondo molte circostanze e testimonianze mai del tutto chiarite avrebbe conosciuto e documentato proprio i traffici in corso da quell’aeroporto. Un delitto, il suo, con risvolti che hanno chiamato in causa Francesco Cardella, ex responsabile della Comunità Saman, amico di Bettino Craxi, già indagato per quel delitto e ora rifugiato in Nicaragua…  La strana coincidenza è che il braccio destro di Cardella in Sicilia, Vincenzo Cammisa (detto Jupiter) personaggio losco legato ad ambienti mafiosi, a sua volta in un primo momento arrestato per il delitto Rostagno, era negli stessi giorni di Ilaria a Mogadiscio, anzi sembra proprio a Bosaso, ultima tappa dell’inchiesta di Ilaria prima di tornare nella capitale somala e andare incontro all’agguato… Strane coincidenze o coperture inquietanti, dunque, sulle quali occorrerebbe aprire una nuova inchiesta a vasto raggio, per rispondere a una domanda di fondo. Chi sono i potenti personaggi che erano in cima ai percorsi dei traffici criminali e alle deviazioni della Cooperazione sui quali Ilaria era certo arrivata tanto avanti da indurli a ordinarne l’eliminazione fisica? E cosa proteggono realmente i rami deviati dei Servizi che hanno offerto una così disonorevole doppiezza?

Alla morte di Roberto Morrione ecco alcune parole di Don Luigi Ciotti

Non improvvisava, Roberto. Si preparava sempre con coscienza e scrupolosità, per lui non c’era persona, fatto, che non fossero degni di un’attenzione vera, autentica. Non ha mai sviluppato quel distacco, quel disincanto, che può sopraggiungere nel giornalista che ne ha viste tante.

Si commuoveva, Roberto, al ricordo di quei colleghi come Ilaria Alpi e Miran Hrovatin che per la ricerca della verità hanno perso la vita. Credeva a un giornalismo che fosse amore per la giustizia e distanza dal potere. Credeva che fosse questa l’etica del giornalismo, e prima ancora del giornalista.

Roberto era laico, ma da laico aveva la spiritualità, il senso dell’infinito, di tutte le persone che s’impegnano per la giustizia. Lo avevano colpito quelle parole del giudice Livatino, ucciso dalla mafia: “Alla fine della vita non ci sarà chiesto se siamo stati credenti ma se siamo stati credibili”.

Una testimonianza di Santo Della Volpe (che ci ha lasciato il 9 luglio del 2015), 20 anni dopo la tua uccisione, cara Ilaria.

Il sole calante dopo la pioggia non riscalda. A Casal di Principe, quella sera del 19 marzo 1994, il freddo penetrava nelle ossa. E quella sera, quel tramonto gelava il sangue, anche quello sul pavimento della Chiesa San Nicola di Bari, dove in quel giorno di San Giuseppe, all’alba del suo onomastico, Don Peppe Diana fu ucciso dai camorristi con 5 colpi di pistola al volto.

… …

Il giorno dopo l’assassinio di Don Diana… Altro orrore, con quella telefonata del direttore in lacrime che mi avvisò dell’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin a Mogadiscio. Una sofferenza travolse tutto; il mondo fuori ed il mondo dentro si sovrapposero per giorni interi, orrori e misteri, il viso di Ilaria e quello di Don Diana, le mamme… di Don Peppino e di Ilaria…volti segnati da segni che non sarebbero più scomparsi, quelle due, tre bare che uscivano da chiese o da studi televisivi, luoghi diversi con lo stesso intenso ed insopportabile profumo di fiori… Poi fu la storia: da un lato i misteri mai sciolti deli rifiuti tossici spediti in Somalia da mercanti di morte italiani, complici i soliti servizi segreti e le guerre, sporche, dei trafficanti di armi. Dall’altro sempre di rifiuti si parla, sotterrati in quelle che poi furono chiamate “Terre dei Fuochi”.

Gianni Minà ci ha lasciato il 27 marzo 2023. Dalla sua prefazione a “Carte false” curato da Roberto Scardova – Verdenero 2009, propongo uno stralcio.

La notizia dell’eccidio in Somalia di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin mi arrivò dietro le quinte del concertone organizzato domenica 20 marzo ’94 davanti la Basilica di San Giovanni in Laterano dalle forze progressiste che si preparavano alla consultazione elettorale del 27 e 28. La prima consultazione che avrebbe segnato la vittoria di Berlusconi e di Forza Italia…

Quella notizia di un assassinio apparentemente senza senso, legata alla piaga della malacooperazione italiana con i paesi del continente africano, sembrò infatti un segnale sinistro di un passato che non era finito e di un domani che non sarebbe cambiato. Non conoscevo personalmente Ilaria e Hrovatin. Avevo già apprezzato, tuttavia, come collega maturo, il lavoro della Alpi che, ben presto, avrei saputo essere capace di raccontare con tanta sensibilità il mondo islamico perché, come fanno i giornalisti di razza in certe occasioni, aveva impiegato il suo tempo per laurearsi in lingua araba all’Università del Cairo invece di fare subito la cronista embedded su un tank o su un camion di una delle tante armate di occupazione delle nazioni forti che vanno a saccheggiare le ricchezze dei paesi del Sud del mondo. La comunicazione, però, è un magistero complicato. Non ero sicuro che una piazza traboccante di mezzo milione di ragazzi, venuti per far festa a un modello politico che cercava unità e un po’ d’allegria, avrebbe saputo adeguare i propri umori alla tristezza improvvisa che l’assassinio di due connazionali impegnati nella ricerca della verità sui traffici di rifiuti tossici e di armi della nostra malefica “cooperazione” con la Somalia avrebbe richiesto, o meglio imposto.

Così presi per mano Piero Pelù, il leader dei Litfiba, gruppo allora fra i più amati dalle ultime generazioni, e gli chiesi di uscire con me sul palco, non per cantare, ma per commemorare il coraggio di Ilaria e Miran. Pelù capì il momento.

Uscimmo e io detti la notizia tutta di un fiato. Sulla piazza che ha visto, negli anni, tanti artisti della musica popolare moderna invocare la speranza, il rispetto dei diritti di tutti, la solidarietà, calò un silenzio assordante.

Allora chiesi di ricordare con un gesto qualunque il sacrificio di due giornalisti che l’informazione non la subivano acriticamente, ma andavano a cercare la verità anche quando era scabrosa, nei posti dove si poteva trovare e documentare. Due colleghi che non avevano tradito il loro mestiere, come è di moda sempre più spesso in un universo informativo dove l’apparenza – l’interesse del più forte – è ormai più importante della realtà. Piazza San Giovanni rispose a quell’invito con un applauso lunghissimo, commovente, di rispetto, anche se la maggior parte non conosceva Ilaria Alpi e Miran Hrovatin, perché i ragazzi i telegiornali, anche quei pochi credibili come il Tg3, li guardano poco, o distrattamente…

In studio con Luciana e Giorgio Alpi ripercorrevamo, in quel torrido luglio del ’98, le tappe della loro infinita amarezza finché, alla fine di un filmato sul ritorno a casa delle salme, Luciana si accorse che i bagagli di Ilaria e Miran, nello scalo di Luxor, in Egitto, dove l’aereo di linea era stato sostituito da un velivolo della nostra Aeronautica militare, erano legati e saldati con la ceralacca, mentre all’arrivo a Ciampino la corda che li imbrigliava era sparita.

Per caso due operatori diversi avevano diretto gli obiettivi delle telecamere sulle valigie mentre queste venivano scaricate. Solo l’angoscia di una madre poteva cogliere quel dettaglio così importante e inquietante. Sull’aereo, infatti, oltre ai militari dell’Aeronautica c’erano ufficiali del corpo di spedizione in Somalia, agenti dei servizi segreti, funzionari del nostro ministero degli Esteri e dirigenti della Rai.

Chi aveva avuto l’ardire, durante il volo, di aprire quelle borse, quei pacchi, e perché? Forse per far sparire i taccuini di Ilaria o alcune cassette di Miran? Chi aveva voluto inquinare quei reperti che solo il magistrato scelto per indagare sull’eccidio avrebbe avuto la facoltà di analizzare, di controllare? E perché tutto questo era potuto accadere senza che nessuno dei cosiddetti servitori dello Stato presenti sull’aereo lo denunciasse? Quale era il segreto di Stato che dovevano coprire? La storia della ricerca della verità sull’assassinio di Ilaria Alpi e Miran Hrovatin è zeppa di queste contraddizioni, di queste violenze.

Aggiungo solo, cara Ilaria, di bugie carte false depistaggi ormai conosciamo quasi tutto, dopo la scarcerazione di Hashi Omar Hassan, in carcere innocente per 17 anni. E dopo il suo assassinio a Mogadiscio il 22 giugno 2022.

#NoiNonArchiviamo

Fonte: Articolo 21

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