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“Yo Soy y Existo”. Il grande grido di dolore delle carceri spiegato dai detenuti messicani

Nando dalla Chiesa il . Senza categoria

A un certo punto si alzano gli attori. Più attrici, in verità. Da punti sparsi della sala. Progressivamente. Sono una quindicina.

Sorprendono il pubblico dell’Istituto Messicano di Giustizia (IMJUS), nel signorile quartiere di Coyoacán, con le loro grida improvvise e le magliette multicolori sulle quali sta scritto: “Yo Soy y Existo. Di nuovo progressivamente si dispongono ai piedi del palco. Seduti o accovacciati.

In una platea venuta a discutere i grandi temi della giustizia fa irruzione, senza preavviso, la denuncia più diretta della condizione carceraria. Qualcosa che vale per il Messico come potrebbe valere per la maggioranza del pianeta. Attrici e attori prendono voce in successione, man mano che ciascuno di loro grida ai presenti la sua storia, le ingiustizie subite. Ne esce una specie di canto dolente e di resurrezione che passa per le espressioni tese e gli occhi spalancati che si posano sulle prime file del pubblico.

A un certo punto si alza un grido corale in musica, duro e sincopato. Sembra un canto di liberazione contro l’ingiustizia che si consuma nei luoghi della giustizia. «Sono stata in carcere trentun anni per un delitto che non ho mai commesso» è l’esordio raggelante di un’attrice.

La curiosità si mescola a un inconfessato senso di colpa. Si afferma l’idea pungente che quei quei fatti accadano ogni giorno senza che alcuno ne abbia davvero consapevolezza. L’imprevista convinzione di essere immeritatamente privilegiati, davanti a quello spettacolo urticante. Per le biografie che si intravedono dietro le parole, per i timbri esplosivi della narrazione e anche per quei particolari tratti fisici che si sposano con il “Yo soy y existo”.

Giganteggia nella percezione di tutti il lavoro di chi ha incoraggiato e guidato lo spettacolo, di chi ha formato all’arte e alla comunicazione teatrale persone che ne erano lontanissime.

Quei quindici attori e attrici costituiscono infatti oggi una compagnia teatrale vera e propria, la Compañía Teatral de Personas Liberadas (termine che si è imposto nella cultura messicana forse più che nella nostra); e portano dove possono un messaggio che è di accusa verso le istituzioni ma anche verso se stessi . Luchar contra la puta que gobierna mi interior, ritmano insieme nella parte finale. Lottare contro il male che mi governa l’animo. Come a non voler scaricare solo sugli altri responsabilità anche proprie. Uno scatto di orgoglio che ha conquistato la platea.

Ho pensato in quei momenti così intensi al grande lavoro compiuto da stuoli di volontari in alcune carceri italiane, come – solo per fare due esempi – alla Fortezza di Volterra o all’alta sicurezza femminile di Vigevano. E in generale a questo grande movimento culturale che attraversa le carceri in tanti luoghi del mondo.

Ho pensato anche a un saggio “scientifico” assai disinvolto letto un anno fa, e portato alla mia attenzione da una prestigiosa rivista di diritto. Tutte le carceri messicane vi erano rappresentate come luoghi di abiezione e di violenza. Come conciliare una tesi simile con quello che ho visto e ascoltato, e che non è affatto un’eccezione?

Gli interlocutori messicani che qualcosa in più sanno di queste cose, mi hanno spiegato che esistono in Messico due livelli carcerari: quello dei singoli stati dove comandano i gruppi criminali e quello federale molto più attento ai diritti umani e alla attività rieducativa in carcere.

Fatto sta che nel clima colto e urbano in cui tutto è accaduto ho colto la scintilla di un’energia liberatoria. Forse è per questo, e per una suggestione linguistica che veniva da lontano, che mi è parso per un attimo soltanto di risentire il canto degli Inti Illimani. Magari un richiamo peregrino.

Sicuramente la certezza, una volta di più, che sappiamo una briciola di ciò che dovremmo sapere. Proprio perché “Yo soy y existo”.

Storie Italiane, Il Fatto Quotidiano, 05/02/2024

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