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Torna a Vittoria (RG) il killer di Raffaele Blanco, vittima innocente

Giuseppe Bascietto il . Mafie, Memoria, Sicilia

raffaele blancoQuesta storia inizia come un romanzo, con tre colpi di pistola, sparati in una sera d’inverno, il 2 marzo del 1994 a Scoglitti, frazione marinara di Vittoria. Il paese delle serre e delle primizie.

Quella sera lungo una strada viene ucciso Raffaele Blanco, un ragazzo di 18 anni che aveva un futuro davanti a se. Voleva una vita normale, fidanzarsi, sposarsi, avere dei marmocchi tra i piedi. Ma non è stato possibile. Quella sera la sua vita è stata stroncata e con essa tutti i sogni e le speranze che Raffaele aveva. Era quello che si dice un bravo ragazzo.

Me lo ricordo piccolino che veniva con la nonna a casa mia. Era intelligente e vispo. Ma soprattutto era buono. E lo si capiva dagli occhi, se è vero che sono lo specchio dell’anima. Quando veniva a casa giocava e faceva domande. Una dietro l’altra. Non facevi in tempo a rispondere che già ne aveva un’altra da fare. Non potrò mai dimenticare il suo sorriso che gli illuminava gli occhi e il viso e trasmetteva allegria, ottimismo, positività. Difficile non volergli bene.

Raffaele, in linea con quello che era il suo carattere, tendeva a fidarsi delle persone. E quella tendenza alla fiducia l’aveva riposta nell’ex cognato, Biagio Gravina, un uomo legato ai clan criminali della zona che, proprio negli anni dell’adolescenza di Raffaele, stava conducendo una sua guerra personale per conquistarne i vertici.

In quegli anni Vittoria usciva da una guerra di mafia violentissima. Sull’asfalto c’era ancora il sangue degli oltre cento omicidi commessi in poco meno di tre anni, tra il 1989 e il 1992, da Claudio Carbonaro e i suoi fratelli. E nell’aria l’odore della polvere da sparo. Alla fine del 1992 i capi dell’organizzazione erano stati arrestati. Fuori c’erano solo i gregari che di li a poco sarebbero finiti in carcere e chi aveva avuto la fortuna di rimanere fuori ne aveva preso il posto.

Ed è proprio in questo periodo di confusione che si formano bande di ragazzotti che si facevano la guerra per il controllo del territorio. Il cognato di Raffaele era entrato nel mirino di una di queste bande capeggiate da Salvatore Ferrera, Vincenzo Alessandrello, Giuseppe Puglisi e Giuseppe Lo Presti.

Ma chi sono veramente Ferrera, Alessandrello, Puglisi e Lo Presti? Delinquenti di piccolo cabotaggio che, in assenza di personaggi criminali di spessore, stavano scalando i vertici di quello che rimaneva del Clan Carbonaro-Dominante dopo gli arresti che lo avevano decimato. Ragazzi di vita e di spessore che insieme a Salvatore Ferrera, detto Turi u funtanieri, avevano preso il posto di Angelo Di Stefano che era finito in carcere. Insomma ricoprivano ruoli importanti e formavano anche il gruppo di fuoco.

Tutti erano considerati dalle forze dell’ordine personaggi di elevato spessore criminale. Dal clan avevano ereditato le piazze di spaccio e i contatti per acquistare la droga e le armi. I loro modi erano molto vicini a quelli dei gangster americani. Andavano in giro a terrorizzare la gente sicuri dell’impunità che gli derivava dall’appartenenza ad un clan mafioso. Il loro raggio d’azione era l’intera provincia di Ragusa. Non avevano limiti territoriali. Se si fosse creata l’opportunità di sconfinare su Gela l’avrebbero presa al volo. Volevano tutto e subito. Soldi, potere, donne e coca. Un connubio micidiale. Ed è in questo turbinio di emozioni che avevano deciso di uccidere chiunque si fosse messo in mezzo tra loro e il potere. Ormai erano considerati a tutti gli effetti i nuovi capi.

Ed è in questo periodo che il gruppo capeggiato da Biagio Gravina si scontra con loro. La decisione viene presa immediatamente. “Gravina deve morire”, affermano in una delle riunioni che facevano periodicamente. “Non possiamo tollerare oltre certi atteggiamenti” ripetono Ferrera, Alessandrello, Puglisi e Lo Presti.

Così la sera del 2 marzo scatta l’agguato. Vincenzo Alessandrello intercetta la macchina di Gravina a Scoglitti e dopo un breve inseguimento la blocca. Lui scende dalla sua auto e inizia a sparare. Biagio viene ferito e riesce a scappare.

Raffaele, ignaro di quello che faceva il cognato, si trovava con lui perchè gli aveva chiesto di fargli compagnia prima di fare rientro a casa, viene colpito da alcuni proiettili. La morte è immediata. Il suo corpo non verrà ritrovato subito ma qualche giorno dopo in un fondo vicino ad Acate. Lo avevano gettato in un pozzo nella speranza che non fosse trovato. Speranza che viene sbriciolata da una segnalazione anonima alle forze dell’ordine che indica con precisione il luogo dove era stato gettato il cadavere.

Polizia e Carabinieri indirizzano subito le indagini verso i nuovi capi clan. Ma immediatamente si scontrano con un muro di omertà e prima di arrivare all’arresto di Alessandrello devono affrontare anche depistaggi, bugie e alibi costruiti ad arte dagli amici del Killer. Ma il tutto dura solo pochi giorni. Alessandrello verrà arrestato e condannato per l’omicidio di Raffaele che nel 2006 sarà riconosciuto vittima di mafia da un tribunale della Repubblica.

Nel corso degli anni Alessandrello diventerà collaboratore di giustizia. Confesserà reati, farà arrestare persone, si auto accuserà e sconterà la sua pena ridotta così come prevede la legge. Ma la legge non impedisce che un collaboratore di Giustizia possa ritornare nella città dove ha commesso reati e fatto arrestare persone. Alessandrello in barba al dolore causato è ritornato da qualche mese a Vittoria. Si vede in giro in tutta la sua arroganza e tracotanza.

“Purtroppo” spiega Carmelo Incardona, avvocato e vittima di mafia, il cui padre è stato ucciso perché non voleva pagare il pizzo al clan Carbonaro – Dominante, “c’è un vuoto normativo incomprensibile. La legge andrebbe modificata proprio per evitare di aggiungere dolore al dolore per la perdita del proprio caro. E’ successo alla mia famiglia con i killer di mio padre che sono ritornati a Vittoria, sta succedendo adesso con il killer di Raffaele Blanco, ritornato in città e incurante del fatto che la sua presenza crea smarrimento e preoccupazione nei familiari”.

Insomma sarebbe opportuno che il Prefetto, il Questore e le forze dell’ordine attenzionassero il fenomeno dei collaboratori di giustizia che piano piano e a ondate regolari stanno rientrando in città. “La misura è colma, continua l’avvocato Incardona. Infatti si tratta di un fenomeno preoccupante che ormai viene denunciato da tempo. Da quando Paolo Borrometi sul suo sito aveva lanciato l’allarme del ritorno di Claudio Carbonaro a Vittoria. Adesso c’è il caso di Alessandrello che sta destando allarme e preoccupazione.

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Stidda. L’altra mafia raccontata dal capoclan Claudio Carbonaro

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