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La Jolly Rosso

Di Anna Foti il . Calabria, Internazionale

In particolare la procura di Paola ha condotto le indagini per accertare i reati di smaltimento illegale di rifiuti e occupazione abusiva dell’area demaniale. Il rinvio a giudizio della società di Ignazio Messina, proprietaria della ex Jolly Rosso, e della Mo.Smo.De sas che si era occupata della demolizione della nave, è arrivato nel marzo 2007.

Secondo l’inchiesta pubblicata su L’Espresso quella stessa imbarcazione aveva trasportato nel 1989 duemila tonnellate di uranio dal Libano a Porto Marghera, dove poi questo rifiuto radioattivo, nonostante gli altissimi rischi ambientali, era stato ugualmente smaltito. Mentre il relitto della Jolly Rosso si arrugginisce sulle spiagge di Amantea, la questione continua a scottare. L’assoluzione degli imputati conseguita al dibattimento, infatti, non convince il procuratore Francesco Greco che chiede al gip di riaprire le indagini.

L’inchiesta della procura di Paola, avviata nel 2004 dopo le parentesi di Reggio Calabria e Lamezia Terme, ha fatto seguito anche alle dichiarazioni di un pentito che riferisce delle cosiddette “Navi a perdere” utilizzate, in accordo con la criminalità organizzata, per smaltire rifiuti scomodi perché tossici.

Pur avendo individuato le discariche abusive di Grassullo (Amantea) e Foresta (Serra d’Aiello), dove si presume sia stato interrato il carico di rifiuti trasportato dalla motonave Rosso, l’inchiesta giudiziaria approda solo al capo di imputazione rubricato come abbandono di rifiuti in suolo pubblico e occupazione abusivo di suolo demaniale. Sebbene, infatti, sia stato fugato il dubbio di contaminazione radioattiva delle acque del cosentino, rimane da chiedersi come mai, in quel bacino territoriale privo di fabbriche inquinanti, il numero di persone affette da tumori e forme di leucemia continui ad essere in forte aumento. 

 
Le navi a perdere

Troppe incognite, nessuna risposta precisa in merito ad un vicenda che forse potrebbe classificare la Jolly Rosso come una della “navi a perdere” mancate. Non scompare, perché si arena invece di affondare. Intanto nel 2006 si registra il ritrovamento, ad una profondità di 400 metri, a 4-5 miglia dalla costa di Cetraro, di un‘imbarcazione lunga un centinaio di metri e larga una ventina. Un altro corpo estraneo, assente nelle carte nautiche del 1992 e poi riapparso in quelle del 1993 sotto la denominazione di relitto misterioso. Tutto sembrerebbe corrispondere.

Potrebbe trattarsi della Cunski, la nave che scomparve all’improvviso nell’ottobre del 1992, come era stato deciso. Ma da chi? Bisognerebbe chiederlo al collaboratore di giustizia che l’ha espressamente citata e alla compagnia armatrice di Ignazio Messina proprietaria di questa come della Jolly Rosso, già oggetto delle indagini condotte dal procuratore Francesco Greco. Un nesso potrebbe esserci e il procuratore Greco lo aveva fiutato già prima dell’assoluzione della società Messina. Il sospetto del trasporto di scorie radioattive di navi come queste, in viaggio dall’Europa all’Africa, rimane concreto. E i dubbi incalzano quando lo stesso collaboratore di giustizia riferisce di avere partecipato alle operazioni di affondamento di diverse navi tossiche nei nostri mari, compresa la Jolly Rosso che avrebbe dovuto affondare a Paola. Le correnti delle acque marine spinsero fino a Campora San Giovanni, il luogo dell’affondamento.

Nessun rischio, la protezione delle cosche locali e una paga di 800 milioni di veccie lire per ogni affondamento. Secondo queste dichiarazioni, quindi, le navi tossiche furono tante e tutte colate a picco nei nostri mari. Se così fosse, perchè nessuna inchiesta, condotta in questo senso, è sfociata in dibattimento e perché nessuna sentenza di condanna è stata emessa? 

La ‘ndrangheta cosentina

Mentre sono state oltre cinquanta le navi affondate nel Mediterraneo nel decennio 1980/1990, cresce il sospetto di un traffico che si servirebbe dell’interramento in zone segrete e nascoste della Calabria e dell’affondamento di navi per smaltire rifiuti nocivi. Un traffico che sembra coinvolgere anche altre zone del Sud Italia come è emerso dalle dichiarazioni, sempre richiamate dall’inchiesta giornalistica pubblicata su L’Espresso, del pentito della ‘Ndrangheta. Una criminalità, dunque, di chiaro stampo mafioso che, nel caso della ex Jolly Rosso, si inserisce in un contesto dominato dal clan Muto, quale quello di Amantea, il cui alto livello di infiltrazione è stato proprio recentemente oggetto di indagine.

Nelle scorse settimane tornata alla ribalta l’inchiesta, denominata Nepetia e coordinata dal procuratore aggiunta antimafia Mario Spagnuolo, che ha inferto un duro colpo alla cosidetta “’ndrangheta del mare”, mettendo in luce l’alleanza che i clan Gentile di Amantea e Muto di Cetraro avrebbero stretto per gestire la raccolta di rifiuti nella zona dell’alto tirrenico – cosentino e il servizio di trasporto turistico verso le isole Eolie con la motonave Benedetta II ormeggiata dentro il porto di Amantea. Senza dimenticare la commissione d’accesso insediatasi sempre lo scorso gennaio presso il Comune di Amantea per far luce sulla gestione del porto della cittadina cosentina, all’interno del quale aveva sede un immobile che fungeva da base logistica del clan.

Senza dimenticare le possibili connivenze con la politica e il rinvio a giudizio per concorso esterno in associazione mafiosa del consigliere regionale Franco Larupa e dell’ex assessore comunale Tommaso Signorelli. Il dibattimento si aprirà nell’aprile del 2009. 

I traffici mondiali e le morti sospette

Purtroppo i segni di questi traffici potrebbero essere molti di più. Basti pensare alla denuncia dei mesi scorsi di Angelo Surace, sindaco di Cosoleto, comune aspromontano in provincia di Reggio Calabria, secondo la quale il numero alto di tumori contratti dalla popolazione di quel territorio sarebbe ascrivibile alla presenza di fattori inquinanti. Non dimentichiamo che all’epoca dell’indagine coordinata dal procuratore reggino Francesco Neri, poi archiviata nel 2000, che aveva accertato il legame tra lo spiaggiamento della ex Jolly Rosso e l’affondamento della Rigel al largo di capo Spartivento, emerse un nesso tra i traffici di armi destinati alle ‘ndrine aspromontane e gli inabissamenti di navi e le operazioni di interramento. Ma allargando lo sguardo ad altre regioni limitrofe, non solo il traffico di armi sarebbe la contropartita del deposito di veleni negli entroterra. Anche a Potenza, infatti, un’inchiesta condotta dal procuratore Nicola Maria Pace e dedicata al traffico illegale di plutonio, è stata favorita dalle dichiarazioni del pentito della ‘Ndrangheta che conosceva i luoghi esatti del deposito dei fusti radioattivi. Un traffico tra Italia e Iraq su cui ha tentato di far luce la voce coraggiosa del docente barese Angelo Chimienti, impegnato per svelare i retroscena del nucleare. Decisiva anche la figura del professore istriano Giulio Brautti, progettista delle ultracentrifughe per la produzione di uranio. Entrambi morti in circostanze sospette. La sede dello smaltimento illegale sarebbe stato il centro Enea-Sogin della Trisaia di Rotondella in provincia di Matera, secondo per pericolosità. Un filo oscuro potrebbe unire il destino dei due docenti alla morte improvvisa del capitano De Grazia che aveva fatto tappa a Matera per incontrare il procuratore Pace, proprio nel dicembre del 1995 in quell’ultimo viaggio verso La Spezia per interrogare l’equipaggio della motonave Rosso.

Lo stesso collaboratore di giustizia aveva riferito di un mancato accordo tra tutte le ‘ndrine aspromontane per l’interramento, ecco perché l
’apertura alla Basilicata e l’accordo con il boss di Novi Siri, già in trattative con il centro nucleare di Trisaia. Una matassa che si infittisce proprio mentre, con l’intento di venirne a capo, si cercano le estremità delle sue fila. Per contrastare effetti devastanti che tali veleni potrebbero continuare a causare sulla salute di persone e ambiente e per prevenire altri traffici che espongano a tale rischio la nostra e altre regioni, è necessario un impegno congiunto di politica, magistratura e informazione.

Ma forse ancor prima è necessaria la volontà di fare chiarezza. Il comitato per la Verità di Legambiente, presentato a Roma nei mesi scorsi, proprio per sollecitarla, adesso avrà voce e risorse anche a Reggio Calabria.

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