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Il nuovo autunno caldo dell’ingiustizia italiana

Di Chiara Spagnolo il . Calabria, Dai territori

LA STORIA si ripete. Dopo il pm di Catanzaro Luigi De Magistris tocca ai
colleghi salernitani Gabriella Nuzzi e Dionigi Verasani diventare protagonisti
del nuovo autunno caldo dell’ingiustizia all’italiana. Per  i due
magistrati, “colpevoli” di avere messo le mani nel marcio della
Calabria, pochi giorni fa il Csm ha avviato le procedure di trasferimento. Sono
accusati di avere utilizzato metodi poco ortodossi, nelle perquisizioni
disposte nei confronti di sette magistrati della Procura di Catanzaro ed
eseguite il 2 dicembre scorso, il primo giorno di quella che ormai è passata
allo storia come la “guerra tra le Procure”. Una frase fatta. Un modo
semplice e comodo per sintetizzare la gravità di fatti che non hanno precedenti
nella storia giudiziaria italiana e per spostare l’attenzione dell’opinione
pubblica dal contenuto dell’indagine di Salerno alle modalità con cui
l’indagine è stata portata avanti.
La storia si ripete. Identica ad un anno fa, anche sotto questo aspetto. Allora
bisognava far dimenticare ai cittadini “Why not” e
“Poseidone”, i soldi dei calabresi finiti letteralmente a mare, i
posti di lavoro venduti al miglior offerente, le elezioni viziate da accordi e
ricatti. Oggi cambiano i protagonisti, ma restano immutate forma e sostanza di
un modo d’agire che ha il marchio del made in Italy, che cerca di rendere la
magistratura sempre più casta e le leggi sempre più inutili. In quest’ultimo
scorcio d’autunno, infatti, è toccato ai pm Gabriella Nuzzi e Dionigio Verasani
squarciare il velo sui nuovi scandali di Calabria. Appoggiati dal procuratore
capo Luigi Apicella e da altri quattro colleghi salernitani, Nuzzi e Verasani
hanno creduto di poter portare a compimento alcune indagini delicatissime. Non
hanno scelto loro di indagare. È il lavoro in quel distretto giudiziario che
glielo impone. Nella rovente estate del 2007 si sono ritrovati tra le mani
denunce scottanti, hanno scavato, cercato di capire, verificato, interrogato.
Quello che hanno creduto di trovare sotto il tappeto è il marcio più marcio che
si sia mai visto da anni. Legami perversi tra politica e magistratura, tra
imprenditoria e magistratura, tra potere e magistratura. Collusioni,
corruzione, indagini inquinate, processi in vendita. Tutto e ancora di più.
Hanno delineato un quadro devastante, nelle 1700 pagine del decreto di
perquisizione con cui il 2 dicembre si sono presentati a Catanzaro. Quel
decreto oggi è stato reso pubblico: si trova facilmente su internet e chiunque
può leggerlo per rendersi conto delle motivazioni che hanno portato
all’emissione di numerosi avvisi di garanzia per reati gravissimi. Sotto accusa
vengono messi i vertici della magistratura catanzarese, gli stessi che – a
poche ore dalle perquisizioni – hanno pensato bene di firmare dei
“contro-avvisi” di garanzia, accusando i colleghi campani di abuso
d’ufficio, e che oggi sono travolti dalla stessa procedura di trasferimento del
Csm (Salvatore Curcio, Alfredo Garbati e Domenico De Lorenzo). Avviso contro
avviso, dunque. Sequestro contro sequestro. Di quelle famose carte dell’inchiesta
“Why not”, che la Procura di Salerno chiede inutilmente da un anno a
quella di Catanzaro. Un paradosso giudiziario che lascia attoniti i semplici
cittadini, ma che nessuno si è sforzato di commentare. Anzi, la maggior parte
delle voci che si sono levate negli ultimi giorni, hanno gridato pesanti atti
d’accusa contro i pubblici ministeri di Salerno, colpevoli di avere usato
metodi troppo invasivi nei confronti dei colleghi e di avere messo in piedi un
teorema che viene definito inconsistente, secondo il quale, nel capoluogo
calabrese sarebbe stato ordito un vero e proprio complotto per far trasferire
De Magistris e bloccare così le sue inchieste. La stessa Anm, l’organo
teoricamente deputato a difendere i magistrati, ha tacciato Apicella e i suoi
sostituti di facile protagonismo, mentre il Csm ha aperto una procedura
disciplinare che, con tutta probabilità, finirà con il trasferimento dei
magistrati “incriminati” e l’oblìo delle inchieste su Catanzaro.
La storia si ripete. Identica a se stessa e, se possibile, ancora più crudele.
Nel silenzio di un’informazione allineata a schemi precostituiti e nel clamore
di una politica che aspettava solo l’occasione per affrettare il varo di una
pessima riforma della giustizia. I cittadini, dal canto loro, guardano e non capiscono.
In realtà, non ne hanno la possibilità. Perché nel baillame degli ultimi
giorni, pochi dicono che la Procura della Repubblica di Salerno stava svolgendo
le funzioni che la legge gli assegna, ovvero stava indagando su eventuali reati
che sarebbero stati compiuti dai colleghi in servizio a Catanzaro. Nessuno si
affanna a precisare che le indagini sono ancora in corso e che,  in ogni
caso, gli indagati “eccellenti” avranno la possibilità di difendersi
e dimostrare le propria innocenza nei numerosi gradi di giudizio che la
giustizia italiana prevede per tutti i cittadini. Purtroppo è quel “per
tutti” che, in questa storia, sta venendo pericolosamente meno. Perché già
per la seconda volta, nel giro di due anni, capita che le indagini che lambiscono
i rapporti perversi tra la politica, l’imprenditoria e la magistratura vengano
fermate con metodi violenti. Con un accanimento che trasuda ansia di mettere la
parola fine ad inchieste che potrebbero rivelare segreti inconfessabili. Se
così non fosse, perché fermarle? Perché usare diversi metri e diverse misure se
gli indagati sono parlamentari e magistrati oppure semplici cittadini? Forse
che l’Italia non è più una democrazia? Guardando ciò che sta accadendo tra
Catanzaro, Roma e Salerno, sembrerebbe proprio di no.

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