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Il poliziotto Beppe Montana e gli studenti di Palermo

Dario Montana * il . Giovani, Mafie

Beppe_MontanaPremetto che il mio non sarà un vero e proprio intervento. A differenza degli altri autorevoli relatori che siedono a questo tavolo, non ne avrei le competenze. Il mio contributo ha il valore e il limite di una testimonianza. Quella del fratello di un poliziotto ucciso dalla mafia che grazie a Libera, come tanti altri familiari di vittime innocenti delle mafia, sta cercando di trasformare il proprio dolore in impegno.

Ma permettetemi di partire proprio dalla storia di mio fratello Beppe, un ragazzo di trent’anni che ha realizzato il proprio sogno: quello di dirigere una sezione della squadra mobile.

Beppe arriva a Palermo all’indomani dell’omicidio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, di sua moglie Emanuela Setti Carraro e dell’agente di scorta Domenico Russo, nel 1982. Viene ucciso il 28 luglio del 1985. In soli tre anni di attività sono tantissimi i suoi successi professionali, che vanno dai numerosissimi arresti di latitanti, alla scoperta di depositi di armi e raffinerie di droga. Le sue intuizioni più grandi sono state certamente, la creazione della sezione “Catturandi” e l’introduzione di un nuovo modello investigativo, basato sulla frequentazione e conoscenza del territorio, dove cercava i latitanti. Riteneva, infatti, che un capomafia non poteva allontanarsi per troppo tempo dal suo territorio, perché così facendo avrebbe perso il suo potere. Ma è stato soprattutto il protagonista principale di una vera e propria rivoluzione culturale di quella squadra mobile.

Quando ai funerali di Lillo Zucchetto, un bravissimo investigatore della Catturandi, si rese conto che in chiesa non c’erano i palermitani, ma solo poliziotti, diede vita al Comitato Lillo Zucchetto, girando e incontrando gli studenti. Questa che oggi sembra una banalità, ai mie occhi rappresenta la più importante innovazione realizzata da Beppe.

Infatti, se ragioniamo insieme e facciamo mente locale su quelli che erano i rapporti tra la polizia e gli studenti nel nostro paese, dopo il ’68 fino ai primi anni ’80, ci vengono in mente gli anni terribili del ’77, la stagione del terrorismo. Non possiamo non ricordarci del sangue versato sulle nostre strade durante gli scontri tra Polizia e studenti. Le terribili immagini dei fatti di Genova, in occasione delle manifestazione sul G8, quella che è stata definita un’operazione di “macelleria messicana”, erano in quegli anni la normalità.

Ma grazie a quella squadra mobile, grazie a Beppe che incontrava gli studenti e spiegava loro chi erano e come vivevano i poliziotti, chi erano e come vivevano i mafiosi, gli studenti, ma anche i palermitani che incontrava durante le riunioni delle prime associazioni antimafia, cominciarono a capire e a fare il tifo per la polizia e la magistratura più impegnata. Ed io credo, come ripeteva spesso mio fratello, che “i nostri successi sono determinati non solo dalle investigazioni ma anche dal progresso culturale”.

Con il suo lavoro, condiviso dai suoi ragazzi, Beppe ha dimostrato che le mafie possono essere sconfitte, basta volerlo.

E se ancora oggi si parla di mafie, forse è perchè molti vogliono ancora conviverci, per continuare ad utilizzarne i servizi e sfruttare la loro capacità di tessere relazioni. Penso soprattutto a quella zona grigia fatta da politici, burocrati, imprenditori e tanti liberi professionisti, che devono i propri successi professionali proprio a questi rapporti collusivi con la criminalità organizzata ed alle decisioni politiche di chi non ha investito risorse a vantaggio di quegli eccellenti investigatori, preferendo lasciare il controllo dell’illegalità alla stessa criminalità organizzata; una politica che ha perfino affidato alla mafia la gestione del welfare nelle periferie delle nostre città, abbandonando sempre più progressivamente la pratica delle politiche sociali per dare risposte al disagio delle persone.

Ma fortunatamente a Palermo ci sono stati poliziotti che come Beppe conducevano le loro indagini facendosi prestare il binocolo dall’ottico sotto casa, la macchina dalla fidanzata o ancora continuando a pagare di tasca propria un appartamento per fare gli appostamenti, la benzina per il piccolo motoscafo con il quale osservare le coste del litorale palermitano scoprendo diversi covi di latitanti. Non si fermavano perché avevano chiaro il loro obiettivo.

Pensate che io vengo da una città come Catania, dove ci sono ben due istituti penali per minori, Bicocca ed Acireale in solo 20 Km, e lì troviamo rinchiusi i nostri ragazzi, ai quali abbiamo rubato il loro futuro, perché nessuno si è mai occupato di seguire i loro talenti, che solo la mafia è stata capace di riconoscere e utilizzare a fini illegali!

Catania è stata definita da Pippo Fava, un grande intellettuale ucciso dalla mafia, la città dei quattro cavalieri dell’apocalisse mafiosa, che hanno trasformato un volgare mafioso in un imprenditore di successo, affidandogli il compito di garantire loro sicurezza personale e la loro crescita economica. Alle inaugurazioni delle concessionarie d’auto del boss mafioso Santapaola erano presenti il vescovo e il prefetto della città, e il questore del tempo frequentava la sua riserva di caccia. La famiglia mafiosa dei Santapaola è l’unica famiglia mafiosa catanese organica a Cosa Nostra palermitana.

Tutto questo per dirvi che certo la repressione è importante, la sicurezza è e deve essere una priorità, ma dobbiamo aver chiaro che cosa si intende per sicurezza.

Come prima cosa, la sicurezza non può mai essere slegata dalla giustizia, e quest’ultima deve necessariamente essere anche giustizia sociale. Dobbiamo uscire dalla trappola delle parole, da un clima di insicurezza creato ad arte da chi alimenta le nostre paure e ci spinge a considerare l’altro come un nemico. Le nostre paure aumentano, anche se fortunatamente non viviamo più come nel periodo degli anni ottanta, in città che contavano oltre 100 omicidi l’anno. Ed anzi il tasso degli omicidi nel nostro paese è diminuito anche in raffronto a tanti paesi europei, quali Belgio, Finlandia, Francia, Svezia e Germania, come ci ricorda Rocco Sciarrone nel suo ultimo lavoro “Le mafie nell’economia legale”.

Io mi sento semmai insicuro perché vivo in una terra, la Sicilia, con il tasso di emigrazione più alto d’Italia: sono settecentosettantamila i siciliani residenti all’estero, praticamente più degli abitanti della città capoluogo di regione, a causa dell’altissimo tasso di disoccupazione.

La presenza della mafia è responsabile dell’inefficienza del Mercato, che genera una rendita di posizione a discapito delle imprese concorrenti e di tutta la collettività. Per non parlare del dissesto finanziario dei nostri comuni, determinato da pratiche corruttive. In questo scenario desolante, perfino la meritoria opera della magistratura con i propri provvedimenti di sequestro e confisca, non accompagnati dalla capacità di garantire la transizione alla legalità delle imprese confiscate, determina il terribile senso comune che la mafia dà lavoro. Questo ovviamente è falso. E dobbiamo impegnarci sempre di più per dimostrare che la legalità conviene.

Stiamo assistendo, altresì, ad un fenomeno nuovo ed inquietante: i nostri giovani prima si formavano nelle prestigiose università del sud, poi scappavano perché le loro capacità non venivano riconosciute; oggi, i nostri ragazzi ci chiedono di andare a formarsi fuori, perché non credono più nel nostro sistema di formazione, sempre più clientelare e corrotto, Come testimonia la recentissima inchiesta della Procura di Catania, denominata “Università bandita”.

La falsa retorica della sicurezza e la stessa parola legalità, vengono sempre più svuotate di contenuti; l’incapacità di assicurare la giustizia sociale si nasconde dietro la stigmatizzazione di interi gruppi sociali e si assiste all’emanazione di norme che alimentano l’odio verso il diverso e considerano la povertà una colpa. Incapaci di dare risposte si alimenta l’odio.

La parola d’ordine diventa “prima gli italiani”, accompagnata dall’esibizione irrazionale della repressione verso i più poveri. Pensate alle Ordinanze sindacali contro i senza fissa dimora: ancora una volta, invece che dare risposte, si alimenta l’odio. Parole importanti come “legalità”, vengono pronunciate da chi con i suoi comportamenti la nega nei fatti.

La pratica degli sgombri degli spazi abbandonati, dove la legalità sostanziale viene praticata con le attività di doposcuola, la realizzazione di spazi comuni, la cura delle relazioni. Questi sgombri vengono esibiti e mostrati con tutta la violenza che si portano dietro le immagini che abbiamo visto in Tv e sui giornali. Vi ricordo solo quel bambino, di cui non conosciamo il nome, che viene portato via dalla sua casa, dai suoi amici e che sotto gli occhi di poliziotti in assetto di guerra si allontana piangendo ,con i suoi libri. O il corpo ritrovato di quel bambino al quale i genitori avevano cucito all’interno dei suoi vestiti la pagella, prima di di iniziare il terribile viaggio verso la speranza di una vita migliore.

La sicurezza, la legalità, la giustizia possono essere perseguite solo contrastando le diseguaglianze, le mafie e la corruzione; non possono essere piegate con l’alibi della crisi economica, per giustificare ogni possibile limitazione dei diritti sociali e lo smantellamento del sistema del welfare, con il conseguente tradimento dei valori posti alla base della nostra Costituzione, che impone al legislatore di assicurare la massima inclusione possibile nel godimento dei diritti fondamentali.

Permettetemi, infine, di concludere con un passaggio sulla memoria.

Noi familiari delle vittime innocenti delle mafie abbiamo la grande ambizione di rendere le nostre storie patrimonio comune di una memoria collettiva, organica ad una Costituzione che contrasta ogni fascismo, in quanto basata sui valori comuni posti alla base della lotta di liberazione.

Per noi familiari, fare memoria, vuol dire ricordare i nostri cari, ma anche delineare il modello di democrazia che vogliamo realizzare. Per questo la nostra antimafia sociale ha al centro la cura delle relazioni e il rispetto della persona umana; non può prescindere pertanto dall’osservazione di quello che sta succedendo oggi nel mare Mediterraneo. La memoria dei nostri cari di cui leggiamo i nomi ogni 21 marzo, non può non riguardare anche le migliaia di persone di cui non conosciamo neanche il nome, morte nel mare Mediterraneo a causa di politiche aberranti, che disprezzano i fondamentale diritti umani.

Anche per questo spero di rincontrarvi il 21 marzo a Palermo, dove leggeremo insieme quei nomi e continueremo a rinnovare la nostra promessa di impegno, perché per tutti sia assicurato il diritto alla vita e alla speranza nella costruzione di un mondo migliore.

* Pubblichiamo il testo dell’intervento tenuto nel seminario “La lotta contro le mafie tra i falsi idoli della legalità e della sicurezza”, nell’ambito del convegno “Sicurezza? SIcura l’Umanità e la terra” (Zugliano UD, 26/29 settembre 2019)

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