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Grimilde, da Brescello in poi: le nuove condanne alla ‘ndrangheta emiliana

Sofia Nardacchione il . Emilia-Romagna, Giustizia, Mafie

operazione grimildeLa ‘ndrangheta emiliana colleziona nuove condanne, questa volta ai danni del gruppo che faceva base a Brescello, il primo – e al momento unico – comune sciolto per mafia in Emilia-Romagna.

Siamo ancora all’interno di uno degli ormai numerosi procedimenti giudiziari nati dal maxiprocesso Aemilia: Grimilde, la cui sentenza di primo grado del rito abbreviato è stata emessa il 26 ottobre scorso nell’aula bunker del carcere della Dozza, a Bologna.

231 gli anni di carcere comminati, 41 su 48 gli imputati condannati tra coloro che hanno scelto di essere giudicati secondo il rito che permette lo sconto di un terzo della pena. Le accuse sono di associazione mafiosa, estorsione, tentata estorsione, trasferimento fraudolento di valori, intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, danneggiamento, truffa aggravata dalle finalità mafiose. L’associazione è la stessa, se non un’estensione di quella già processata nel maxiprocesso, condannata in un procedimento che mette in luce le modalità della ‘ndrangheta con base in Emilia-Romagna: i reati sono di natura prevalentemente economica, sempre aggravati dal metodo mafioso, legati all’infiltrazione nel tessuto imprenditoriale della regione.

Due gli aspetti principali che emergono da questa sentenza: il ruolo della politica nel radicamento della ‘ndrangheta, rappresentato in questo caso dalla condanna a 20 anni ai danni di Giuseppe Caruso, ex presidente del consiglio comunale di Piacenza, che all’epoca dei fatti era funzionario dell’Agenzia nazionale della Dogana e avrebbe in quel ruolo facilitato la cosca, aiutandola anche ad accedere a fondi europei in ambito agricolo.

E l’operatività di una cosca che non si è fermata con gli arresti del 28 gennaio 2015 nell’ambito dell’operazione Aemilia: le centinaia di persone arrestate non hanno fermato l’associazione mafiosa, che si è reinventata e ha cambiato modalità, affinando i reati di natura economica: la consorteria ‘ndranghetista, utilizzando metodi tipicamente mafiosi, effettuava una serie di investimenti, apriva e chiudeva società di comodo e faceva affari anche con imprenditori di livello nazionale.

In mezzo, ci sono truffe ai finanziamenti europei, sfruttamento lavorativo, minacce: nel giugno del 2017, avevano spiegato gli investigatori dopo l’operazione del giugno del 2019, Francesco Grande Aracri e il figlio Salvatore avevano un progetto di costruzione di 350 appartamenti a Bruxelles. E, per i lavori, cercano operai da sfruttare, con turni di lavoro anche di quindici ore al giorno, senza il riposo settimanale, con una paga di 8/9 euro l’ora.

Francesco Grande Aracri è un nome tornato alle cronache più volte in questi anni, a partire dal 2016, quando Brescello è stato sciolto per mafia. La base, però, è rimasta il comune in provincia di Reggio Emilia, al confine con Parma, simbolo di un vero e proprio controllo del territorio. Francesco, fratello del boss Nicolino Grande Aracri, è considerato il vertice dell’associazione colpita da Grimilde e verrà giudicato nel rito ordinario del processo che inizierà 16 dicembre 2020 a Reggio Emilia per 22 imputati. Il figlio Salvatore, invece, è stato condannato in primo grado nel rito abbreviato: 20 anni anche per lui, come per Giuseppe Caruso. E poi ci sono Claudio Bologna, condannato a 11 anni e 8 mesi, Albino Caruso, il fratello di Giuseppe, a 12 anni, Francesco Muto a 11 anni e 2 mesi, Antonio Silipo a 8 anni e 4 mesi, Leonardo Villirillo a 10 anni e 10 mesi, Pascal Varano a 11 anni e 9 mesi.

Cognomi più o meno già sentiti, che vanno da boss già condannati in altri procedimenti a quelli di coloro che sono entrati a far parte con questa sentenza della cosiddetta ‘zona grigia’, fatta di imprenditori, politici, professionisti collusi con l’associazione mafiosa, necessari per penetrare il tessuto economico legale del territorio, come dimostra, tra i tanti casi, l’Affare Oppido.

Un affare nato per ottenere una somma di denaro spettante sulla base di una falsa sentenza, attraverso un piano criminale particolarmente elaborato dal punto di vista tecnico e che – come scrive Libera contro le mafie nel comunicato pubblicato a seguito della sentenza – “fornisce una palese dimostrazione della pervasività degli interessi del sodalizio di ‘ndrangheta allorché questi abbia l’opportunità di truffare somme illecite attraverso il rilevante contributo di funzionari infedeli dello Stato e di professionisti che prestano la propria opera intellettuale al servizio del malaffare”.

Truffe, estorsioni, sfruttamento del lavoro, intestazioni fittizie. Cognomi riconducibili a una lunga storia di ‘ndrangheta e cognomi di imprenditori e professionisti emiliani. Si arriva così a quella sindrome di Grimilde da cui prende il nome l’operazione che ha messo alla luce gli affari ‘tentacolari’ della ‘ndrangheta emiliana e di quei professionisti che l’hanno agevolata. Perché la sindrome di Grimilde è quella patologia che colpisce chi non riesce a guardarsi allo specchio, come la Strega di Biancaneve.

Ma questa non è una fiaba, è la realtà di un’associazione mafiosa e dell’omertà diffusa anche sul territorio emiliano-romagnolo. Lo spiegava Franco Roberti, ex procuratore nazionale antimafia, e rappresenta purtroppo la realtà del territorio: “Passata l’indignazione del momento, passa anche l’attenzione e dunque la lotta. Questo è possibile proprio per via della «sindrome di Grimilde».

Allontanarsi dallo specchio è un modo per scansare il problema. E raccontarsi una bugia”. E, aggiungeva, corruzione e criminalità organizzata “sfruttano la nostra allergia a guardarsi allo specchio, è la «sindrome di Grimilde»”.

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Grimilde, ovvero la ‘ndrangheta in salsa emiliana

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