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Caso Brusca. Perché allo Stato servono i “pentiti”

Gian Carlo Caselli il . Giustizia, Mafie, Sicilia, Società

La scarcerazione di Giovanni Brusca divide perfino i familiari delle vittime, pur accomunati da un immenso dolore dell’anima che non lascia respiro. Alcuni parlano di tradimento. Altri osservano che umanamente la notizia addolora, ma è legge.

Come Procuratore di Palermo ho seguito molto da vicino l’attività di Polizia sfociata nella cattura di Brusca. E sono stato tra i primi che lo hanno interrogato.

Ma ai ricordi personali preferisco una riflessione personale sul fenomeno e sulla legge dei cosiddetti “pentiti”.

Chiariamo subito. Ovunque nel mondo le indagini contro il crimine organizzato si avvalgono dei pentiti. Con la differenza che noi li processiamo e li condanniamo, sia pure a pene ridotte, mentre altrove (ad esempio in Usa) possono godere di una completa impunità per i reati commessi.

Il perché è presto detto.

In quanto fondato su vincoli associativi segreti, il gruppo mafioso è come una fortezza. Senza pentiti non si riesce ad espugnarla. Se va bene, si scalfisce qualcosa all’esterno. Invece, coi pentiti si possono sfondare le mura della fortezza mettendone a nudo le parti più segrete. In tal caso per la fortezza/mafia i risultati sono disastrosi. Questo è il dato di partenza da cui muovere.

Obiezione: i mafiosi “pentiti” sono figure eticamente negative. Guai però a sottintendere che lo sono perché “parlano”. Così, applicheremmo il codice dell’omertà dei boss. Una modalità che non aiuta a capire.

Si dice ancora: non si possono legittimare coloro che sono stati mafiosi. Mafiosi, è vero, ma proprio per questo preziosi dal punto di vista investigativo-giudiziario. Se non fossero stati mafiosi, non avrebbero informazioni sulla mafia, non svelerebbero i segreti che gli onesti non conoscono. Non è cinismo: si tratta di restare agganciati alla realtà.

Dunque allo Stato i pentimenti dei mafiosi sono utili. Ma proprio per questo uno Stato responsabile deve incentivarli. Con misure previste da una legge ad hoc, senza sotterfugi. La legge che Falcone ha chiesto a gran voce perché indispensabile. E siccome tardava, arrivò a temere che dietro la «perdurante inerzia nell’affrontare i problemi del pentitismo» si nasconda la voglia di non «far luce sui troppi inquietanti misteri di matrice politico-mafiosa per evitare di rimanervi coinvolti».

Dunque, se tutto funziona secondo le regole (in particolare quella che senza adeguati riscontri le parole non sono prove) il contributo dei collaboratori di giustizia è davvero insostituibile.

La prova regina? L’impunità della mafia, dopo anni e anni di “convivenza”, crolla con il maxiprocesso del pool di Falcone e Borsellino, fondato proprio sulla collaborazione dei pentiti: Buscetta, Contorno, Calderone e Marino Mannoia. Buscetta in particolare consegnò a Falcone il codice per decifrare Cosa nostra, una lingua di fatto ancora sconosciuta. Più che una svolta, per l’antimafia l’inizio di una nuova era.

Del resto, che il pentimento sia un siluro sotta la linea di galleggiamento dei mafiosi lo prova Salvatore Riina: 25 maggio 1994; nelle pause di un’udienza il capo dei capi si scaglia contro il “complotto” ordito dai magistrati della Procura di Palermo che dopo le stragi del 1992 stavano smantellando la sua consorteria criminale; parla di “pentiti manovrati” e chiede di cancellare la legge sui collaboratori…

Riina faceva il suo mestiere. Ma ben altri devono essere i pensieri di chi voglia difendere la democrazia dalla mafia.

Fonte: La Stampa, 02/06/2021

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