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Viaggio tra i lavoratori “invisibili”

di Valentina Leone il . Senza categoria

L’inchiesta. Chilometri di campi, coltivazioni, serre costeggiano le strade che dalla Capitale portano alle località del litorale del basso Lazio: Sabaudia, Terracina. Passando per Latina, luogo dal quale inizia il nostro viaggio alla scoperta delle condizioni di vita e lavoro dei braccianti migranti. Lungo quelle distese, abrase dal sole estivo in alcuni mesi e infreddolite dalla brezza gelida che viene da ponente, scorrono le vite, amare e affaticate, di migliaia di schiavi. Altra definizione non esiste, non sarebbe corretta. Quasi tutti indiani, proveniente dalla regione del Punjab e di religione Sikh. Arrivano in Italia in aereo, già reclutati nel loro paese d’origine, con dei permessi di soggiorno a tempo, che non vengono poi rinnovati perché non ci sono le condizioni. Quasi sempre, solo per il viaggio e il permesso stagionale, pagano cifre tra i 5000 e i 10000 euro. Il permesso di soggiorno definitivo, o semplicemente la promessa di ottenerne uno, può costare anche 15000 euro. Il prezzo della schiavitù. Una vera e propria tratta, dietro la quale si cela la criminalità organizzata, intermediaria tra datori di lavoro e caporali. Si parla di interi borghi e comuni del basso Lazio ormai quasi esclusivamente abitati da indiani, per un totale di oltre 7.000 mila immigrati. Qualcuno li ha definiti “invisibili”, “fantasmi”: ma non notare le centinaia, migliaia di braccia che ogni giorno, dal lunedì alla domenica, lavorano quotidianamente 10/12 ore in quelle coltivazioni a due passi dal ciglio della strada è davvero impossibile.  Il viaggio inizia dunque a Latina, capoluogo di un territorio in cui la presenza del fenomeno del “caporalato” è intensa, consolidata, e vede coinvolte altissime percentuali di aziende operanti nel settore agroalimentare. Si è stimato che su 93 aziende sottoposte a controllo nel 2011, oltre il 60% ha commesso violazioni della legislazione in materia di lavoro e previdenza sociale. Un dato che fa paura, e che si congiunge ad altre rilevazioni compiute parallelamente: sempre nel 2011, e sempre nel territorio di Latina e provincia, gli infortuni dichiarati in aziende del settore agroalimentare sono stati pari a zero. “Praticamente un miracolo”, commenta Giovanni Gioia, segretario della Flai – Cgil di Latina, sindacato in prima linea rispetto alla questione del caporalato e dello sfruttamento dei lavoratori immigrati. Insieme a lui, percorriamo le strade lungo le quali avviene quotidianamente il crocevia silenzioso dei migranti.

Dopo poche centinaia di metri, lentamente inizia a materializzarsi quell’emisfero sommerso che in tanti sembrano non vedere, per comodità o per collusione: sono circa le 17,30, orario in cui il sole sta ormai per lasciare il posto alla sera, e ai margini di un paio incroci e circonvallazioni, notiamo alcuni furgoni in sosta, in attesa che i braccianti terminino la giornata di lavoro. I caporali, infatti, spesso e volentieri si occupano del trasporto dei lavoratori e naturalmente non lo fanno gratuitamente o per spirito di solidarietà: ciascun bracciante paga infatti almeno un euro a tratta per essere stipato su furgoncini spesso malmessi, insicuri, che potrebbero trasportare meno della metà delle persone che poi effettivamente vengono caricate. La questione del trasporto è cruciale, perché nella maggior parte dei casi i lavoratori vivono in zone semi – isolate, distanti chilometri e chilometri dai campi; i più fortunati, possiedono motorini vecchissimi di terza o quarta mano. La maggior parte di quelli che non ricorrono ai caporali, però, si sposta in bicicletta: ma si tratta di strade dissestate, male illuminate e senza guard rail e corsia di emergenza, che loro per giunta sono costretti a percorrere in orari di buio pesto. “Per questo, abbiamo pensato che dotare i lavoratori del giubbino catarifrangente potesse rappresentare una tutela in più” – dice Gioia – “ un mezzo per renderli ben visibili agli automobilisti che qui viaggiano a velocità sostenute e rischiano continuamente di travolgerli”. Forse anche un simbolo di appartenenza ad un sindacato che negli anni ha aiutato molto gli immigrati della zona vittime di questo sistema avvelenato, fornendo loro gli strumenti per poter essere meno schiavi e meno ricattabili, ad avere un po’ meno paura dei controlli delle forze dell’ordine. I risultati, come racconta Gioia, ci sono stati: i lavoratori che un tempo scappavano a gambe levate alla vista degli elicotteri della Finanza, ora sono gli stessi che durante i controlli non tentano la fuga e si fanno riconoscere subito, gridando “Flai Cgil, Flai Cgil”. Dopo diversi chilometri e decine di bici dall’ombra fosforescente, nonostante l’orario si intravedono campi con dei braccianti ancora al lavoro: sono principalmente quelli che si occupano di spargere veleni e diserbanti sulle coltivazioni; nessuno di quelli che riusciamo ad osservare più da vicino ha la mascherina, in barba a qualsiasi norma sulla tutela della salute. Anche per questo, i lavoratori addetti a queste operazioni che si ammalano di tumore iniziano a non essere più casi isolati; e lo stesso vale per molte donne impiegate nel settore della floricoltura, sempre più soggette a infertilità e malattie dell’apparato riproduttore. Ma, ironia della sorte, anche qui stiamo parlando di numeri “invisibili”: i clandestini, infatti, per paura di una segnalazione alle forze dell’ordine non si presentano in ospedale; gli immigrati regolari, invece, spesso all’oscuro di alcuni dei loro diritti fondamentali, evitano di farsi curare per non perdere il lavoro o saltare la giornata. I lavoratori italiani o comunitari, ma a nero, se decidono di curarsi non danno informazioni sul loro impiego e quindi, anche in quest’ultimo caso, stabilire un principio di causa – effetto basato su dati reali è molto complicato.

Borgo Hermada.  Arriviamo finalmente a Borgo Hermada, luogo simbolo della nutrita comunità indiana che popola le campagne del basso Lazio. Qui, quasi tutti gli abitanti sono, per l’appunto, indiani. Vivono in affitto, a prezzi da usura, spesso in appartamenti condivisi con altre decine di persone. Talvolta pagano 400/500 euro solo per poter costruire una baracca nel cortile di alcune villette alla periferia del borgo: intravediamo teloni, materiali di recupero, carcasse di vecchie auto utilizzate come deposito, parabole satellitari che fungono da ponte di collegamento tra l’Italia e l’India, tra il degrado e la civiltà che loro possono solo sfiorare. Qui, in questo borgo, alcuni di loro hanno aperto delle attività commerciali: internet point, sportelli per l’invio di denaro tramite il circuito Best Western, minimarket. Le attività, altro dato peculiare, seguono i ritmi e gli orari dei lavoratori: punti vendita alimentari che aprono all’alba per permettere di acquistare il pasto per la giornata; negozi che offrono servizi, ad esempio i call center, che chiudono in orari che permettano a chi lavora di svolgere le proprie commissioni al rientro.  Anche la piccola sede della Flai aperta tre pomeriggi a settimana, raramente chiude i battenti prima delle 23; in estate, quando i braccianti non rientrano entro le 22, le lancette dell’orologio segnano un nuovo giorno, l’1 o a volte le 2. Qui i lavoratori ricevono assistenza sulle questioni che riguardano documenti, contratti di lavoro, contatti con le ambasciate: ad aiutarli c’è Doda, un indiano che da molti anni vive e lavora in Italia. In più, nella sala adiacente, per due volte a settimana, viene offerto un corso di italiano gratuito, tenuto da alcune docenti in pensione: oggi c’è lezione, e c’è talmente tanta affluenza che molti restano in piedi, composti, con i loro quaderni e la loro calligrafia incerta, esitante. C’è anche un gruppetto di donne, tre o quattro, ma, mi dice Gioia, “sono poche, anche perché i ricongiungimenti familiari con l’India hanno un iter molto complesso, e raramente si riesce a portare la propria famiglia in Italia”. Entriamo nell’ufficio di Doda, e ad attendere il proprio turno ci sono almeno 20 lavoratori: sono raccolti in un unico capannello, silenzioso, educato, che poco ricorda le code animate e scomposte in cui ci si imbatte di solito negli uffici ordinari. Pochi parlano italiano e chiedo a Doda di tradurre:  chiediamo da quanti anni sono in Italia, come sono arrivati, se qui hanno portato anche le loro famiglie, quanto vengono pagati e dove lavorano. La risposta iniziale è un lungo silenzio, occhi bassi. Doda spiega che non faremo i loro nomi, né voglio sapere i nomi delle aziende per cui lavorano. Arrivano le prime timide frasi nella loro lingua: Doda ci spiega che hanno capito ma non vogliono parlare direttamente perché si vergognano del loro italiano stentato. Riusciamo a sapere che alcuni di loro sono riusciti a portare la famiglia qui, i loro figli vanno a scuola, anche se a volte trovare posto è difficile perché le scadenze sono rigide e le classi già piene. Chiediamo se hanno avuto dei problemi di integrazione con gli abitanti italiani del borgo, e qui, inaspettatamente, arriva un coro unanime di “no, no, mai, mai”. Fatta eccezione per una persona, un uomo infastidito dai rumori delle abitazioni vicine, che ha deciso di farsi sentire con insulti e bottiglie di vetro lanciate nei cortili adiacenti. Con molti timori da parte di chi ha moglie e figli piccoli tutto il giorno a casa, a pochi metri da lui.

L’appello ai giornalisti: raccontate queste storie. Lentamente si rompe il ghiaccio, Giovanni Gioia spiega che è importante che i giornalisti possano scrivere di loro, delle loro condizioni, perché l’attenzione va mantenuta alta. Qualcuno si fa avanti, decidendo di mettere da parte l’imbarazzo per una lingua che comprensibilmente non è ancora la sua: Raja (il nome è di fantasia, ndr) è in italia dal 2005, ma è riuscito a regolarizzare la sua posizione solo nel 2010; ha moglie e un bambino di due anni, e guadagna 5 euro lordi l’ora, anche se il contratto concluso tra le parti sociali ne prevederebbe 8,69. Si sveglia tutti i giorni alle 5 di mattina, e con la sua bici si dirige verso Frasso, a diversi chilometri di distanza: raccoglie zucchine e in estate arriva a lavorare anche 13 ore al giorno. Interviene un altro lavoratore, e mi dice che nessuno di quelli che conosce lui guadagna più di 5 euro l’ora. La media si attesta sui 3 o 4 euro. Cifre che mal si conciliano con gli affitti altissimi che pagano, quasi sempre senza contratto quindi senza sgravi fiscali sulla dichiarazione dei redditi. “Eppure” – interviene Gioia – “basterebbe un controllo incrociato dei vigili urbani, niente di più”. Chiedo se pagano qualcosa al caporale, e dopo alcune titubanze mi dicono che sì, almeno un euro va a lui. Raja però mi dice che lui è fortunato, perché ha la bici e perché il pranzo e l’acqua può portarseli da casa, senza dover pagare 3,50 se non di più per il pasto: molti caporali, infatti, obbligano a comprare direttamente da loro panino e acqua, a prezzi alti e con ingredienti talvolta scaduti o andati a male”. Nessuno, a quanto pare, ha pagato per ottenere il permesso di soggiorno ma, dicono, sappiamo che qualcuno viene costretto a consegnare il passaporto al padrone, come forma di ricatto. Scopro che i caporali sono spesso extracomunitari, magrhebini, sudanesi, sfruttatori ma forse a loro volta vittime di altri carnefici. Quello che Raja sa, è che il suo turbante, prezioso simbolo di appartenenza alla classe sociale del proprio paese, deve rimanere a casa. I caporali lo obbligano a toglierlo, secondo una logica di annientamento della personalità, della riduzione in schiavitù più pura.  Lasciamo Borgo Hermada, quella comunità sospesa tra voglia di integrazione, di affrancamento dalla schiavitù e tra uno Stato impotente che talvolta non vede, e quando invece ha gli occhi non ha gli strumenti e le armi per poter intervenire. Ci sono infatti diversi procedimenti penali in corso, molte battaglie sono state portate a termine in termini politici e in termini di miglioramento delle condizioni di vita: maggiore consapevolezza dei propri diritti, centri di aggregazione, un campo da criquet, sport nazionale indiano, aperto a Sabaudia, dove indiani e italiani si sfidano settimanalmente. Soprattutto, alcuni permessi di soggiorno rilasciati per motivi umanitari: un elemento di forte deterrenza rispetto alla possibilità che i lavoratori denuncino caporali e datori di lavoro, è infatti la questione del permesso di soggiorno. Chi è clandestino, infatti, secondo la Legge Bossi – Fini, se trovato privo di regolari documenti, deve essere immediatamente espulso. Numerosi processi istruiti grazie alle loro preziose testimonianze, sono stati messi a repentaglio proprio perché gli stessi che avevano coraggiosamente denunciato, rischiavano di essere rimpatriati, annullando quindi la testimonianza – chiave dell’intero procedimento.

Umiliati, sfruttati, e poi nuovamente umiliati. E, nonostante tutto, ancora schiavi.

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