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Smart working, ma il giornale non è una fabbrica

Alberto Ferrigolo * il . Informazione, Società

repubblicaLa tendenza era già in atto, da tempo. Lo smart working, da effetto Covid, l’ha solo acuita e accelerata.

Parliamo del processo di verticalizzazione della catena di comando introdotto in giornali, radio e tv, nei siti internet a partire dal 10 marzo. Di conseguenza, anche nella formazione delle decisioni. Il “tutti a casa, e in redazione solo gli uomini-macchina” non ha certo favorito quello spirito collettivo che in genere caratterizza il lavoro redazionale. Anzi, ne ha estremizzato il senso dei ruoli: da un lato chi comanda, dall’altro chi esegue. In seguito alla pandemia, funzioni e soggetti ora non abitano nemmeno più lo stesso luogo. Ma agiscono in spazi diversi. Fisicamente separati, distanti.

Qualche ragguaglio e una breve panoramica: il caso de “Il Messaggero” è emblematico da questo punto di vista.

La redazione di via del Tritone è chiusa. Deserta. E lo sarà fino a settembre. Ciascuno lavora e continuerà a lavorare anche nei mesi estivi da casa sua, utilizzando per comunicare telefono, mail, WhatsApp, videoconferenze, chat di settore, servizio o redazione. Ciascuno è stato dotato dall’editore di pc portatile e saponetta wi-fi.

Anche le testate gemelle dello stesso gruppo Caltagirone – “Il Gazzettino” di Venezia e “Il Mattino” di Napoli – la situazione è identica. Anche a Napoli e a Venezia tutti a casa fino al 31 agosto. Dalle redazioni venete (Padova, Treviso, Venezia e Mestre, Belluno e Pordenone) hanno però fatto richiesta di poter rientrare al lavoro in redazione, visto che l’emergenza è stata allentata, ma un ordine di servizio ha imposto il prolungamento del lavoro da casa. Per i veneti, poi, c’è anche l’obbligo di non allontanarsi per nessun motivo dalla propria abitazione, che diventa sede di lavoro durante l’orario d’attività. Solo una redattrice di Mestre è stata dispensata, direttamente dal direttore, per poter seguire le conferenze stampa o eventuali altre iniziative che si svolgono in presenza. Tuttavia ai redattori del “Gazzettino” la proprietà non è riuscita a dotare tutti della strumentazione necessaria, cosicché sono costretti a “scambiarsi” vicendevolmente i portatili.

A “la Repubblica”, invece, sono rientrati in 178 su 352, al “Corriere della Sera” la stragrande maggioranza è tornata a lavorare in redazione e ora si sta attuando anche qualche forma di flessibilità con la disponibilità a consentire un lavoro “un po’ dentro e un po’ fuori”: cosicché – per esempio – nell’occasione di una riunione di governo o sindacale o politica o per un evento che si conclude a tarda sera, è stata data la facoltà al redattore che se ne occupa di poter aggiornare e chiudere il pezzo inviandolo al sistema editoriale anche da casa.

A “La Stampa”, l’arrivo del nuovo direttore Massimo Giannini – accolto sull’onda di un gradimento quasi bulgaro (91% i favorevoli) -, ha dopo poche settimane fatto registrare una prima risacca, con attriti e contraccolpi, per via di un inasprimento degli ordini di servizio, della metodologia seguita sulle nuove nomine e per via degli spostamenti interni, gli orari, i turni – irritualmente annunciati.

È questo quel che, principalmente e a grandi linee, è avvenuto nelle reazioni giornalistiche di diverso ordine e grado durante il lockdown. Il paradosso è che del cosiddetto “telelavoro” se ne parla – in modo avveniristico, futuribile e immaginifico – almeno dalla fine degli anni Cinquanta. C’è un’ampia letteratura sociologica in materia.

Eppure negli anni venti del primo secolo del Terzo millennio – al culmine dello sviluppo dell’era tecnologica e di un mondo della comunicazione prevalentemente social – il coronavirus è riuscito a cogliere editori e redazioni del tutto impreparati. Non solo dal punto di vista organizzativo, ma anche da quello della dotazione materiale, assolutamente indisponibile a soddisfare tutte le esigenze organiche. Non è mancato nemmeno chi ha dovuto acquistare il portatile da sé per poter fronteggiare adeguatamente l’emergenza lavorativa.

Così, ad esempio, il caso delle “docking station” introdotte nella redazione centrale di “la Repubblica” postazioni volanti alle quali connettersi a turno con il pc portatile per entrare direttamente nel sistema editoriale del giornale. Ciò che consente di abolire almeno una parte delle scrivanie individuali, per rispettare il distanziamento sollecitato dalle norme anti-virus, ha finito per imprimere un’ulteriore torsione nei meccanismi di funzionamento della vita redazionale e giornalistica.

Come è stato di recente osservato da Giovanni Valentini, il giornale non è una fabbrica, “con gli operai alla catena di montaggio, i turni orari, i premi di produzione” ma “dovrebbe essere un luogo di produzione delle notizie, delle idee e delle opinioni”. O, se si vuole, “un cenacolo all’interno del quale custodire il ‘bene comune’ dell’informazione” in forza dell’articolo 21 della Costituzione, ha osservato in un articolo su “Il Fatto” l’ex direttore de “L’Espresso”.

Ad ogni modo, quel che è stato fatto in questi mesi nelle redazioni, ma anche nel mondo del lavoro in genere, non è stato smart working, ma puro e semplice “lavoro da casa”. O meglio, “covid working”, come è stato ribattezzato dai redattori veneti de “Il Gazzettino”. Per lo più improvvisato e non organizzato. Con gli strumenti che c’erano a disposizione. Ma per farlo, sembra banale dirlo, ci vogliono quantomeno gli strumenti necessari, connessioni veloci oltre ai computer.

Poi il vero smart working è quello che si può svolgere in maniera morbida, un po’ fuori dalla redazione e un po’ in presenza. Perché se si svolge tutto in esterno si finisce per perdere anche il contatto sociale con i colleghi e finisce per prevalere la verticalizzazione delle decisioni. Se lo smart working avviene in maniera flessibile è sicuramente più utile, non solo al giornale, ma anche al giornalista, al lavoratore in genere. Le tecnologie oggi lo consentono. E permettono di non perdere anche quel contatto minimo che dia il polso della situazione, l’umore complessivo del luogo di lavoro attraverso riunioni veloci e circolazione di idee. “In fondo talvolta ci sono certe riunioni in presenza che sono solo riunioni finte, utili solo a soddisfare l’ego dei partecipanti”. Tant’è.

Quindi, di fatto, due sono le condizioni essenziali per fare smart working redazionale: strumentazione di base e flessibilità organizzativa. Con momenti di condivisione collettiva: confronti più frequenti, veloci, agili e meno aulici d’un tempo. Chi, nelle situazioni più avanzate, sta sperimentando queste modalità si dice anche soddisfatto. Può persino migliorare il lavoro e quindi quel prodotto collettivo che è il giornale. Altrimenti si rischia di andare incontro ad un disastro che acuirebbe problemi e difetti già presenti nel lavoro giornalistico nell’era dell’iperconnettività.

Naturalmente, e va da sé, come prima cosa è da riscrivere da cima a fondo il contratto di lavoro giornalistico, scaduto per altro da almeno sei anni. Di fatto, un contratto a forte impianto fordista in era di smart economy.

Poi c’è in ogni caso un rischio che va sventato: si chiama “rischio immobiliare”. Perché in presenza dello smart working fatto bene, con l’ufficio centrale in presenza e gli altri a casa, gli spazi necessari si riducono di gran lunga con tagli di costi ragguardevoli. Che in questa fase di crisi dell’editoria, di calo di copie e mancati introiti pubblicitari potrebbe essere una tentazione per gli editori. Come chiudere intere sedi redazionali. Disdire i contratti d’affitto. A Miami, del resto, l’hanno già fatto. 

* Nel dibattito promosso dalla Fondazione Paolo Murialdi sul giornalismo nell’età dello smart working, è la volta di Alberto Ferrigolo, componente del Comitato Scientifico della Fondazione, dopo i contributi di Giancarlo TartagliaRaffaele FiengoFrancesco FacchiniChristian RuggieroRoberto Reale, Daniela Scano.

Fonte: www.fondazionemurialdi.it

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