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Totò e Matteo, i boss legati dalle stragi

Rino Giacalone il . Giustizia, Mafie, Sicilia

Falcone_CapaciA Caltanissetta scritta una nuova pagina giudiziaria sulle stragi mafiose del 1992. Ergastolo per il latitante Messina Denaro, sostenne e fece propria la decisione stragista di Riina.

Non era una sentenza scontata nè una sentenza sprecata perchè imputato un super boss della mafia, Matteo Messina Denaro, 58 anni, ricercato da 27 anni. È una sentenza che sicuramente nelle motivazioni collocherà buona parte di quei tasselli che mancano nel puzzle giudiziario che ricostruisce le stragi mafiose del 1992, quelle di Capaci e Via D’Amelio.

Ci sono volute oltre tredici ore di Camera di consiglio per la Corte di Assise di Caltanissetta, presidente giudice Roberta Serio, per arrivare a pronunciare quasi alla mezzanotte di martedì scorso la sentenza di ergastolo per il capo mafia di Castelvetrano Matteo Messina Denaro. I giudici hanno accolto la richiesta di carcere a vita pronunciata dal procuratore aggiunto nisseno Gabriele Paci, al termine di una lunga requisitoria durata otto udienze.

La ricostruzione del magistrato nella sua requisitoria è stata dettagliata: Matteo Messina Denaro partecipò con Totò Riina a pianificare all’inizio degli anni ’90 l’azione stragista contro le Istituzioni: «era rimasto fuori dai processi per le stragi del ’92 anche a causa di alcuni pentiti che avevano inquinato il pozzo delle indagini». La ricostruzione processuale ha svelato l’azione di Cosa nostra, la mafia si è mossa pianificando l’azione stragista, prolungatasi fino al 1993, come se stesse pensando ad un golpe, dopo essersi resa conto che niente poteva accadere per annullare la sentenza del maxi processo di Palermo.

Matteo Messina Denaro, conferma la sentenza di stanotte, ebbe un ruolo nelle stragi di Capaci e Via D’Amelio dove in una mattanza di sangue vennero uccisi i magistrati Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e Paolo Borsellino e otto poliziotti che facevano parte delle loro scorte, Vito Schifani, Antonio Montinaro, Rocco Dicillo, Emanuela Loi, Eddie Walter Cosina, Agostino Catalano, Vincenzo Li Muli e Claudio Traina.

«L’istruttoria di questo processo è stata difficile perché abbiamo fatto delle domande vent’anni dopo a persone a cui non avevano mai fatto domande del genere». Nuove testimonianze e una rilettura di vecchi verbali, hanno consentito alla Procura nissena di aggiornare la leadership all’interno della cupola mafiosa siciliana e della mafia trapanese. Totò Riina e Matteo Messina Denaro, uno a fianco dell’altro, il secondo un frutto marcio, tale e quale a ciò che era già il primo.

Ma Messina Denaro prima di pensare alle bombe si occupò di eliminare gli avversari interni a Cosa nostra che potevano indebolire la scelta stragista del boss di Corleone. Addirittura nella ricostruzione giudiziaria si sospetta che contrario fosse proprio don Ciccio Messina Denaro, che preferì farsi da parte lasciando al figlio Matteo il bastone del comando della mafia trapanese. I pentiti hanno raccontato di come Riina parlava di Matteo Messina Denaro «la luce dei suoi occhi». Il padre, don Ciccio Messina Denaro, il patriarca mafioso del Belice, lo mise nelle mani di Riina «e io l’ho fatto buono – diceva il capo dei capi corleonese – ricordando che il giovane Matteo Messina Denaro gli era cresciuto sulle ginocchia».

Il boss di Castelvetrano è l’ultimo mafioso custode dei segreti delle stragi ancora libero:  l’ex boss Giovanni Brusca fornisce una indicazione fondamentale, alla fine del ’92 Riina gli fece una confidenza: «Guarda che se mi succede qualcosa i picciotti, Giuseppe (Graviano ndr) e Matteo (Messina Denaro ndr), sanno tutto». Matteo Messina Denaro è, per esempio, a conoscenza che all’inizio degli anni ’90 il capo dei capi Totò Riina formò un gruppo di persone fidate, la «supercosa», gruppo che dopo l’arresto di Riina passò sotto il controllo del capo mafia castelvetranese, «un gruppo di persone pronto ad uccidere». Messina Denaro custodirebbe l’archivio segreto che era nascoso nella villa-covo di Riina a Palermo, Bagarella lo prelevò dopo la cattura del boss per passarlo al mafioso trapanese.

Le stragi mafiose del 1992 vennero decise in riunioni a Castelvetrano ed Enna, quando i boss acquisiscono consapevolezza che non ci sarà mai alcun annullamento in Cassazione della sentenza del maxi processo di Palermo.

«Il protagonismo di Matteo Messina Denaro lo troviamo nell’intera stagione stragista – aveva detto il Paci oggi reggente della Procura antimafia di Caltanissetta e tra i dieci candidati in corsa per l’incarico di capo della Procura di Trapani – e il suo nome è il collante tra diversi ambienti che si coagularono in quel periodo».

Messina Denaro voleva colpire i magistrati ma in particolare Paolo Borsellino. «Borsellino da tempo era nel mirino di Matteo Messina Denaro – aveva ancora sottolineato nella requisitoria il pm Paci – perché poco prima delle stragi aveva chiesto l’arresto del padre e per aver patrocinato la collaborazione di alcuni pentiti». «Per Matteo Messina Denaro, il magistrato Borsellino era colui che aveva scritto l’ordine di cattura nei confronti del padre, Francesco Messina Denaro, a cui viene sostanzialmente imposta la latitanza». Ma non solo.

Il processo ha evidenziato una circostanza clamorosa: Borsellino nel 1990 aveva chiesto la sorveglianza speciale contro Francesco Messina Denaro, ma quella richiesta venne bocciata dall’allora collegio dei giudici del Tribunale delle misure di prevenzione di Trapani (collegio composto dall’odierno procuratore di Enna, Massimo Palmeri e dai giudici Barracco e Miranda), mentre già don Ciccio, che intanto nel 1988 aveva dato ordine di uccidere il giornalista Mauro Rostagno, si era dato latitante, senza essere ancora colpito da un ordine di cattura.

Matteo Messina Denaro nel giugno 1986 firmò una lettera diretta ai Carabinieri, che avevano convocato don Ciccio in caserma, scrivendo che il padre si era allontanato per motivi di lavoro senza lasciare detto dove cercarlo. Ma don Ciccio, patriarca mafioso del Belice, era già alle prese con gli intrecci criminali  tra mafia, politica e massoneria, crocevia che per anni aveva permesso ai latitanti di restare nascosti nel trapanese, continuando a gestire i loro guadagni ottenuti dai traffici internazionali di droga.

Fu Matteo Messina Denaro che alla vigilia della strage del 19 luglio 1992, dove vennero massacrati Borsellino e gli agenti della scorta, a mandare i suoi sgherri a Trapani a prelevare dalle mani del capo mafia Vincenzo Virga il tritolo rimasto non usato per la strage di Pizzolungo del 2 aprile 1985, esplosivo di marca militare, destinato a uccidere l’allora pm Carlo Palermo e che fece strazio di tre vittime, Barbara Rizzo di 30 anni e dei suoi gemellini di 6, Giuseppe e Salvatore Asta.

Lo stesso tipo di esplosivo che era spuntato sulla scena dell’attentato al Treno Rapido 904, nel 1984 e nel tentativo di strage sugli scogli dell’Addaura davanti la casa di Giovanni Falcone, nel 1989. La sentenza di martedì lo conferma.

Matteo Messina Denaro latitante dal giugno del 1993 «è ben piazzato al centro di una strategia stragista alla quale ha partecipato con consapevolezza – sottolinea ancora oggi il procuratore aggiunto Gabriele Paci – dando un consenso, una disponibilità totale della propria persona, dei propri uomini, del proprio territorio, delle famiglie trapanesi al piano di Riina che ne fu così rafforzato e che consentì alla follia criminale del capo di Cosa nostra di continuare nel proprio intento: anzi, più che di consenso parlerei di totale dedizione alla causa corleonese.

Matteo Messina Denaro è già stato condannato all’ergastolo per le Stragi del 1993 a Firenze, Roma e Milano in cui morirono dieci persone, tra le quali due bambine Nadia e Caterina Nencioni, rispettivamente avevano 9 anni e appena due mesi di vita.

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