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I simboli e le icone che noi creiamo e noi distruggiamo

di Paola Bottero il . L'analisi

Le recenti inchieste antimafia hanno colpito due donne diverse, accomunate dai media per la quasi coincidenza dei tempi: Carolina Girasole e Rosy Canale. Ma come la consacrazione mediatica accomuna tutti i protagonisti indistintamente, così la dissacrazione sommerge e getta nel tritacarne.
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συμβάλλω (sumbàllo): «mettere insieme, far coincidere». Scrive la Treccani: “Nell’uso degli antichi Greci, mezzo di riconoscimento, di controllo e simbolo, costituito da ognuna delle due parti ottenute spezzando irregolarmente in due un oggetto (per es., un pezzo di legno), che i discendenti di famiglie diverse conservavano come segno di reciproca amicizia”. Cos’è un simbolo? Me lo chiedo da tempo. Me lo chiedo, ancora più orfana di risposte, leggendo ciò che si scrive dal 3 dicembre di Calabria, simboli e antimafia.

 

Il simbolo mette insieme – pratiche di legalità, nello specifico – e dunque diventa tale, riconosciuto e riconoscibile? Il simbolo si autoelegge? O i simboli, le icone, li creiamo noi giornalisti, sempre più alla ricerca dei casi eclatanti, superficialmente innalzati alle stelle e con la stessa rapida superficialità rigettati nelle stalle? Tali domande si incrociano, per forza di cose, sul significato più puro di un altro termine troppo abusato. Antimafia. Fare antimafia fa fico, diceva qualcuno. Di sciasciana memoria, il professionismo dell’antimafia. Un tema che non a caso è alla base del mio ultimo romanzo, l’antimafia urlata e strumentalizzata per trasformarsi in simbolo. E dunque personaggio. Un tema che sconfessa il tanto, tantissimo buono di persone che non fanno antimafia, ma lavorano ogni giorno per la legalità. E non è la stessa cosa. Ma rischia di diventarlo. Rischia di confondere, di mescolare le carte. Ma andiamo alla cronaca. Martedì scorso i domiciliari a Carolina Girasole, ex sindaco di Isola di Capo Rizzuto, simbolo riconosciuto di legalità, perché ha messo insieme cinque anni di minacce, intimidazioni e atti amministrativi “di restituzione”, per creare una nuova cultura di affrancamento dalla morsa della ’ndrangheta. Si chiama Insula, l’inchiesta. Arrivano i primi commenti. I primi silenzi. Le prime accuse forti. Qualche giorno dopo esce Rocco Mangiardi, testimone di giustizia lametino, vittima del racket del pizzo, che affida alla nostra testata la sua certezza: «Credo nell’onestà di Carolina Girasole». Una certezza basata sulla razionalità: è plausibile che una cosca appoggi un candidato sindaco per ottenere la raccolta – per un anno – dei finocchi su terre confiscate, e permetta che nei successivi cinque anni il sindaco continui a confiscarle beni per riassegnarli al servizio del territorio? Un’intercettazione ambientale contro atti amministrativi palesi. 

Poco dopo, altri domiciliari. Inchiesta Inganno. Tra gli arrestati c’è Rosy Canale, presidente del Movimento San Luca, in questi giorni in tournée con la messa in scena di Malaluna, tratta dal libro La mia ’ndrangheta, scritto con Emanuela Zuccalà ed editato lo scorso anno dalle Paoline. Il 7 dicembre ha ritirato in Campidoglio il premio Borsellino. C’è ancora la foto della pergamena in primo piano, nella sua pagina Facebook, anche se gli organizzatori hanno impiegato poche ore a ritirarlo, spiegando: «Il Premio Nazionale Paolo Borsellino, giunto alla 18^ Edizione in 21 anni di vita, è stato evidentemente ingannato, come la quasi totalità della società civile italiana e delle associazioni antimafia, dall’immagine pubblica di una persona, fidandosi delle segnalazioni che, in buona fede, giungono alla Segreteria del Premio per l’assegnazione annuale dei riconoscimenti». Una bacheca ricca, quella della bella Rosy. Continua a riempirsi di commenti. Alcuni increduli, alcuni lapidari, alcuni di speranza. Ci sono link continui a tutte le comparsate mediatiche. Ci sono articoli entusiasti di testate nazionali e noti rotocalchi femminili. C’è la sua esortazione al papa ad andare in Aspromonte. E c’è anche un articolo a sua firma su la voce di New York, blog on line in cui commenta l’arresto di Carolina Girasole. Scriveva la Canale, la settimana prima di essere arrestata: «È mortificante pensare che c’è un prezzo per tutto, anche per la propria etica, la propria dignità. Per coloro che come me, dedicano il loro tempo con fede e passione per la costruzione di progetti che riscattino la Calabria, il Sud Italia; per chi crede in percorsi alternativi di vita fatti di formazione e di opportunità, di cultura e di nuova identità; per chi non si è arreso e non si arrende a consegnare la propria terra alla malavita: per tutta questa gente che io chiamo popolo della speranza, oggi è un giorno tristissimo. Le persone come Carolina Girasole fanno male alla Calabria e ai calabresi. Questi episodi disorientano il bene uccidendo la speranza. Insinuano il sospetto in tutti coloro che operano con coraggio e passione contro le mafie». Parole che stridono con quelle dell’accusa, secondo la quale Rosy Canale avrebbe speso i fondi destinati a finalità sociali (si parla di 160mila euro) per abiti firmati destinati alla figlia, auto (una minicar per la figlia e una Cinquecento), vacanze e bella vita. Parole che stridono con l’intercettazione telefonica in cui avrebbe risposto alla madre che cercava di frenarla: «Me ne fotto». Parole che stridono con quelle che ieri mattina ha pronunciato il Procuratore aggiunto della Dda di Reggio Calabria, Nicola Gratteri, illustrando nei dettagli le accuse: «Da anni dico che bisogna prestare molta attenzione a chi si erge paladino della lotta alla ’ndrangheta senza avere una storia. Gente che lucra danaro pubblico per mestiere, eticamente riprovevole, a fronte dello straordinario sacrifico di sangue versato da tanti autentici testimoni di impegno civile che in questa lotta hanno perso la vita». O con quelle del Procuratore della Repubblica, Federico Cafiero de Raho: «È con molta sofferenza che si rinvengono simili situazioni, che inquinano l’immagine di quanti si muovono onestamente sul fronte dell’associazionismo contro la ’ndrangheta in Calabria e di chi dedica parte della propria esistenza alle ragioni della legalità». Parole. Chiacchiere. E atti. Accuse. Tutte da provare, ci mancherebbe. La presunzione di innocenza è un principio costituzionale che va garantito sempre e comunque.

Ma ci siamo dimenticati anche di questo, noi giornalisti. Con la stessa facilità con cui fino a ieri cercavamo di avere in studio o in pagina l’icona del momento, oggi ne sottolineiamo la miseria. La colpa è anche un po’ nostra. Perché aiutiamo la levitazione innaturale di simboli, affiancandoli a quelli che lo sono davvero, perché hanno messo insieme buonavita, creando una rete per l’affermazione della legalità. Perché crediamo che sia necessario sfornare icone per coprire la superficialità con la quale guardiamo al mondo in cui siamo immersi, e che anche noi abbiamo contribuito a creare. Non approfondiamo. Infiliamo nelle veline che ci vengono passate per promozionare questo o quel personaggio il lievito per far esplodere la celebrità. E poi infiliamo quelle stesse celebrità che abbiamo creato nel tritacarne mediatico. Simboli. Icone. Spettacolarizzazione. Attori e attrici. Media che fanno diventare personaggi le persone e con la stessa facilità, uccidendo i personaggi, distruggono le persone. 

È necessario iniziare a riflettere anche su questo tema, che prescinde dal corso della giustizia: ci sono accuse. E ci sono atti, carte in grado di confermare o smontare le accuse. Ma c’è anche la consapevolezza che comunque andrà a finire, sarà sempre una sconfitta. Perché non può più essere il circo mediatico a definire i valori reali. Perché il calderone in cui infilare tutto e tutti e mescolare non può che spingerci ancora più in basso di dove siamo arrivati.

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