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Vogliono andare via, non sanno dove dormire: li ospitano i Rom

Di Antonello Mangano il . Dai territori, Sicilia

Un
centinaio di profughi somali sono a Messina da circa un mese,
provengono dal centro di S. Angelo di Brolo e vogliono andare via
subito. Hanno in tasca il permesso di soggiorno come rifugiati
politici, ma non il documento di viaggio che deve essere rilasciato
dalla questura. I tempi della burocrazia sono lenti, ed i profughi
dormono dove capita, compresa una struttura dell’associazione dei Rom e
la stazione ferroviaria da cui sono stati cacciati in una notte da
psicodramma, con tanto di protezione civile, polizia, associazioni ed
assessori. Nella Sicilia delle emergenze, diventano emergenza anche
poche decine di africani che vogliono prendere un treno per il Nord

Hanno visto una guerra senza fine, un viaggio interminabile lungo mezza
Africa, hanno attraversato il Sahara, superato i campi libici, passato
il Mediterraneo con una barchetta ma non hanno ancora conosciuto la
burocrazia italiana, ovvero quel groviglio di carte bollate, pratiche e
ripartizioni di competenza che può produrre paradossi di ogni tipo.

Ecco quindi poche decine di rifugiati somali che
vogliono andare via e non possono, e con la loro semplice presenza
mandano in tilt le istituzioni di una città di 250mila abitanti.

Sono arrivati a Lampedusa e da lì a S. Angelo di
Brolo, un piccolo centro sui Nebrodi a circa 90 km dal capoluogo, che
da qualche mese ospita un CARA, cioè un centro adibito alla verifica
delle pratiche di quanti richiedono asilo.

Il centro di S. Angelo fu “inaugurato” a settembre
con una plateale protesta dei cittadini, nell’ambito di una delle tante
“emergenze Lampedusa” gonfiate dai toni apocalittici del telegiornale e
depositatesi in forma di allarme nelle menti suggestionabili degli
abitanti di un paese di montagna. Molti cittadini, preoccupati per la
“sicurezza”, si misero di fronte all’edificio intenzionati a non fare
entrare gli stranieri. La struttura è gestita dal consorzio “Sisifo”,
che gestisce anche Lampedusa ed aderisce alla Lega delle Cooperative,
la cui sede palermitana fu occupata per protesta dagli attivisti della
Rete antirazzista nell’aprile del 2007.

Il documento di viaggio

I somali hanno presentato domanda per il
riconoscimento dello status di rifugiato, ottenendolo. Attualmente, nei
fatti, esistono due modi per non diventare un “diniegato”: provenire da
un paese in guerra permanente (Somalia, Eritrea, Sudan) oppure avere
una storia davvero convincente per la commissione. Una ricerca del
“Centri di servizio per il volontariato del Lazio” – datata luglio 2008
– ha calcolato in 15 minuti (7 considerando l’interprete) il tempo
medio a disposizione per spiegare le motivazioni che hanno spinto alla
partenza. E’ difficile avere adeguata assistenza legale, e le barriere
linguistiche fanno il resto. Di conseguenza vale soprattutto il primo
criterio. Dopo cinque mesi nel centro, i somali possono finalmente
andare via. Ma non hanno documenti di identificazione, ed il permesso
di soggiorno non basta.

Devono andare quindi alla questura più vicina, in
questo caso quella di Messina, e farsi rilasciare il c.d. “documento di
viaggio”, in mancanza del quale non possono essere identificati in caso
di controllo, non possono avere una residenza, il codice fiscale, la
tessera sanitaria, un contratto di lavoro. Occorre dunque aspettare. Ma
dove dormire? E cosa mangiare? Solo le marche da bollo costano 50
euro…

Il sistema dell’accoglienza della città fa quello
che può: volontariato laico e cattolico, tra mensa e posti letto,
possono assicurare assistenza ad un numero limitato di persone. Per una
cinquantina di somali l’alternativa è dormire alla stazione, cosa che
avviene per diverse notti, finché le Ferrovie non chiudono le porte per
“ragioni di sicurezza”.

La patata bollente

Questa volta i somali non ne possono più, e
protestano. Ed ecco una lunga notte con assessori, protezione civile,
semplici cittadini, associazioni e polizia. In mezzo a questo piccolo
psicodramma, frutto della distanza abissale tra un frammento dei drammi
del mondo e la lentezza senza rimedio della burocrazia, arriva un
signore con la sua automobile: “Cento anni fa, quando ci fu il
terremoto, tutto il mondo venne a darci una mano. Oggi noi possiamo
aiutare una piccola parte del mondo”. E fa salire cinque persone sulla
sua automobile, li ospita lui: problema risolto per una buona
percentuale.

Un’altra decina li ospita il presidente
dell’associazione Baktolò Drom (La strada della fortuna), un rom
kossovaro che ha li ha visti – “non sapevano dove andare” – ed ha
aperto loro il campo nomadi. Per il resto si utilizzerà la palestra di
una scuola attrezzata dalla protezione civile.

Ma questa non è né un’emergenza, né una
scocciatura. L’accoglienza è in prima istanza un dovere giuridico, ma
può anche essere una opportunità.

La vicinanza di S. Angelo rende il problema
strutturale, perché la questura sta a Messina. La città potrebbe
inserirsi nel circuito SPRAR, ovvero il sistema di protezione del
Ministero dell’Interno che tra le altre cose permette ai centri urbani
di gestire l’accoglienza e l’assistenza ai rifugiati, oppure a coloro
che sono in attesa dei documenti. Riace, Caulonia e Stignano, tre
piccoli centri della locride, sono gli esempi più noti di comuni che
hanno rivitalizzato i loro borghi quasi cancellati dall’emigrazione con
progetti di accoglienza, che non sono atti di carità ma doveri nei
confronti di persone che hanno diritto alla protezione umanitaria.

Ma chi sono questi africani? Le tv parlano solo di
clandestini, e spesso anche gli operatori istituzionali non hanno le
idee chiare. I rifugiati sono persone che – in base alle convenzioni
internazionali firmate dall’Italia – devono essere accolte e protette.
Non sono una “patata bollente”: se una città va in tilt per poche
decine di persone che vogliono andar via al più presto, cosa
succederebbe se volessero restare, come è loro diritto?

Nelle stesse ore, tutta Italia osserva l’emergenza
degli immigrati che arrivano a Lampedusa, mentre nella parte nord della
Sicilia il dramma è di quelli che non riescono ad andare via.

“Da che parte è Roma? Si può andare a piedi?”,
chiedono ad un volontario meravigliato. Ma dopo che hanno raccontato la
loro storia si capisce che ogni punto di vista è relativo. Il viaggio
dalla Somalia, il Sahara, sette giorni di cammino, tre dei quali senza
mangiare e bere sono fotogrammi di una esperienza di fronte alla quale
le unità di misura si dilatano, le difficoltà si rimpiccioliscono.

 

Somalia – Italia, una lunga storia

Mogadiscio è ormai da anni un territorio senza speranza, dove la guerra fa parte del paesaggio.
Tra corti islamiche e signori della guerra, è facile attribuire il
conflitto al carattere anomico dei locali dimenticando, andando a
ritroso nel tempo, la disastrosa e recente guerra degli USA alle corte
islamiche ed ai signori della guerra come Aidid, costate varie migliaia
di morti ed un solco incolmabile di diffidenza; la fallimentare
missione italiana culminata con le torture della Brigata Folgore,
ricordiamo ad esempio gli elettrodi applicati ai testicoli di
prigionieri innocenti; le manovre a base di faccendieri e servizi
segreti che trasformarono il corno d’Africa in una grande discarica di
rifiuti tossici e radioattivi, divenute pubbliche dopo l’omicidio di
Milan Hrovatin e Ilaria Alpi; gli scandali della mala-cooperazione ai
tempi del Partito Socialista; la disastrosa colonizzazione di Italia
(gran parte del territorio), Francia e Gran Bretagna.

Non siamo innocenti, dunque, la Somalia è anche un
problema nostro. Che i drammi dell’Africa occidentale vengano a
disturbarci direttamente a casa è purtroppo una delle conseguenze più
fastidiose di un pianeta rigidamente diviso tra una enclave di
benessere e sicurezza ed una gigantesca periferia in fiamme, per colpe
non solo sue. Che tutti i telegiornali sono sappiano fare altro che
ripetere la solita cantilena, le stesse parole ossessive, da un lato
l’allarme (invasione, emergenza), dall’altro pietà (carrette del mare,
disperati) è una prova di quanto sia inutile, e forse dannosa,
l’informazione televisiva italiana.

“No problem, It’s fine”, dice Ahmed, con la tutta
la pazienza dell’Africa negli occhi. Vuole andare in Europa, ha ancora
molta strada da fare.

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