Mazzola, giornalista TG1 aggredita a Bari: per la Procura è mafia
Chiuse le indagini per l’aggressione di Maria Grazia Mazzola, inviata del Tg1, da parte di Monica Laera, del clan Laera-Strisciuglio-Mercadante: “L’obiettivo era controllare il territorio col metodo mafioso”
“Ehi non venire più qua che ti uccido”. Chiuse le indagini sull’aggressione di Maria Grazia Mazzola, inviata del Tg1, da parte di Monica Laera, moglie del boss barese Lorenzo Caldarola, madre di Ivan, imputato per violenza sessuale verso una bambina di 12 anni.
La pm Lidia Giorgio della Direzione distrettuale antimafia di Bari ha contestato alla moglie del boss del quartiere Libertà vari reati: minacce, lesioni aggravate, associazione mafiosa. A Monica Laera, già condannata in via definitiva per mafia e ritenuto soggetto socialmente pericoloso, la Procura di Bari contesta l’articolo del codice penale 416 bis, perché la minaccia di morte e l’aggressione fisica avevano l’obiettivo di controllare il territorio, cioè il quartiere Libertà, facendo pesare il suo status di mafiosa e di moglie di mafioso.
Reato incardinato anche per Angela Ladisa, consuocera di Monica Laera: Ladisa quel 9 febbraio ha aggredito verbalmente, offendendone l’onore e il prestigio, i poliziotti intervenuti sul luogo dell’aggressione e chiamati dalla giornalista.
L’aggressione dunque, secondo la Procura, non è stata la conseguenza di uno “sfogo” seguito ad un alterco tra due persone, ma una modalità mafiosa messa in atto, in maniera plateale, per esercitare il controllo del territorio punendo la giornalista che aveva osato fare domande.
Laera, dopo l’accaduto, ha chiesto e ottenuto il diritto di replica e rettifica, riuscendo nell’intento di essere intervistata dal servizio pubblico. Una pratica che offende il bene comune dell’informazione: siamo di fronte al servizio pubblico usato come megafono della mafia.
Non solo: su alcune testate si è cercato di far passare, insinuandola, la versione “altra” rispetto a quella documentata dalle telecamere. Ossia che la collega se l’era cercata, andando a solleticare il clan sul suo territorio, provocando la reazione offesa della mafiosa. Insomma, hanno cercato di ridurre l’accaduto ad una zuffa tra femmine. Accade anche questo quando è una giornalista e non un giornalista ad essere minacciata dalla mafia: devi dimostrare di essere stata “seria” e di aver svolto il tuo lavoro senza essere stata “provocante”. E’ la stessa dinamica subita dalle donne vittime di violenza sessuale: devi dimostrare che i jeans erano stretti e che non hai aperto le gambe. Le donne uccise? Hanno provocato. La giornalista? Se l’è cercata. Tutte manifestazioni di una cultura patriarcale, che un tutt’uno con la cultura mafiosa.
Mi chiedo ancora come pensano che si facciano le inchieste, se non stando sui luoghi, se non riportando i fatti e studiando i documenti.
I FATTI. Maria Grazia Mazzola il 9 febbraio scorso stava realizzando l’inchiesta di 50 minuti che sarebbe poi andata in onda sulla rete ammiraglia della Rai con il titolo “Ragazzi dentro”, sulla crescente militarizzazione del quartiere Libertà da parte dei clan che affiliano i ragazzini e sul tentativo di strapparli ai loro tentacoli da parte di don Francesco Prete. Con il cameramen, e attrezzata con telecamere nascoste, si è recata in via Petrelli, strada dove risiede la famiglia Caldarola, per raccogliere notizie sul rinvio a giudizio del figlio di Laera, Ivan, per violenza sessuale su una bambina.
Laera, uscita per strada dove si trovava Mazzola con il cameraman, ha inveito contro la giornalista, aggredendola con uno “schiaffo/pugno”, così è definito dalla pm, minacciandola di morte. Mazzola ha riportato danni all’orecchio sinistro.
Maria Grazia Mazzola sulla sua pagina Fb ufficiale ha dichiarato: “Ci sono stati i falsi giornalisti, quelli che hanno scritto falsità e si sono fatti megafono di questa mafiosa. Quelli che mai hanno scritto che fosse una condannata.
Ci sono stati i sindacalisti che mi hanno detto: “Ma non rischi niente! Vai a mangiare in centro a Bari che nessuno ti tocca “. Spero che questo sindacalista legga il mio post e arrossisca di vergogna. Ci sono stati quelli che in un convegno hanno detto che non era certo che si sarebbe arrivati a processo per la mia aggressione.
Cose tra donne che si sono spintonate. La giornalista che si è solo spaventata …Si sa è una donna e le donne sono emotive. Vedete questo Paese non cresce,non si evolve perché l’informazione é ancora intrappolata nei luoghi comuni e nella superficie, nelle penne ubbidienti.
Alle storie professionali forti e scomode non si da rilievo pubblico.La conclusione di indagini é forte. Ma vi imbatterete in poche righe”.
Solidarietà, sostegno sindacale e legale è stato offerto da Assostampa romana, il cui segretario Lazzaro Pappagallo scrive: “La Procura offre sostanza a quanto Maria Grazia Mazzola ha sempre sostenuto in interventi e dichiarazioni pubbliche. La collega ha subito una vera e propria aggressione di squadrismo mafioso.
Stampa Romana denuncia a sua tutela e a tutela dei colleghi che indagano su attività mafiose le condizioni di lavoro di cronisti impegnati in un lavoro delicato di racconto di territori condizionati da interessi criminali”.
L’APPELLO. Dopo l’aggressione Maria Grazia Mazzola ha firmato con la sottoscritta un appello che è anche un allarme, pubblicato dal Fatto quotidiano, invitando i giornalisti a illuminare le mafie pugliesi, ad oggi ancora sottovalutate. Le relazioni della DNA, la Direzione nazionale antimafia invece raccontano di una realtà radicata, economicamente florida e socialmente pericolosa, infiltrata nella pubblica amministrazione in maniera capillare, con il consenso dei cittadini e la compiacenza di politici e imprenditori. Una società mafiosa che sta per diventare antistato e che la stampa non è capace di disvelare. Un appello in gran parte inascoltato.
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