Rivedere tutta la legislazione sull’immigrazione per eliminare la “clandestinità”
In questi giorni di vacanze, in conseguenza dei più frequenti sbarchi sulle coste italiane di stranieri, soprattutto profughi, si è riacceso il dibattito sul (carente) sistema di accoglienza esistente che rischia il collasso, sui centri di identificazione ed espulsione (Cie) considerati vere strutture di “detenzione impropria”( ma già, comunque, previsti e indicati, in maniera soft, come centri di permanenza temporanea, dalla legge Turco-Napolitano del 1998), sulla esigenza di riformare la legge Bossi-Fini. Tutto questo gran vociare, accompagnato dalle solite deformazioni politiche strumentali, era ampiamente prevedibile, perché, da anni, in concomitanza con la buona stagione, aumentano gli arrivi dei barconi che salpano, in gran parte dalla Libia ( ma anche dall’Egitto, dalla Tunisia, dalla Turchia). Le partenze da quelle coste sono aumentate, con grande soddisfazione dei trafficanti di persone, che vedono, così, incrementare notevolmente i loro profitti (in parte servono per coprire le spese degli apparati della sicurezza e di politici collusi), anche perché sono aumentate zone di conflitto nei paesi nord africani ( per ultimo l’Egitto).
E non si vede, nell’immediato futuro, una contrazione di queste migrazioni che, probabilmente, potranno interessare altri approdi della nostra penisola ( ai primi sedici migranti sbarcati nelle settimane passate in Sardegna, si sono aggiunti altri nelle ultime ore). Questa situazione va affrontata con la dovuta attenzione e con le risorse necessarie. E’ certo che ogni Stato ha il diritto di proteggere i propri confini e tutelare l’interesse nazionale, ma ciò va fatto nel rispetto dei diritti umani. La politica estera italiana ha, ancora in un recente passato, comportato gravi violazioni dei diritti fondamentali degli stranieri ( i respingimenti in mare verso la Libia). Senza contare quelle situazioni, mai completamente chiarite, che hanno visto l’Italia vendere armi (Beretta) a dittatori e in zone di conflitto, concorrere (Eni) alla devastazione ambientale nel Delta del Niger, trasferire illegalmente prodotti tossici di aziende italiane in Somalia. Da una parte, in buona sostanza, barriere, non solo normative, per impedire l’ingresso agli immigrati, dall’altra si alimentano alcune delle cause che spingono ad emigrare. A questo si aggiunga la scadente qualità tecnica della legislazione sull’immigrazione con norme dichiarate incostituzionali, tardivi (e dolosi) recepimenti di direttive comunitarie, produzione convulsa di leggi (tra cui la c.d. Bossi-Fini e la L.94/2009 che ha introdotto il reato di “clandestinità”), affette da una forte presenza di antinomie e lacune. Tutto accompagnato da un eccessivo ricorso ai decreti legge, alle circolari amministrative, con un approccio poliziesco, scanditi da un permanente stato di emergenza. La legge Bossi-Fini (del 2002) che ha modificato in alcuni punti importanti il Testo Unico sull’immigrazione (del 1988), prevede che un cittadino extracomunitario che si trovi nel suo paese di origine, per poter entrare regolarmente in Italia e soggiornarvi debba essere in possesso di un contratto di lavoro stipulato con un datore che, presumibilmente, non ha mai conosciuto. La legge ha istituito una procedura irrealistica ( chi è quel datore che assume a scatola chiusa? Chi va all’estero a reclutare operai o impiegati?), obbliga gli stranieri a trascorrere un periodo di tempo senza documenti prima di potersi regolarizzare ( attraverso un decreto flussi previsto dal Testo Unico) fingendo di non essere ancora sul territorio nazionale. L’altra via è quella di restare in attesa di una “sanatoria” ( ce ne sono state diverse negli ultimi dieci anni). La “clandestinità” è, quindi, la fase preliminare obbligata di gran parte delle storie dei migranti che, in quella brutta posizione, possono ritornare facilmente ( e più volte) considerata la ristrettezza dei criteri per il rinnovo del permesso di soggiorno. Tralascio, per non arrossire ancora, di citare la mole complessiva di documenti, marche da bollo, timbri, tasse, condizioni, imposte da una burocrazia volutamente farraginosa impegnata in lente e complesse procedure d’ufficio per vagliare, approvare, vidimare o respingere una domanda di permesso di soggiorno.
Di lavoro da compiere, come si vede, ce n’è ancora molto e, magari, la Camera dei Deputati, riunitasi, tra polemiche, il 20 agosto, avrebbe potuto dedicare qualche momento anche a questo tema.
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